Dinah Washington – If You Don’t Believe I’m Leaving

Cover of Dinah Washington vinyl "If You Don't Believe I'm Leaving"

Pubblico l’articolo n. 100 su Bluesreviews parlando ancora di Dinah Washington ripartendo dal 1948, quando un suo brano della sessione Mercury con il Rudy Martin Trio, Ain’t Misbehavin’ di Fats Waller, arriva nella classifica race record di Billboard al sesto posto.
All’inizio dell’anno era tornata a Chicago per investire in quello che sarà il quartier generale della sua impresa: una casa al 1518 South Trumbull nel West Side, con due grandi appartamenti, frontespizio in pietra, grandi finestre, un piccolo portico, un giardino sul retro e addirittura una piscina. Lei ci sarebbe stata quando tornava dai tour, ma il vero scopo era sistemare la madre Alice, il fratello (11 anni), le due sorelle (4 e 8), suo figlio (2), l’altro che stava per arrivare, e i vari aiutanti e assistenti.
Dinah aveva portato soldi a casa da quando aveva tredici anni cantando gospel con la madre, e adesso si assumeva la responsabilità finanziaria della famiglia non potendo contare sul padre, Ollie, né sui padri dei suoi figli; a soli ventitré anni era parte di un gruppo ristretto: il 12% di chicagoani neri a possedere una propria casa e un ancor più elitario numero, meno dell’1%, a guadagnare diecimila o più dollari l’anno.
In primavera fece concerti a Pittsburgh al Carnegie Music Hall e a Newport News in Virginia una settimana al Tidewater Athletic Club, dove aveva già dei fan dalle sue precedenti visite con la band di Lionel Hampton. Poi s’unì ancora ai Ravens per due spettacoli ad Atlanta, e fu in occasione della pubblicità di questi eventi che sull’Atlanta Daily World fu annunciata con un titolo che le rimase, “Queen of the Juke Box”.

Dinah Washington & Lionel Hampton on stage at the Strand Theater, NY
Dinah e Lionel Hampton, Strand Theater
New York, genn. 1945
(Frank Driggs Collection)

Dal primo dell’anno J. Petrillo aveva dichiarato un altro sciopero delle registrazioni, ma a differenza del 1942 questa volta le piccole compagnie, inclusa Mercury, prestarono meno attenzione al divieto. Alcune usarono gruppi vocali (non facevano parte del sindacato musicisti) per accompagnare il cantante al posto degli strumenti o sovra-incisero musica registrata prima, altre registrarono in Messico o a Porto Rico, mentre altre ancora ignorarono il divieto oppure avevano messo da parte sufficiente materiale prima dello sciopero.
Mercury in giugno pubblicò West Side Baby e Resolution Blues dalla sessione del 31 dicembre 1947 a New York; entrambi entrarono nei race record di Billboard più suonati dai juke-box. Il 24 giugno andò al Savoy con Illinois Jacquet, e poco dopo Walkin’ and Talkin’ and Cryin’ My Blues Away comparve al 14º posto nella classifica dei race più venduti, poi entrò I Want to Cry al n. 13 della stessa lista.
Dagli elenchi Mercury risultano tre sessioni con accompagnatori sconosciuti, tra giugno e luglio, per tre brani, In the Rain, I Sold My Heart to the Junkman e Long John Blues. Quest’ultimo rimarrà per due mesi nelle classifiche juke-box e per sempre icona dei blues a doppio senso di Dinah. È al limite del volgare se non fosse per l’intonazione quieta e ironica di D, che con classe, economia e schiettezza evoca il suo dentista preferito senza lasciare dubbi sulle sue doti “professionali”, con enunciati come He took out his trusty drill, and he told me to open wide / He said he wouldn’t hurt me, but he’d fill my hole inside, e giochi di parole efficaci come You thrill me when you drill me, supportata solo da un contrabbasso e una chitarra jazz che enfatizzano la scansione chiara del narrato.

Il vinile svedese nel titolo inizia con due brani precedenti questo periodo. Uno è When a Woman Loves a Man, già visto nel primo articolo (Chicago, genn. 1946, prima sess. Mercury e con l’orchestra del trombonista Gus Chappell), l’altro è Mean and Evil Blues con l’orchestra del tenorista Dave Young (agosto 1947), come detto un’estensione dell’Evil Gal Blues di Leonard Feather.
Il 2 agosto tornò al Provident Hospital per la nascita del secondo figlio, Robert Grayson Jr, e il 25 in studio a New York con un altro arrangiatore, l’oboista Mitch Miller, a capo della divisione pop di Mercury. L’accordo era per due ballate romantiche, It’s Too Soon to Know e I’ll Wait, quest’ultima qui presente.
La strumentazione è ridotta al minimo come in Long John Blues (e la chitarra sembra la stessa), forse a causa dello sciopero, però qui non c’è nulla di quella malizia e potenza espressiva, e l’atteggiamento è remissivo. Addirittura riempie un middle chorus canticchiando a bocca chiusa come un usignolo inoffensivo rassegnato a una vita sottomessa, mentre in It’s Too Soon è supportata da un gruppo vocale che crea un sottofondo e un coro atto a sopperire gli strumenti mancanti. È evidente la sua versatilità e come riuscisse a calarsi con credibilità in qualsiasi parte. Miller disse:

She was a natural, bottomless talent. Many times the first take is the best. I would always work for that, try to capture it on a wing […] I would never tell her how to do a phrase, she was the boss in the studio. She told the band what to do. (1)

