Tuckers’ Blues e Mardi Gras Cafe, Dallas, TX

Tuckers’ Blues, bringing the blues back home

Trovarsi a Deep Ellum è stata una scelta, ma entrare al Tuckers’ Blues ha avuto a che fare con il caso, come un filo invisibile a tirarmi dentro. Certo è che trovare quel filo non è così difficile a Deep Ellum.
Mezzo blocco a est dall’incrocio di Commerce con Good Latimer ogni fine settimana prende forma il tributo a nomi fondamentali del blues e R&B, ma sono i protagonisti sul palco e l’ambiente semplice e accogliente i punti di forza del club gestito dalle sorelle Tucker, aperto da poco al posto del Blue Cat Blues.
Il locale non è visibile dalla strada e vi si entra da una grossa porta nera al di sopra della quale spicca un’insegna blu al neon, sotto un terrazzino in una piazzetta con i muri dipinti di nero in fondo a un vicolo; il racconto dell’avvicinamento (con la polizia alle calcagna) e della mediazione del bassista Carl Bush per l’ingresso con minore al seguito è nell’articolo Dallas/Fort Worth (per le foto, v. galleria alla fine di questo articolo).
Tocca a Texas Slim scaldare il pubblico e dal punto di vista audio ci riesce invadendo con un rock-blues aggressivo, meno dal punto di vista emozionale. Nonostante il batterista, Steven Richardson, e il bassista, Carl ‘General’ Bush, poi dimostreranno d’essere di stampo blues (credo siano la sezione ritmica della casa), qui s’adattano alle sonorità power trio del suddetto chitarrista e cantante. Esegue brani suoi, ma anche Further up on the Road.
L’atmosfera s’addolcisce con l’arrivo di Tamara Peterson, cantante soul/jazz/blues, presentata da un’esperta emcee che individuo come una delle due sorelle Tucker (l’altra dirige la sala), la quale con ottima dizione e voce calda riassume la storia di B.B. King. Everyday I Have the Blues è un tributo ben riuscito di Tamara a King, ma per il resto esegue soul moderno e patinato. Più avanti scopro che in casa c’è anche Lucky Peterson e che Tamara è sua moglie; sarà lei stessa a dirlo invitandolo poi sul palco.

Probabilmente non avete mai sentito parlare di Sheran Keyton come non ne avevo mai sentito io, però già solo quando la vedo entrare m’illumino perché immagino ciò che potrebbe essere. Non sarà solo la voce strepitosa di Sheran a far piazza pulita, ma anche il suo personaggio: la classica big fat mama meat-shakin’-on-her-bones cattura pubblico e palcoscenico, catalizzati dalla sua figura di cantante e entertainer.
Introdotta con la storia di Etta James, Sheran esordisce con At Last e già qui si nota come tutto il contorno è inutile e potrebbe ben stare da sola, perché tanto si guarda e si sente solo lei.
Se poi il contorno è quello che è, un intimo locale blues afroamericano con accompagnatori esperti (Richardson e Bush), anche se vicino a lei sembrano sparire, potete capire come sia facile esser coinvolti stando nelle vicinanze della portentosa aura di Sheran. Scordatevi le transenne, gli artisti stanchi dal volo transoceanico e a decine di metri di distanza da voi, con il sonoro che si perde e s’inquina prima di trovare la strada alle vostre orecchie. Tiene il microfono a trenta centimetri da tanto la sua emissione è potente, pura emozione che passa con minimo sforzo. Su Mustang Sally è l’apoteosi, e tutti cantiamo ride, Sally, ride!
Una breve pausa non spezza le buone vibrazioni ancora nell’aria. Anzi, per quanto mi riguarda posso metabolizzare l’esser dentro qualcosa che in Italia, non foss’altro che per l’interazione con il pubblico, non può accadere.

