Big Mama Thornton with The Muddy Waters Blues Band

Big Mama Thornton with the Muddy Waters Blues Band CD cover – 1966

Quando Bessie Smith morì nel lontano 1937, Willie Mae Thornton era nata da quasi undici anni. È bello supporre che fu allora che Bessie le passò il testimone.
Willie Mae, con un padre predicatore e una madre cantante in chiesa, era destinata a cantare il gospel, e invece agli inizi degli anni 1940 a quattordici anni lasciò la sua città natale, Montgomery, Alabama, e s’imbarcò nella rivista itinerante di Sammy Green con base ad Atlanta, Hot Harlem Revue. Vi lavorò per sette anni girando i teatri del sud, cantando e ballando il blues, imparando a stare sul palcoscenico e continuando a suonare l’armonica e la batteria, strumenti acquisiti da autodidatta. Verso la fine di quel decennio decise di stabilirsi a Houston, attratta dal calamitante terreno del R&B texano, esibendosi nei locali della zona e dando il via a due collaborazioni importanti per la sua carriera immediata e del decennio successivo: con il suo scopritore Johnny Otis e la sua band, prevalentemente in tour sulla costa occidentale, e con l’impresario Don Robey, boss texano di Duke/Peacock Records.
Divenne Big Mama nel momento in cui una locandina del teatro Apollo di New York, affissa per la pubblicità di un contest, recitava per contrasto: Big Mama Thornton and Little Esther. Là esordì con Have Mercy, Mercy, Baby, hit dei Dominoes, assicurandosi la serata dopo; la piccola Ester ovviamente era la meravigliosa Esther Phillips, anche lei pupilla di Johnny Otis.

È il 1953 il suo anno di svolta. Mentre è in tour con Junior Parker e Johnny Ace esce il suo ultimo lavoro per Peacock, registrato a Hollywood con Otis: diventerà il suo unico, grande hit, oggi oggetto di culto per i collezionisti. Da un lato la spiritata Nightmare con Otis al vibrafono, dall’altro l’esplosiva, graffiante, esplicita Hound Dog, consegnatale scritta su un sacchetto di carta da due autori ventenni studenti di college, ebrei della costa est emigrati con la famiglia a L.A. negli anni 1950: Jerry Leiber e Mike Stoller (v. Leiber & Stoller), che già da teenager avevano riscosso un successo non casuale (pare però che Johnny Otis ne sia stato coautore). Il testo è d’effetto pur trattando la comune materia della promessa d’amore infranta, e coglie la simbologia espressiva nera, quella che con poche pennellate dipinge un affresco intero, pur sempre dai contorni sfumati. Una come Willie Mae, ormai un nome nel circuito del sud, poteva credibilmente interpretare con il suo fantastico strumento vocale e il suo caratteristico growl, la paladina femminista contro l’uomo possessivo.

Willie Mae 'Big Mama' Thornton, Night Mare, 45 rpm Peacock Records

La canzone scritta è metà dell’opera, l’altra metà sta nella personalità di chi la interpreta, ed è soprattutto da qui che parte o non parte il successo di una versione rispetto a un’altra.
Willie Mae la fa sua, cambia qualche parola, ci mette il suo holler, la sua verve, il suo sarcasmo, con la band a garantire una ritmica efficace e Carl Pete ‘Guitar’ Lewis (altra scoperta di Otis, e uno dei migliori sideman del periodo insieme a Jimmy Nolen e Wayne Bennett) che la marchia a fuoco con una serie di piccoli lick rimasti scolpiti nella storia del rhythm and blues.
Lei però s’accorge d’aver sfondato solo quando sente annunciare per radio il suo nome e la canzone, per il resto l’affare economico le rimane estraneo; negli anni a seguire la canterà e registrerà molte volte, ma l’originale non dovrebbe mancare in nessuna collezione (si può trovare in un compact MCA del 1992, “Hound Dog: The Peacock Recordings”, e si può sentire in calce all’articolo Live in Europe). Un altro segnale del successo del disco fu che uscì un answer song maschile, Bear Cat di Rufus Thomas, con la stessa melodia e successo anche per lui e la neonata Sun Records, costato caro perché persero la causa intentata da Peacock per plagio.