Mentre un sesto brano dall’inizio del 1948 entrava nelle classifiche juke-box e vendite di Billboard (Am I Asking Too Much), Mercury ricevette ordini per ventimila copie di It’s Too Soon to Know ben prima della pubblicazione. In questo periodo avviene la consacrazione a Broadway come solista al Midtown Royal Roost con l’orchestra di Count Basie, serata che prevedeva anche Miles Davis con un combo in cui figurava Max Roach. Fu di nuovo al Roost il 17 ottobre, con Dizzy Gillespie e la sua orchestra per un grande concerto bop sponsorizzato dal celebre dj jazz di New York, Symphony Sid (Sid Torin), trasmesso da WJZ e raggiungibile in molte parti del paese.
Ben Bart la infilò in un breve tour con un gruppo messo insieme da Joe Thomas, ex tenorsassofonista di Jimmie Lunceford che aveva avuto il permesso dalla vedova Lunceford di chiamare il nuovo gruppo Jimmie Lunceford All-Stars. Arrivarono a Beaumont, TX, all’Harvest Club, poi si diressero in Mississippi e in seguito a Birmingham per un ingaggio teatrale appena prima di Natale.

Cover of Cash Box of Aug. 18, 1951
Da sin.: Ike Carpenter, Dinah e Ben Bart durante una sessione a L.A. Copertina di Cash Box del 18 ag. 1951
(Courtesy of Edna Albert)

Nel periodo di Natale Sallie Martin le chiese di riunirsi al Sallie Martin Singers, ma lei rifiutò non volendo mischiare sacro e profano, ed essendo attesa a Cleveland al Café Tijuana; l’ingaggio era per una sola sera, ma andò così bene che il proprietario estese per una settimana.
A New York ebbe un’altra permanenza al Royal Roost, di due settimane; nel frattempo Mercury aveva pubblicato altri tre dischi e i negozi che vendevano per corrispondenza ora ne avevano abbastanza da poterle dare una sezione a suo nome sui giornali (afroamericani), come succedeva per star consolidate come Louis Jordan e T-Bone Walker e altri emergenti, come The Ravens e Wynonie Harris.
Al marzo 1949 c’è una sessione con un’orchestra intestata al batterista Teddy Stewart, formata dai musicisti di Gillespie, cioè George Hudson, tromba, Rupert Cole e Ernie Wilkins, sax alto, Cecil Payne, sax baritono, James Forman, piano, Freddie Green, chitarra e Ray Brown, basso, alla quale sembrano appartenere How Deep Is the Ocean, Give Me Back My Tears, Good Daddy Blues, Baby Get Lost, I Only Know e Drummer Man.
Subito dopo cominciò un lungo tour con The Ravens e l’orchestra di Cootie Williams; diciannove città in dieci stati dal New Jersey alla Florida, viaggiando nel sud segregato e pianificando gli itinerari in base a dove potevano soddisfare i bisogni di base, come cibo, alloggio e benzina, cose non scontate per i neri.
A Raleigh, North Carolina, al grande Memorial Auditorium, si lasciò intendere che era un concerto con ballo per pubblico afroamericano dove i bianchi potevano andare, ma non potevano ballare né mischiarsi con i clienti neri. Nei luoghi più eleganti c’erano posti separati, in molti altri c’era solo una corda e la polizia era a ogni angolo per assicurare il mantenimento della divisione.

Ad Atlanta circa 5.700 spettatori si riversarono al City Auditorium, mentre You Satisfy, registrato due anni prima, arrivava all’ottavo posto nella classifica juke-box di Billboard e al sesto nella classifica su Los Angeles di Cash Box, Hot on Central Avenue.
Dal 1947 il Pittsburgh Courier, influente sull’America nera come il Chicago Defender, conduceva un sondaggio tra i lettori per selezionare i musicisti preferiti, allo stesso modo di Down Beat e Metronome, sponsorizzando per il vincitore un concerto di mezzanotte al Carnegie Hall di New York sempre tutto esaurito. Il 9 aprile Dinah vi cantò come vincitrice del girl blues singer award del 1949, con i vincitori delle altre categorie: Lionel Hampton, Ella Fitzgerald (girl popular singer), Billy Eckstine, Illinois Jacquet.
Mentre il contratto con Mercury stava scadendo Baby Get Lost raggiunse le classifiche di Cash Box e Billboard, in quest’ultima arrivando poi al primo posto in due liste, vendite e più suonati nei juke-box, con la novità che la rivista aveva rinominato la categoria race in rhythm and blues; non c’era niente di meglio che un disco in classifica per contrattare, e Dinah scelse comunque di rimanere in Mercury.
Il 27 settembre 1949 c’è un’altra sessione con Teddy Stewart in cui tra gli accompagnatori figura anche John Coltrane, con cinque brani, e prima della fine dell’anno altre due sessioni da cui uscirono Laughing Boy, Give Me Back My Tears, I Challenge Your Kiss e la qui presente Am I Really Sorry, di nuovo con i musicisti di Mitch Miller tra i quali però è identificato solo il trombettista Buck Clayton (di Count Basie); la voce è incredibilmente dolce e solo in alcuni momenti si riconosce il suo timbro.
Sui giornali c’era il segno di quanto Dinah stesse crescendo in popolarità, ma anche le tenevano vivo il ricordo dei giudizi sul suo aspetto ai tempi di scuola o di quelli nella band di Hampton, quando i giornalisti la definivano fisicamente con termini vagamente offensivi. Dinah cominciò a provare qualsiasi cosa per perdere peso e attuò un programma dimagrante intensivo con qualche pillola che le procurò degli attacchi di nausea terribili: era a Bridgeport, Connecticut, e stava così male che il dottore le ordinò di rimanere invece di fare il breve viaggio di ritorno a New York. Si riprese in tempo per una serie di concerti al Bop City con la band di Gillespie, un nuovo club di Broadway dove in seguito s’esibirà anche con Nat ‘King’ Cole e Count Basie.
Alla fine di ottobre lei, The Ravens, Joe Thomas e orchestra andarono di nuovo sulla strada, all’Earle Theater di Philadelphia per una settimana di pienoni e lunghe file all’ingresso, a Indianapolis, all’auditorium di Louisville (quasi 4.200 spettatori), e al Ryman Auditorium di Nashville, dove furono chiuse le porte dopo che più di mille fan rimasero bloccati cercando d’entrare, lasciandone tanti fuori.