Il ritorno della blues diva è preceduto dalla presentatrice, la quale ora racconta di Sam Cooke e, come per le precedenti storie, riesce a commuovere perfino me che conosco già la trama, sarà forse merito dell’inflessione suadente, e delle parole semplici e ben scandite.
In una situazione così è evidente che se dalle corde di Sheran arriva A Change Is Gonna Come, una delle più belle canzoni mai scritte, diventa difficile contenere qualche brivido, e infatti piovono a cascata, se ne intuisce la presenza anche tutt’attorno. Non so che mestiere faccia Malcolm per vivere e neppure Mike, entrambi fratelli della cantante chiamati per un paio di canzoni, ma la sorpresa nel sentire le loro voci calde e soulful è grande, anche se dopo l’annuncio della familiarità me lo potevo aspettare.
Emozioni e divertimento, il succo dell’intero set, come quando Sheran inscena una competizione con Malcolm su un gospel, simulando la parte della perdente, enfatizzando i vocalizzi del fratello e ridicolizzando i propri.
Mrs Peterson torna per un duetto con Sheran e, nonostante quest’ultima l’adombri anche per il fisique du role, Tamara fa finalmente arrivare un po’ di blues, compensando l’irruenza e il registro tonante dell’altra con un controcanto caldo e armonioso, insinuantesi nelle pieghe della big mama su un repertorio classic blues.
La parte di Sheran è speziata da pose navigate e battute maliziose, interagendo con il pubblico e invitando, con il sostegno dell’altra, a versare quanti più possibili dollari dentro la custodia aperta della chitarra. Scende dal palco, s’infila banconote nella scollatura e si prevede voglia ringraziare a modo suo un ammiratore che per la seconda volta sta donando e, infatti, appena costui s’avvicina lei lo branca e appoggia la testa dell’uomo sul suo grosso petto (sorte che sarà riservata anche a qualcuno di mia vecchia conoscenza!).
Il pubblico esulta, mio figlio è in delirio. Ecco cosa capita a essere direttamente sotto la scena di una blues mama. Accanto al nostro tavolo c’è un’elegante coppia afroamericana che come noi ha un minore al seguito, una ragazzina. La donna, habitué, ci sorride e partecipa ballando e lanciando commenti come tradizione vuole.

Sheran s’allontana, rimane Tamara ed entra Lucky Peterson, sciolto e con bella voce in un siparietto con la moglie, mimando una disputa di coppia ancora prima di salire sul palco: è I Don’t Like You but I Love You, dal loro disco uscito da poco.
Lucky, anche organista, sale e imbraccia disinvolto la chitarra, e dalle prime note esce un distillato blues suonato con parsimonia ed enfasi, diversamente da come fa fuori casa. Ricordo una bella Dust My Broom ma soprattutto una splendida Tin Pan Alley, e mai situazione m’è sembrata più adatta per sentire dal vivo una delle mie preferite, anche se Deep Ellum non è the roughest place I’ve ever been (nonostante la fama dei quartieri neri, e il tradizionale Deep Elem Blues), ma un posto che m’è parso tranquillo, tuttavia non molto frequentato (non da pedoni, almeno).
Verso il finale tutti sono schierati per un medley condotto da Lucky con classici del blues, del gospel e del soul, e brani ruffiani come Superstitious e Pride and Joy; quando finisce rimaniamo tutti esilarati per un po’.
Tamara è seduta su uno sgabello, dall’altra parte c’è il batterista, grosso e abbracciato alla sua ragazza, entrambi con la schiena al muro. Faccio due chiacchiere con Tamara, lei è molto gentile, ma il volume della musica è molto alto e dobbiamo urlarci nelle orecchie. Lucky, da marito premuroso, le comunica che va fuori un attimo.
Vorrei salutare Carl Bush, le proprietarie, Sheran, ma nel buio non riesco a individuare nessuno, così usciamo. Fuori m’attardo per una foto, fatico a lasciare il mitologico quartiere.
Non siamo ancora lontani e ci sentiamo chiamare: è la signora Tucker che ci vuole salutare e ringraziare per esser stati lì, e scopro che è anche flight attendant per Delta. Che caso, mi torna in mente Harlem, perché anche la direttrice di sala di Sylvia’s come “vero” lavoro faceva la hostess per una compagnia aerea. È solo la mia seconda notte a Dallas, ed ecco qui.

Mardi Gras Café, James ‘Sweet James’ Bryant Benefit

Il Mardi Gras Café è alla base di un grattacielo in una zona di palazzi e uffici, un po’ nascosto.
A prima vista sembra solo un bar, poi scopro che è anche un ristorante cajun dal buon nome a Dallas, frequentato durante la settimana come dopolavoro e con esibizioni di talenti della zona di solito comincianti non più tardi delle 19-19,30, orario comune a molti locali tranne che al venerdì e al sabato, quando i live act iniziano dopo le 21,00. La domenica in genere è giornata di riposo, oppure i locali chiudono entro le nove di sera.
In questo caso è addirittura domenica 15 agosto, e non c’è tanto movimento in giro. Sono passate da non molto le cinque del pomeriggio ma stanno già suonando, anche se c’è poca gente.
L’occasione è una raccolta fondi per James ‘Sweet James’ Bryant, artista locale noto ai musicisti di DFW, occasionalmente chitarrista ma più spesso blues supporter e poeta con l’hobby di fabbricare dream catchers.
Al bancone ci sono due file di sgabelli rivolti verso la scena, e a riscaldare l’ambiente c’è Leo Hull che accompagna un chitarrista-cantante che non conosco, alla batteria una donna. Stanno suonando una versione quasi country di Polk Salad Annie ed è molto piacevole; siamo circa una ventina di persone compresa la barista e il gruppo, più qualche altro musicista che sta arrivando. È a offerta libera, ma purtroppo il contenitore delle mance alla fine non sarà molto pieno.