Non si può parlare di Big Mama Thornton senza parlare di Hound Dog, non solo perché la identifica ed è il suo signature song, ma anche perché rappresenta un cliché sfortunato occorso agli interpreti che si son visti soffiare il loro successo, e questo fu proprio quello che accadde a una delle più grandi, se non la più grande, blues singer del dopoguerra, solido ponte di continuità con quelle classiche degli anni 1920/1940.
Il brano le permise un’immediata notorietà nazionale, ma non le garantì ricavi da diritti nonostante vendette più di due milioni di copie. Tutto quello che ebbe fu un assegno da cinquecento dollari, e dopo pochi anni fu dimenticata dal pubblico, eclissata dalla maggior fortuna che ne ricavò Elvis Presley, il quale nell’immaginario collettivo divenne l’originale interprete della canzone, che tra l’altro perse il suo significato originario mistificandolo. Fu la generazione hippie a riscoprire Big Mama Thornton indirettamente, grazie all’esibizione del 1967 al Monterey Pop di un’ancora relativamente acerba Janis Joplin (acerba rispetto all’evoluzione che ebbe in poco tempo) che lanciò la cantante di Port Arthur nel mito con un brano di Willie Mae, Ball and Chain, sofferente canovaccio blues della prigione.

Big Mama Thornton and T-Bone Walker at Ann Arbor Blues Festival 1970

Per la maggior parte degli anni 1960 Big Mama scontò il fatto di non avere un gruppo su misura e la mancanza di una continuità artistica e produttiva di valore dopo che Peacock la mollò alla fine degli anni 1950 perché considerata ormai fuori dalle tendenze musicali del periodo, e/o forse per bisticci di tipo economico.
Inoltre, tra la fine degli anni 1950 e la metà degli anni 1960, ci fu una grande crisi commerciale del blues, e difficoltà a trovare buoni ingaggi anche per i colleghi uomini, meno penalizzati delle donne.
È alla fine di quel periodo (1966) che Chris Strachwitz, insegnante e produttore californiano appassionato di blues, impegnato a organizzare eventi dal vivo e sedute discografiche attraverso la sua Arhoolie, e che per questo fece la sua buona parte nel favorire il blues revival americano degli anni 1960, ha la possibilità di conoscere e di far suonare in un campus universitario a Berkeley Muddy Waters e la sua band, di passaggio a San Francisco per un concerto in un club.
La prima parte dell’evento vide Mance Lipscomb, Clifton Chenier e Lightnin’ Hopkins, la seconda Muddy e il suo gruppo. A quel punto Strachwitz, essendo stato l’anno prima in Europa per l’American Folk Blues Festival con Thornton, Fred McDowell, Eddie Boyd e Buddy Guy, si ricordò di quanto bene era stata Big Mama accompagnata dai musicisti di Chicago in seduta d’incisione a Londra (Big Mama Thornton in Europe, Arhoolie 9056).
Così, quando anche lei appare a Frisco il produttore non si fa scappare l’occasione di metterla insieme alla band di Muddy, soprattutto dopo che vide sfumare la possibilità di accoppiarla con ‘Gatemouth’ Brown (suo compagno d’etichetta e di tour negli anni 1950).
Come conferma Strachwitz nelle note, Muddy ovviamente ha interesse a far lavorare la sua band quanto più possibile così, il 25 aprile del 1966, lui, Big Mama, James Cotton, Otis Spann, Samuel Lawhorn, Luther Johnson (al basso) e Francis Clay entrano ai Coast Recorders, per una sessione promettente anche se improvvisata, al di là dei brani che Thornton e il suo manager, Jim Moore, hanno già in mente di registrare.
In questo dischetto (n. 9043) ci sono diciassette tracce, le prime dieci catturate magistralmente e lasciate missate in stereo dal registratore a tre piste originariamente usato, le altre sette missate nel 2004 con meno effetto stereo, inedite.