Dinah Washington Trio outside of a club (Keter Betts, Wynton Kelly, Jimmy Cobb)
Il trio di Dinah (1952 ca) posa fuori da un club
Da sin.: Keter Betts, Wynton Kelly e Jimmy Cobb
(Courtesy of Ann Littles)

L’anno 1950 cominciò con due sessioni con l’orchestra di Teddy Stewart in febbraio, un altro brano nella classifica juke-box di Billboard, I Only Know, altri ingaggi dal vivo e la fine del terzo matrimonio.
Significative per lei furono le due settimane al Café Society, noto locale del Greenwich Village covo di intellettuali e con clientela mista. Agli inizi di carriera, quando con la band di Hampton si trovava a New York, nei momenti liberi scappava là per sentire la grande Hazel Scott, e per incontrare gli artisti; ora c’era anche lei, anche se divisa tra Josh White e lo sketch di un attore, George Kirby, mentre un brano della sessione di febbraio, It Isn’t Fair, entrava nelle classifiche di vendita R&B.
Il 9 maggio fece un’altra sessione con la Teddy Stewart’s Orchestra, probabilmente con Benny Powell, trombone, Ernie Wilkins, sax alto, Cecil Payne, sax baritono, Freddie Green, chitarra e Ray Brown, basso. In rappresentanza abbiamo Big Deal, blues orchestrale su base swing accreditato a Dinah e al batterista Stewart, il suo ultimo fidanzato (Mercury intestò l’orchestra a lui su richiesta di Dinah), con assolo di sassofono e trombone. Le altre erano I’ll Never Be Free, Love (Me) with Misery e I Wanna Be Loved, quest’ultimo successo contemporaneo delle Andrews Sisters per la voce solista di Patty.
La versione di Dinah stette nella classifica R&B di Billboard quasi tre mesi, e non è difficile capire perché.
C’è anche una versione precedente intitolata I Want to Be Loved, del 1947 con il bassista Chubby Jackson, Tony Aless al piano e Billy Bauer alla chitarra, più scarna e intimista, jazz; invece quella con l’orchestra è maestosa e ha anche i violini, ma il canto è altrettanto maestoso, tutto il resto è solo contorno. Ne esiste un’altra versione ancora, più caratteristicamente sua (dal modo in cui canta sembra posteriore), ancora con violini.

Mercury spingeva verso canzoni più pop e, rispetto all’anno prima quando i suoi successi erano stati d’ispirazione blues, ora era in classifica con tre ballate; nonostante ciò continuava a essere definita dalla stampa esclusivamente cantante blues.
Stewart l’accompagnò in tour verso la California in coppia con Earl Bostic e il suo gruppo, e purtroppo anche lui (Stewart) non si rivelò l’uomo ideale. Mentre viaggiavano verso Junction City, Kansas, sulla macchina di Dinah, i due litigarono e Stewart la colpì in faccia, costringendola a uscire dalla macchina insieme all’autista, e lui se ne andò. Un passante li raccolse e lei giunse appena in tempo per lo spettacolo al Municipal Auditorium, che fece indossando occhiali scuri.
Il soggiorno di sette settimane in California ne comprese due all’Oasis di L.A., club di fama su Western Avenue dove fu accolta come una star, un reunion con Hampton per il Cavalcade of Jazz (annuale concerto della domenica pomeriggio, che finì con alcuni scatenati che buttarono bottiglie di whiskey sul palco) con sedicimila spettatori (perché annesso a un concorso di bellezza, Miss Cavalcade of Jazz) al Wrigley Field, e due settimane nei club di Oakland e San Francisco. La catena Howard Johnson inserì le sue canzoni nei juke-box dei ristoranti, la prima volta per un’artista nera.
Festeggiò il ventiseiesimo compleanno il 29 agosto con una festa a Philadelphia (Earl Bostic e band fornirono la musica), dov’era in scena all’Earle con i Ravens e le band dei sassofonisti Eddie Vinson e Arnett Cobb, e riuscì a passare un po’ di tempo con i figli organizzando il soggiorno di sua madre in New Jersey, in occasione del National Baptist Convention, dove li raggiunse dopo una sessione a New York il 1º settembre con il direttore Jimmy Carroll e un’orchestra con violini e violoncelli non identificata producente quattro brani, Harbor Lights, I Cross My Fingers, Time out for Tears, Only a Moment Ago.
L’entourage di viaggio di Dinah s’allargava sempre più: oltre all’autista, la sarta, la cameriera e/o l’assistente, ora aveva anche il suo pianista personale, il talentuoso ventenne Wynton Kelly già con ‘Hot Lips’ Page, Eddie ‘Lockjaw’ Davis e ‘Cleanhead’ Vinson, di cui Dinah apprezzava l’approccio economico evitante che la sua invidiabile tecnica dominasse, e ideale accompagnamento alle sue esibizioni dal vivo, nonostante fosse sordo da un orecchio.