L’atmosfera è da private party e anche quando arriverà un po’ di gente permarrà l’ambiente intimo e familiare, sarà che tutti ci sorridiamo come se ci conoscessimo. Oppure forse perché, di lato, ci sono un paio di divani del tipo dismessi da un appartamento, sui quali sono sedute due donne, forse madre e figlia, e altre persone più simili a parenti che ad avventori, forse i gestori del ristorante. Anche quando non sono rivolte verso la scena, stanche di stare girate, le teste delle due donne sembrano seguire la musica, occhi nel vuoto per non fissare la gente di fronte, piedi che battono il tempo. Se ne fossi capace lo disegnerei, ritratto di mestizia e serenità.
Arrivano Hash Brown e Miss Marcy, il primo accompagna alla chitarra e la seconda canta standard come Big Boss Man, ma anche altre meno scontate oltre a classici femminili come Ball and Chain, See See Rider e l’affascinante Why Don’t You Do Right, che ascolto sempre volentieri nonostante l’interpretazione di Jessica Rabbit / Amy Irving sia credo insuperabile. Non dettaglio troppo perché in quei giorni ho visto diverse esibizioni in un breve periodo, quasi tutte con più set, e la memoria ha scartato ciò che meno ha colpito, e poi è valsa la pena anche socializzare e fotografare.
Tornando a Miss Marcy, buona interprete di blues, racconta che il loro amico ‘Sweet James’ è in grande difficoltà perché il residence dove abitava è stato distrutto dalle fiamme, cogliendolo nel sonno. È riuscito a salvarsi “…immaginate che state dormendo e vi svegliate con i piedi in fiamme e tutto attorno il fuoco…”, ma ha perso ogni cosa oltre all’appartamento. Come se non bastasse non ha più nemmeno il lavoro perché faceva il custode nello stesso condominio. Incredibile come la vita possa cambiare, e quasi mai in meglio, dalla sera alla mattina.

È il turno di Mike Morgan con un bassista, un batterista e l’armonica di Hash Brown, per un set di Chicago blues ispirato principalmente a Junior Wells, con le intramontabili Early in the Morning, Snatch It Back and Hold It e Hoodoo Man.
Non tragga in inganno il loro atteggiamento da antieroi: entrambi sono ottimi strumentisti prima che cantanti. Gente che suona senza orpelli e con sobrietà, che cerca di vivere di musica ed è molto rispettata in zona. Sono diretti, nient’altro che blues, ma sembrano delusi per il poco pubblico e di conseguenza lo scarso raccolto.
Durante il successivo “cambio palco” (non avviene nessuna modifica sostanziale) ci sono saluti e chiacchiere, poi Hash Brown e Miss Marcy abbandonano perché quella stessa sera suonano al Key’s Lounge di Fort Worth, dove alla domenica si svolge la Diva Night, in cui Marcy invita a cantare altre dive della scena di DFW.
Torna Mike Morgan con il suo trio a onorare Magic Sam e Lazy Lester (di quest’ultimo, A Word about Women e Sugar Coated Love), buon blues suonato bene, e a seguire riappare Leo Hull con i suoi Texas Blues Machine, virando su vibrazioni decisamente texan rock alla ZZ Top, con brani propri.

Non manca tanto alle nove, orario di chiusura previsto, e mentre m’affliggo della mancanza di Aaron Burton e di Andrea Dawson (in scaletta), la gente comincia ad andarsene. Di Aaron Burton vengo a sapere che è impegnato da Obzeet, altro posticino di Dallas interessante per mangiare e ascoltare buona musica.
Piccola delusione quindi (non se ne ha mai abbastanza), mitigata dall’aver conosciuto una coppia interessante, Dave e Nicole Lyles, pittori-decoratori appassionati di blues che passano il tempo libero con i musicisti della zona e ballando.
È lei a esordire dicendo che le ricordo qualcuno di familiare… strano, rispondo, dato che vengo da molto lontano! Lui indossa una maglietta con un ritratto di Joe Jonas, recentemente ricoverato per infarto e che ora sta meglio. Accenno alla serata al Tuckers’ con Lucky Peterson e gli altri, che naturalmente conoscono, e mi dicono che hanno dipinto un murale di Hash Brown a Deep Ellum, poco distante dal Tuckers’. Mi hanno poi scritto dicendo che hanno “letto con attenzione” il mio resoconto degli hot spot di DFW, approvandolo, e mandandomi la foto del dipinto, che pubblico insieme a uno scatto che gli ho fatto mentre ballavano. Non ho resistito, erano così blues.

Hash Brown portrait by Dave Lyles, Deep Ellum, Dallas
Dave davanti al suo ritratto di Hash Brown a Deep Ellum
Scritto da Sugarbluz // 20 Settembre 2010
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