Muddy non può o non sembra interessato a giocar fuori casa (leggi: con altra etichetta), e pare che si defili e faccia lavorare i suoi, come si preannuncia in I’m Feeling Alright, nella quale Cotton fa un lavoro pregevole all’armonica, arricchendo d’un sentimento incontenibile per chi ascolta anche se trattenuto da chi suona, aderente alla narrazione forte ma non sopra le righe di Big Mama. La band è la classica polifonia di Chicago, con piccole frasi uscenti da Cotton, Spann e Lawhorn, fugaci come schegge, mentre Francis Clay è esente da giudizio, a un livello indiscutibile perché tutto quello che fa è pura estetica del ritmo.
E dopo la gioia arriva Sometimes I Have a Heartache, dove Spann e Cotton forniscono cornice al vibrante lamento di Big Mama, mentre le chitarre (Lawhorn e il basso di Johnson) l’accompagnano verso i gradini dell’inferno. Ancora con effetto eco è la superba Black Rat, da una musicista di forte ispirazione per Big Mama accreditata come Minnie Lawlars, in arte Memphis Minnie firmante con il cognome del suo terzo e ultimo marito, Ernest Lawlars, detto Little Son Joe (gli altri i più noti Casey Bill Weldon e ‘Kansas’ Joe McCoy, quest’ultimo suo partner anche in numerosi duetti). Non è escluso che l’idea di Hound Dog sia stata ispirata da Black Rat (nel campionario di Memphis Minnie c’è anche un Black Cat). Nella versione originale lui è rappresentato come un ratto, cioè un animale sfruttatore che appena lei esce di casa s’intrufola nella sua cucina e nel suo letto, lasciando tracce evidenti del suo passaggio, ma qui Thornton, oltre al chorus, usa solo una delle tre strofe originali: dalla riduzione si ricava un ritratto accennato e fosco, cupo e privo di spunti comici.

I Smell a Rat, 45 rpm record (Peacock label)

La parabola del topo che s’insinua sarà scritta anche da George Jackson, vista da parte maschile e dandogli i connotati dell’infedeltà con il grande soul singer Clarence Carter (per la cronaca, anche lui di Montgomery), che con il suo limpido baritono canta in I Smell a Rat della presenza invisibile di uno “sporco, meschino topo”, ma del tipo “con la testa grossa e due gambe”. Essendo la frase I smell a rat un modo di dire comune, equivalente al nostro “sentire puzza di bruciato”, ha avuto largo uso in canzoni diverse. Big Mama incise la sua I Smell a Rat nel 1953 sulla falsariga di Hound Dog.
Passa anche la ballata Life Goes On, lentamente distillata con l’aiuto di Spann, prima di sentire in Everything Gonna Be Alright il tipico intro di Muddy Waters, sormontato poi da un Cotton ispirato per tutta la sessione, e a ruota i segnali sparsi di Lawhorn, di Spann, e più avanti ancora di Muddy che tira giù piccoli fulmini zigzaganti dal cielo, tutti legati a un’unica fune trainata anche da Johnson e dalla cantante stessa alla batteria. Il contralto arrochito e fremente di Big Mama si placa in questo slow di cinque minuti che riesce a evitare una latente monotonia grazie a questi maestri del blues che piano lo snocciolano, nell’attesa loro stessi di ciò che Willie Mae ha da dire.
E a proposito del suo dire bisogna notare la colloquialità del suo canto, la facilità e naturalezza con le quali s’esprime, senza artifici. È bello il modo in cui arriva everything gonna be alright al min. 2:41, espressivo e rassicurante: “andrà tutto bene, lo sento nelle mie ossa”.