Dinah with Rafael Campos
Dinah con Rafael Campos, genn. 1961, L.A.
(Photo by Michael Ochs Archives/Getty Images)

Per la quarta volta quell’anno si piazzò in classifica con un’altra ballata, I’ll Never Be Free e per la quarta volta in otto anni si sposò, il 13 ottobre con cerimonia privata a Baltimora, non aspettando nemmeno la licenza dello Stato del Maryland che arrivò solo quattro giorni dopo.
Era a Baltimora per una Rivista al Royal Theater, non più accompagnata dall’orchestra di Arnett Cobb che prese una direzione diversa lasciandosi un pezzo dietro, il bassista Walter ‘Little Man’ Buchanan. Anche quest’unione finì presto, circa tre mesi dopo, per le tendenze alcoliche e violente dell’uomo, tanto che non riusciva nemmeno a lavorare per lei come bassista, e anche lui fuggì con la macchina di Dinah.
Nel professionale andava meglio: poco prima di Natale un’altra ballata entrò in classifica, Time out for Tears, dalla sessione di settembre con i violini, anni luce dalla prosaica Long John Blues e dal coolness di A Slick Chick. Mercury voleva darle un’impronta di classe e per farlo era disposta a investire con musicisti extra, così come facevano i concorrenti con le loro popstar bianche; anche Harbor Lights entrò in classifica, senza riuscire però ancora a sfondare in quella pop.
Iniziò il 1951 con un’accoglienza calorosa a Pittsburgh al club Johnny Brown’s, a Detroit al Paradise e due settimane al Birdland di New York, dove gli spettacoli andavano sulle frequenze di WJZ a tarda notte presentati da Symphony Sid. Qui era accompagnata solo da un trio con il pianista Wynton Kelly, capace di gestire al meglio il suo fraseggio così come lei era a suo agio nel passare da un’orchestra con arrangiamento scritto all’improvvisazione live con pochi musicisti.
Al 27 febbraio risale un’ottima sessione se non fosse per gli invadenti fiati, con personale sconosciuto al di là che forse ci fu Kelly, attribuita a una improbabile (2) Walter Buchanan Orchestra; forse Mercury non era informata sugli ultimi fatti. Da qui uscirono il blues Fine Fine Daddy, la meravigliosa Please Send Me Someone to Love di Percy Mayfield, il successo di Jimmy Witherspoon Ain’t Nobody’s Business If I Do e I’m so Lonely I Could Cry.

In primavera Ben Bart fece di nuovo un pacchetto con lei, la band di Bostic e l’attore Slappy White per un giro negli usuali, maggiori teatri del circuito nero, come l’Apollo di Harlem, l’Howard di Washington, il Royal di Baltimora, poi a L.A. in maggio per tre settimane all’Oasis, mentre aveva la seconda canzone dell’anno in classifica, My Heart Cries for You. È la più pop e bianca che ho sentito di Dinah, con una tessitura da mezzosoprano lirico, i violini e un ritmo zum-pa-pa che richiamano un’atmosfera serena e struggente allo stesso tempo, alla Judy Garland; da non credere che sia della stessa persona che con contralto blues di velluto contropelo esponeva Long John Blues: una grazia immensa in entrambe, ma diretta diversamente. Il brano risaliva a una recente sessione con un’orchestra diretta da Jimmy Carroll, che aveva emesso anche I Apologize, I Won’t Cry Anymore (la sua terza apparizione in classifica nel 1951) e Don’t Say You’re Sorry Again.
Nel frattempo era ricomparso Buchanan e i due litigavano in continuazione, fino a quando lui prese ancora la macchina di Dinah e lei chiamò la polizia; trovarono la Cadillac il giorno dopo a Baltimora, di lui nessuna traccia. Come Grayson, anche Buchanan non lavorava ed era evidente che l’avevano sposata per interesse. Intanto, dopo Kelly, altri due giovani musicisti la colpirono, entrambi di Bostic: il bassista ex-batterista William ‘Keter’ Betts e il batterista Jimmy Cobb, che rimase altrettanto colpito:

I got a feeling from her like I never had from a person singing, ‘cause I was raised in a Catholic school, and I was used to some other kind of sound, you know, like choir sound. You know what I’m sayin’? And she brought a thing to me that I had not experienced. I could feel it. (3)