Torna il terreno più pittoresco insieme alla colorita fantasia della schietta Memphis Minnie, e torna il richiamo fisico, più che metafisico, a un animale stavolta benevolo, il bombo, o calabrone, del quale sente la mancanza, con l’esplicita Big Mama’s Bumble Bee Blues, paradigma spinto che ai suoi tempi non mancò di provocare in Big Bill Broonzy una decisa risposta su un veloce ritmo ragtime (Long Tall Mama): Big Bill e Minnie rivaleggiavano nelle taverne del south side chicagoano.
Gimme a Penny, del suo manager, è presentata nei take 5 e 6, ma Strachwitz precisa che non sono state fatte sei versioni complete, sono piuttosto false partenze. L’effetto drammatico è garantito con la cantante che mendica un importantissimo penny, necessario per chiamare il suo uomo, salvo poi cambiare idea sul finale della n. 6 con una virata inattesa, decidendo invece, con quello stesso penny, di farsi una bevutina, probabilmente sorprendendo lo stesso autore presente in studio. Saggia decisione, Willie Mae.
Altro bel prestito della famiglia Lawlars è la brillante Looking the World Over, registrata nel 1941 da Memphis Minnie per OKeh. Big Mama e la band, scoppiettanti d’energia mai sovratono, l’interpretano benissimo, come tutte quelle della pugnace cantante-chitarrista di Algiers, ma anche l’originale è da non perdere, sia per l’ottimo sonoro che per il talento mordente di Lizzie Douglas, che Thornton ha fatto suo. Non so se Arthur Crudup abbia preso da là l’idea per Look on Yonder’s Wall, o viceversa, perché sono simili.

Big Mama Thornton and Muddy Waters Band in California, 1966
Big Mama con la band di Muddy in California nel 1966

I Feel the Way I Feel e Guide Me Home sono due lenti blues d’ispirazione religiosa, il secondo più marciante. La scena è di Big Mama, il pianista e la sezione ritmica le stanno dietro assecondandola. Nonostante i poteri di Spann di lettura nel pensiero le due non spiccano, forse quel giorno Mama non era in spirito per il gospel.
Wrapped Tight è un baldanzoso mid-shuffle chicagoano, in cui Cotton trilla e ventila come un vaporetto dove Mama è il comandante, Spann e Lawhorn i fuochisti, la base ritmica il motore, e al contempo conferma la miglior resa (in questo disco) della sassy mama sui ritmi sostenuti e pulsanti.
Big Mama’s Shuffle è uno strumentale su uno schema boogie di Lawhorn con Johnson in walkin’ bass, per un gustoso duello di armoniche tra Thornton e Cotton, mentre anche Since I Fell for You è attribuita alla cantante, ma si tratta del bellissimo standard del pianista e direttore d’orchestra Buddy Johnson, ripresa trasversalmente da tanti, dai Sonics a Nina Simone, da Charlie Rich a Dr John, da Barbra Streisand a Tom Waits, da Aaron Neville a Jimmy Witherspoon, da Mavis Staples a Nancy Wilson, da Bette Midler a Gladys Knight e molti altri, come ‘Gatemouth’ Brown. Sostenuta da Spann, la big shouter qui però è come un pesce fuor d’acqua cercando una vena femminile in stile crooner che non le appartiene (soprattutto la vena femminile). Quel brano era nel raggio di Peggy Lee, Billie Holiday o Dinah Washington, quest’ultima l’incise nel 1947 con il suo fulgido aplomb, nello stesso anno in cui uscì da Ella Johnson con l’orchestra del fratello Buddy, e da Annie Laurie con il trio di Paul Gayten.

Chiude Big Mama’s Blues, una specie di lenta versione di I’m Feeling Alright, in cui duetta ancora con Cotton all’armonica, mentre sembrano ricomparire brevi guizzi dalla chitarra di Muddy.
Il disco non è scarso di picchi e di momenti buoni se non ottimi, ma nel complesso ha una resa discontinua, un po’ per una certa aria svagata che aleggia tra i solchi (del resto s’era già nell’atmosfera della Summer of Love) e un po’ per almeno due alt. take a mio parere inutilmente aggiunti (tracce 11 e 13), dilatando senza tuttavia diversificare. Può rimanere infine un po’ di delusione in chi spera di sentire la slide di Muddy: in quei tempi non la suonava tanto, e poi forse non poteva o non ci teneva ad apparire in una sessione non sua e improvvisata.
Rimangono però le testimonianze degli altri: le ruspanti ma compiute, viscerali intonazioni della grande cantante, l’ispirazione di un James Cotton motivato, le intuizioni di un pianista sempre al tocco giusto come Otis Spann, di un tipo speciale che difficilmente si riaffaccerà sulla terra, e l’arte di un maestro dell’accompagnamento ritmico come Francis Clay. Giudicate voi, se è poco o tanto.

Scritto da Sugarbluz // 6 Maggio 2010
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