Durante una tappa a L.A., Mercury organizzò una sessione i primi due giorni di giugno ai Radio Recorders, con una band guidata dal pianista Ike Carpenter (allievo di Duke Ellington). Anche in questo caso i brani sono ornati da un’eccellente (ma inutile e distraente) intera sezione fiati: Clyde Reasinger e Tom Reeves, trombe, Art Pearlman e Roger White, trombone, Ed Freeman, sax alto, Bob Hardaway e Bob Robinson, sax tenore e John Koch, sax baritono. Per fortuna c’è il grande stilista Chuck Norris alla chitarra, ma è solo nella sessione del primo giorno, qui non presente.
A parte Just One More Chance, gli altri del primo giorno sono blues orchestrali, vedi What’s the Matter, Baby, il quieto double-entendre Don’t Hold It against Me e Be Fair to Me, quest’ultimo con bel solo di baritono e picchi vocali di Dinah, cool e attenuata, quasi distante, diversa da come si esprimeva fuori dai riflettori, dove non si tratteneva dal dire o fare qualsiasi cosa le passasse per la testa. Ci fu chi le criticò un’apparente freddezza e il modo d’usare la voce come uno strumento, quasi indifferente alle liriche, ma semmai questo aspetto rendeva il suo stile caratteristico: senza non sarebbe stata lei.
Al secondo giorno risalgono il bel swing Saturday Night, la ballata I’m Crying e due compresi qui, il torch-song romantico I’m a Fool to Want You, e uno dei miei preferiti, il calibrato mid-tempo If You Don’t Believe I’m Leaving (Count the Days I’m Gone). (4)

Tornò all’Earle di Philadelphia con i Dominoes e l’orchestra di Ivory Joe Hunter, poi al Renaissance Ballroom di Harlem con l’orchestra di Arnett Cobb, e di nuovo al Birdland per le sessioni radiofoniche di Symphony Sid, con Wynton Kelly, Percy Heath al basso e Al Jones alla batteria, dove rivelò pubblicamente la sua ultima relazione dedicando I Wanna Be Loved al batterista Jimmy Cobb.
Il 24 settembre ci fu una sessione a New York diretta da Nook Shrier, con Kelly, Keter Betts, forse Jimmy Cobb, Paul Quinichette, sax tenore, Freddie Green, chitarra ovviamente, e un gruppo vocale, forse anche il trombettista Clark Terry. Uscirono la ballata jazz Mixed Emotions, la strana Baby Did You Hear (sembra una canzone da musical), New Blow Top Blues, nuova versione del successo di diversi anni prima (che andrà in classifica), e Cold Cold Heart, hit di Hank Williams improvvisato nei minuti rimasti finita la sessione e che diventò il suo quarto successo dell’anno (peccato per il coro). Poi ci fu una sessione il 25 ottobre in coppia con i Ravens (la ballata Out in the Cold Again e il duetto R&B-doo wop Hey, Good Looking).
Betts e Cobb lasciarono Bostic per formare con Kelly il trio di Dinah, ma parte del nuovo tour prevedeva anche Earl Bostic e il suo gruppo, essendo Ben Bart agente di entrambi. Il giro, dopo i teatri Apollo, Howard ed Earle, virava a sud comprendendo diciassette one-nighter arrangiati da Ralph Weinberg, per finire a Miami il 16 dicembre.

Quincy Jones and Dinah Washington
Dinah e Quincy Jones durante una sess. Mercury, ag. 1961 (Copyright © Chuck Stewart)

La prima sessione del 1952 è il 18 gennaio a L.A. con Wardell Gray (tenore di Basie), Ben Webster, Wynton Kelly, Jimmy Cobb e Keter Betts, con due ballate, Wheel of Fortune e Tell Me Why, e due blues, la celebre composizione di Richard M. Jones Trouble in Mind e When the Sun Goes Down.
A Los Angeles per diverse date, quelle più di successo furono al Club Alabam in South Central Avenue, cuore della vita notturna nera della città, poi Dinah e il trio in marzo si fermarono a Chicago per registrare con il direttore Walter Rodell (aka Nook Shrier) la classica sessione di quattro brani, ancora con violini. L’occasione fu eccellente e Dinah grandiosa in I Thought about You (Mercer-Van Heusen), già incisa da Mildred Bailey, all’epoca da poco scomparsa, I Can’t Face the Music, Stormy Weather e in Mad About the Boy di Noël Coward, che poi riprenderà nel 1961 in una mirabile interpretazione rivelante la sua maturità musicale e stilistica.
Tornò al Carnegie Hall di New York e per la seconda volta dal 1949 prese il premio per la miglior cantante blues, dopo il sondaggio annuale indetto dal Pittsburgh Courier. Nonostante lei desiderasse uscire dalla definizione di blues singer è indubbio che le fece piacere; nel libro di Nadine Cohodas c’è una foto scattata al Theresa Hotel che la ritrae insieme alla madre con il premio.
In maggio Dinah e il trio presero parte per la prima volta a un tour interrazziale, il Caravan of Stars, che come maggior attrazione prevedeva la band di Woody Herman, nei teatri fuori del circuito nero come il Philadelphia Armory, il Baltimore Coliseum e il Syria Mosque a Pittsburgh, ma fu un’esperienza isolata.
Al 6 maggio risale una bella sessione a Chicago qui rappresentata da due brani, con il trio Wynton-Keter-Jimmy e altri non identificati (forse il gruppo del tenorista Quinichette) nel bel blues medio-lento No Caviar per piano e orchestra (è ben udibile anche una chitarra, forse Tiny Grimes), le notti insonni di Pillow Blues, lento con in evidenza la chitarra, il piano e un solo di tenore e due versioni di Double Dealing Daddy, altro blues classico ideale nelle corde tornite di Dinah.

Altre tre sue canzoni presero posto nelle classifiche di Billboard, per un totale di ventiquattro dal dopo-Hampton. Tutti si stupirono quando a Wynton Kelly fu ordinato di presentarsi per la leva, dato che era mezzo sordo e aveva una dentatura non regolare; davvero un duro colpo per il gruppo, e l’unica spiegazione che si diedero fu che dovesse ricoprire un incarico rifiutato da soldati bianchi.
Ecco perché nella seguente sessione, in estate a Chicago con un’impagabile orchestra intestata (naturalmente) a Jimmy Cobb, figura Beryl Booker, entrata nel circuito nel 1946 come pianista di Slam Stewart. Oltre a Keter, Jimmy, e Clark Terry alla tromba, ci sono due allievi di Duke Ellington, Russell Procope, sax alto e clarinetto e Paul Gonsalves, sax tenore. In I Cried for You ha lo stile Fitzgerald (l’argomento è lo stesso di una delle mie preferite di Ella, Cry Me a River): la band è quanto di meglio si possa avere e D è superlativa, come fraseggio, tono, vitalità, comunicativa. Uscirono anche Gambler’s Blues, maggiorato dall’accompagnamento minimale, e due contenute qui, la ballata My Song e un brano di Curley Williams reso popolare da Hank Williams, Half as Much, restituito con lento swing.
Negli elenchi è presente un’altra sessione con un’orchestra completa ma non identificata, ancora a Chicago nel 1952, con la classicissima My Devotion e la più “umana” Make Believe Dreams: in entrambe (si sente perfino un’arpa) sono in primo piano le sue virtù vocali, con timbro caldo, vibrante e spesso.
You Let My Love Grow Cold appartiene a una sezione fiati sconosciuta e al trio, a Chicago all’inizio del 1953. L’arrangiamento è sempre orchestrale, ma strutturalmente è un blues attribuito a Jessie Mae Robinson, prolifica autrice della costa occidentale spesso evocante scenari di abbandono e solitudine. Gli altri furono Surprise Party, Ain’t Nothing Good e Don’t Get around Much Anymore, il celebre brano di Duke Ellington e Bob Russell, in cui omaggia Ella Fitzgerald e Al Hibbler.

Il 10 giugno 1953 a New York c’è una sessione interessante che vede le presenze del percussionista cubano Candido Camero e di un organista, Jackie Davis, mentre Paul Quinichette è al sax tenore; oltre al trio è sconosciuto il resto dell’orchestra, che comprende un’intera sezione fiati e un coro.
L’insinuante rhumba-blues Fat Daddy ricorda le atmosfere Atlantic, seguito dal mid-tempo Go Pretty Daddy, il lento Feel Like I Wanna Cry, gli R&B My Lean Baby, Never, Never, I Ain’t Goin’ to Cry No More e il novelty a doppio senso TV Is the Thing (This Year), concentrato sul tecnico della televisione

He turned my dial to channel one
I knew that this was gonna be fun
He turned my dial to channel two
That station thrilled me through and through

che le sistema dal primo all’undicesimo canale, con riferimento (Mama, he treats your daughter good) al successo di Ruth Brown Mama, He Treats Your Daughter Mean. TV arrivò in cima alle classifiche confermando che al pubblico i double entendre piacevano parecchio, e potrebbe aver ispirato Johnny ‘Guitar’ Watson.
Pochi giorni dopo, altri due: Am I Blue e Pennies from Heaven, ancora con Quinichette, Jackie Davis, Candido, Keter Betts, ma alla batteria c’è Ed Thigpen e al pianoforte Clarence ‘Sleepy’ Anderson. Quest’ultimo seguì Dinah in tour nello stesso periodo, ma finì in prigione ad Atlanta per problemi di droga e dovettero lasciarlo al suo destino per poter proseguire il giro.
È probabile che la sessione seguente abbia avuto più o meno la stessa formazione, perlomeno le percussioni e un coro misto sono ancora presenti, producendo il bel lento Set Me Free e il calypso Since My Man Has Gone and Went, in cui Dinah gioca con l’accento caraibico mozzando il finale delle parole. Verso la fine dell’estate ci furono altre incisioni, gli swing My Man’s an Undertaker e Mean and Evil, e due religiosi per il mercato di Natale, The Lord’s Prayer e Silent Night, entrambi con coro e mostranti la solennità e la potenza della sua voce. Mentre il rapporto con Jimmy Cobb stava cedendo, Dinah ne cominciò un altro con un ennesimo batterista, Larry Wrice, che prese posto nel trio.

La prima sessione del 1954 fu un misto di blues e standard, corroborata da Clark Terry, Eddie Chamblee, Junior Mance, Jackie Davis, Keter Betts, Ed Thigpen e dalla chitarra di Mickey Baker. Un altro double talk, Short John, parodia di Long John, è una sorpresa nel fatto che D si lascia andare, genuinamente blues diva e shouter; il risultato è favoloso, continuando in Old Man’s Darlin’, anche se già più sulle sue, ispirante le cantanti a venire e con finale personalizzato. Love for Sale, classico di Cole Porter, e Our Love Is Here to Stay (Gershwin) sono più jazzy e contemplative, anche se nella prima lancia un piccolo growl perfetto aprente il ritmo e un finale a tutta voce.
Già in febbraio, durante una settimana al Royal di Baltimora, Dinah si mostrò poco soddisfatta di Larry Wrice, soprattutto dal lato professionale, accusandolo di monopolizzare la scena; tempo d’arrivare a Chicago con Cootie Williams e tra i due esplose la guerrra, seguita dall’accordo di dividersi. Così, dopo che il cognome di Larry era finito dentro My Man’s an Undertaker, al Regal Dinah mise al suo posto Mr Johnson. Harold ‘Killer’ Johnson era il proprietario dell’Archway Bar and Grill a Chicago, e D dichiarò pubblicamente:

I intend to let the world know I’m through with Wrice and that I’m now on the trail of Killer Johnson, sweetest man in the world. (5)

La sessione di marzo fu piuttosto insulsa con brani come Such a Night, dall’andatura latina ma inutile coro (esiste una versione posteriore senza coro diretta da Quincy Jones), Until Sunrise e One Arabian Night.
Meglio quella del 15 giugno con brani di autori notevoli e una sezione fiati eccellente, Clark Terry, Gus Chappell, Rick Henderson (sax alto) e Eddie ‘Lockjaw’ Davis, il bel piano di Junior Mance, Keter Betts, Candido, e l’ormai stabile batterista del trio, Ed Thigpen. Uscirono l’ellingtoniana I Let a Song Go out of My Heart, A Foggy Day (Gershwin), Bye Bye Blues, e Blue Skies (Irving Berlin).
L’ultima sessione rappresentata qui è ancora di giugno, con Paul Quinichette, Keter Betts, e altri incerti. Escono What a Great Sensation, il lento blues ballad Raindrops, il mid-tempo swing (No, No, No) You Can’t Love Two, con chitarra ritmica in evidenza, e Big Long Slidin’ Thing.
Quest’ultimo sta a pieno titolo tra i roventi innuendo di Dinah e, nonostante spesso i critici abbiano attribuito l’uso di metafore sessuali a scopi meramente discografici, non bisogna dimenticare che sono sempre esistite nella dialettica live tra il performer afroamericano e il suo pubblico, rurale e urbano, e quelle di Dinah sono nello stesso filone delle raunchy lyric delle prime regine del blues classico.
Entro la fine dell’anno ci furono altre tre sessioni, due delle quali in California dov’era per un tour di sei settimane, con diverse orchestre e tanti altri brani. Nella prima il direttore è Hal Mooney e, sebbene nelle liste Mercury al trombone ci sia la vecchia conoscenza e da poco nuovo fidanzato Gus Chappell, nel libro di Cohodas si legge che a quel punto la storia era finita, purtroppo ancora con violenza. (6)
In questa occasione l’unica rilevante è I Don’t Hurt Anymore, già registrata da Hank Snow (ripassata anche da Dylan nei Basement Tapes). Dinah la pennella con passione, da big shouter, il canto è davvero grandioso e ha una sfocatura granosa che racconta di blues e gospel: è un brano che ben rappresenta la maturità dei suoi trent’anni, e uno di quelli in cui si lascia andare.

Dinah Washington and family
La sorella di Dinah, Clarissa (al piano), e la madre Alice, luglio 1962, New York.
(Copyright © Chuck Stewart)

La seguente sessione a L.A. il 14 agosto 1954 è rimasta nella storia perché fu particolare, forse anche la prima del genere. Bobby Shad affittò il grande Capitol Studio di Hollywood per un jam pomeridiano con grandi nomi del jazz, e lei lo trasformò in un party, con cibo, bevande e un pubblico di fortunati invitati. A tutti gli effetti un live in studio (super-microfonato) di circa tre ore, ecco perché sembra un concerto “da camera” in un club di classe con un piccolo pubblico attento (per la maggior parte non cultori del jazz, ma dipendenti e amici del Watkins Hotel) disposto tutto attorno e riconoscente per tanta grazia ricevuta.
Parteciparono Maynard Ferguson, Clark Terry, Clifford Brown, Herb Geller, Junior Mance, Max Roach (il fatto che D designò Roach leader significa che era la sua ultima fiamma?), Harold Land, George Morrow e Richie Powell, oltre al fido Keter; quasi due musicisti per strumento che si alternarono con meritato spazio solistico nelle tante canzoni prodotte, tra pietre miliari come What Is this Thing Called Love, I’ve Got You under My Skin, You Go to My Head, Lover Come Back to Me (che ben compete con quella di Billie Holiday), Summertime, Come Rain or Come Shine, Crazy He Calls Me, There Is No Greater Love, alcune fuse in almeno un paio di medley. Clark Terry e Junior Mance hanno in seguito ricordato quella sessione come uno dei momenti migliori della loro carriera; gli agenti principali di quelle registrazioni, oltre il talento, furono il cameratismo, il rispetto e l’ammirazione fra i protagonisti, e il fraseggio, la preparazione e il tono impeccabili di Dinah.

Flyer

Prima di un’altra puntata in studio con Hal Mooney il 2 novembre a New York per la sessione di routine (Wishing Well, Teach Me Tonight, I Just Couldn’t Stand It No More, Remember Me), Dinah e il trio (Betts, Mance e Thigpen) conclusero il 1954 con il solito e incalzante tour de force dal vivo, oltre alla partecipazione a una serie televisiva, Showtime at the Apollo, e al programma radiofonico Hear America Swingin’ – Stars in Jazz. Il nuovo anno invece vide il ritorno di Cobb e Kelly nel trio, ma lei nel frattempo aveva messo gli occhi sul ventiduenne Quincy Jones, sia come arrangiatore che come amante (Jones poi dichiarò che fu Dinah a introdurlo nel business delle registrazioni).
Il resto degli anni 1950 furono altrettanto intensi: continuò ad apparire nelle classifiche con nuovi singoli e album, partecipò a show televisivi e film, e s’esibì dovunque e con chiunque (perfino con Little Walter e Bo Diddley), anche in Europa; nel 1957 si sposò per la quinta volta, con il sassofonista Eddie Chamblee, e schivò per caso un tentativo di omicidio quando le fu recapitata una scatola di cioccolatini ripieni di pezzi di vetro.
Del periodo Chamblee sono notevoli le incisioni dedicate alle interpretazioni di alcuni classici di Bessie Smith, (7) e in particolare Send Me to the ‘Lectric Chair credo le rappresenti al massimo fulgore espressivo/stilistico di Dinah (tra queste). Furono registrate insieme ad altro materiale negli studi Universal di Chicago tra la fine del 1957 e l’inizio del 1958, gli arrangiamenti ispirati allo stile early jazz.
All’inizio del 1961 ci fu il sesto marito, Rafael Campos, attore di dodici anni più giovane, ma prima della fine dell’anno il matrimonio era già finito, insieme al lungo rapporto con Mercury. Fu messa sotto contratto da Roulette, ma tra arrangiamenti ridondanti, ospedalizzazioni, mancanza di riposo, vita sregolata, problemi di sonno, pillole per dormire e vari metodi per perdere peso velocemente (pure con iniezioni di mercurio!), non si può dire che stesse avviandosi verso il meglio.

All’inizio del 1963 esce il quarto album per Roulette, Back to the Blues, che non è proprio blues in senso tradizionale, ma dopo almeno cinque anni incide senza violini e con una band ristretta.
In giugno il difensore dei Detroit Lions, Dick ‘Night Train’ Lane, diventa il settimo marito ufficiale; durante una loro fermata a Chicago in luglio, Hugh Hefner dà un party in onore della coppia. Festeggia il suo trentanovesimo compleanno al Club Harlem di Atlantic City, prende casa a Detroit e s’esibisce al Michigan State Fair con la band di Duke Ellington.
In ottobre fa dieci giorni a Cleveland al Jazz Temple, poi va a Las Vegas al Thunderbird e torna al Basin Street West di L.A. a partire dal 15 novembre. La sera del 22 novembre, con l’intera nazione sconvolta dall’assassinio di J.F. Kennedy, decide di non fare lo show e canta solo What a Friend We Have in Jesus, lasciando il palco in lacrime con il pubblico in standing ovation: fu l’unica volta in cui cantò un inno sacro in un’occasione mondana.
Stanca, dopo un concerto di beneficenza a Detroit durante la prima settimana di dicembre, progetta di prendersi una pausa fino alla fine dell’anno, ma la pausa sarà eterna. Il pomeriggio del 13 dicembre arrivano i suoi figli in visita da Chicago, presupposto per giorni sereni, ma durante la notte il marito la trova a terra incosciente, in mano una bottiglietta di sedativi presi probabilmente per sbaglio in dose letale.
A Detroit fu esposta la salma e fu fatta messa dal reverendo C.L. Franklin, buon amico di Dinah, in cui la figlia Aretha intonò un solo, poi il funerale nella chiesa della sua infanzia, St Luke Baptist a Chicago il 18 dicembre, dove Mahalia Jackson cantò Move Me a Little Higher, e l’omaggiarono anche le sue prime influenze gospel, Sallie Martin e il gruppo di Roberta Martin. Arrivò al Burr Oak Cemetery a Worth, Illinois, nel gelo della tarda sera.
Diversi musicisti hanno dichiarato d’aver imparato molto lavorando con lei, ma la sua eredità è evidente a tutti in quelle cantanti che hanno attinto direttamente dal suo fraseggio e dal suo stile, ad esempio Esther Phillips, Ruth Brown, le due Etta, Jones e James, Sylvia Vanderpool, Nancy Wilson, Dionne Warwick, Diana Ross, e naturalmente Amy Winehouse.

(Fonti: Nadine Cohodas, Queen: The Life and Music of Dinah Washington, Pantheon Books, New York, 2004; Dave Penny, liner notes all’LP Dinah Washington, If You Don’t Believe I’m Leaving, 1985, JB-1102, Jukebox Lil, Sweden; Per le sessioni Mercury: Jazz Disco.org)


  1. N. Cohodas, cit. nelle fonti, pag. 80.[]
  2. Per l’abitudine di far intestare la direzione dell’orchestra a un suo fidanzato o marito, quando questi ne faceva parte.[]
  3. N. Cohodas, cit. nelle fonti, pag. 116-117.[]
  4. If you don’t believe I’m leaving, count the days I’m gone è un verso errante, ad esempio usato anche da Marcia Ball con lo stesso significato in Count the Days.[]
  5. N. Cohodas, cit. nelle fonti, pag. 162.[]
  6. Chappell la colpì con il trombone in testa. Le fece piuttosto male alla guancia e all’occhio, e a causa delle evidenti ferite Dinah e il gruppo persero il lavoro. Clark Terry dichiarò che nella stanza c’era sangue ovunque, e si dice che Dinah poi volesse farlo fuori, così lui scappò nascondendosi nel retro del bus della band di Duke Ellington che stava per ripartire (Cohodas, op. cit., pagg. 176-177).[]
  7. Rintracciabili sempre nella raccolta completa Mercury/Emarcy, o nel disco The Bessie Smith Songbook, 1990.[]
Scritto da Sugarbluz // 15 Marzo 2013
È vietata la riproduzione anche parziale di questo articolo senza autorizzazione

Potrebbero interessarti anche...

Una risposta

  1. fred ha detto:

    Bellissime entrambe le recensioni su Dinah…del mio posso solo aggiungere che una maestosa Makin’ Whopee con Quincy Jones del 1956….mi è rimasta nel cuore.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.