Dr John @ House of Blues, Houston, TX

Se per molti europei assistere a un concerto ha ancora qualcosa di sacro non è così per certi americani, escludendo le eccezioni (musica colta, evento ufficiale, artista straniero, ecc.), forse perché hanno tanti di quei tesori musicali da non riuscire a onorarli come si deve, un po’ come facciamo noi con le nostre opere d’arte. Limitando la generalizzazione e scendendo nel dettaglio, posso dire che non si trovano tracce di riverenza in un House of Blues, sia per l’impostazione commerciale e generalista del luogo, che di conseguenza per il genere di pubblico che vi accorre.
Rimane che nel nostro triste panorama italico non abbiamo neppure questo tipo di locali “per tutti” in cui occasionalmente trovare nomi di rilievo, e quindi anche una catena come HOB andrebbe bene, mentre nello scenario americano non è nient’altro che una scelta tra le peggiori. E se quella sera a Houston il pubblico non ha dato il meglio di sé, colui che ha titolato l’evento come “Dr John & The Lower 911 with Greyhounds” non ha brillato per chiarezza e pertinenza.

Dato per certo che Lower 9/11 è la band che da qualche anno accompagna il Dottore anche in studio, rimaneva da scoprire chi fossero i Greyhounds. Ebbene, se i Greyhounds sono quelli che si sono esibiti prima di Dr John (non saprei chi altrimenti) non vedo perché “with”, ma soprattutto non ho afferrato la loro consistenza musicale. Quando si presenta il cantante-chitarrista insieme a un tastierista, e lo vedo trafficare attorno a un piccolo arnese collegato all’amplificatore e poi lo sento annunciare che, data l’assenza del batterista, la ritmica è registrata, spero d’aver capito male, e penso che non sia possibile. Invece sarà possibile purtroppo: la batteria è registrata e loro ci suonano sopra, con il risultato che lascio immaginare, e mi domando se era proprio necessario. Ovviamente no, non lo era affatto. Non solo, la musica è brutta e il chitarrista sbaglia e tentenna, e questo è tutto per quanto riguarda i Greyhounds.

Non resta che guardarsi intorno e attendere l’arrivo di Malcolm John (detto Mac) Rebennack Jr, calato nel personaggio di Dr John Creux, The Night Tripper da quando negli anni 1960 scomparve colui che fu ispiratore del suo stile scenico, Prince La La (Lawrence Nelson), autore e cantante R&B fermatosi a soli 27 anni, figlio di Louis Nelson, leggendario chitarrista della città e fratello minore di Walter ‘Papoose’ Nelson, chitarrista per Professor Longhair, Fats Domino, Dave Bartholomew, e maestro di Rebennack prima del suo passaggio al pianoforte (un’immagine pittoresca di Prince La La si trova sulla copertina del primo volume Gumbo Stew, serie Ace Records dedicata alla produzione AFO).
Sul palco attirano l’attenzione un possente set di batteria, un pianoforte a coda e un organo, apparecchiati con velluti, teschi, oggetti voodoo, e un meno esoterico orologio. In mezzo ai due strumenti un solo seggiolino, segno che saranno suonati unicamente dal Dottore.

All’arrivo del viaggiatore notturno è l’organo a essere suonato per primo e l’esordio con Keep That Music Simple carica subito il pubblico stipato sotto, ma è meglio quando prosegue con l’intramontabile It Don’t Mean a Thing, irriconoscibile come spesso accade quando Mac tratta brani altrui, con lungo assolo di piano: una delle poche occasioni della serata in cui si sente il suono del suo strumento non coperto dagli altri, o forse io sono troppo lontana per riuscire a isolarlo.
Provvede a una ritmica funky-jazz e alle armonie vocali una band tarata da anni di collaborazione, soprattutto per quanto riguarda il bassista David Barard, nome noto a N’Awlinz, e il batterista e maestro di cerimonia Herman ‘Roscoe’ Ernest III, (1) entrambi spina dorsale delle sonorità del Dottore decisamente tinte di fonk, poi il chitarrista John Fohl, succeduto a Renard Poché (visto a Bologna nella band di Allen Toussaint), che invece non mi ha impressionato particolarmente.
Continuano con Love for Sale di Cole Porter (dal disco di classici americani classicamente interpretati, In a Sentimental Mood), Qualified, la sua versione di Classified di James Booker, in questo caso rimasta identica (la vocalità di Dr John somiglia un po’ a quella di Booker, che fu nella sua band e lo ispirò moltissimo), Holdin’ Pattern da Creole Moon, e la super-funky Soulful Warrior.
Bene che la scaletta non sia scontata e non punti sui brani più noti, a parte Right Place, Wrong Time e la celeberrima Such a Night, per il finale; a Houston va periodicamente e quindi deve necessariamente variare, e ha così tanto materiale da rendere vana la speranza di sentire le preferite.
(Sotto, il balletto del medicine man).

Mac è arrivato ai 70 con una lunga carriera sulle spalle e negli anni Duemila, quando dopo più di cinquant’anni si potrebbe non avere più niente da dire, ci ha regalato un’altra felice vita musicale, più costante rispetto a quella passata, con buoni se non ottimi dischi, come Duke Elegant (tributo a Ellington), il piacevole Creole Moon, il dolorante Sippiana Hericane, uscito a caldo dopo Katrina, Mercenary, personalizzazione di alcune composizioni di Johnny Mercer, City That Care Forgot, un’altra riuscita dedica alla sua amata città post-Katrina, meno romantica e più di denuncia, ma soprattutto N’Awlinz: Dis Dat or d’Udda del 2004, corale e collaborativo e forse il migliore degli anni 2000, così come Goin’ Back to New Orleans lo è degli anni 1990 e Gumbo degli anni 1970.
Nel 2010 è invece uscito Tribal, altra buona prova rappresentata qui con la lirica e bluesy Lissen at Our Prayer, la travolgente rumba jazzy di Only in Amerika, il miscuglio tra R&B e jazz di Feel Good Music, la title track, e la sinuosa Music Came, che ricorda certo buon jazz avant-garde dei 1960/1970, bellissima e con lo zampino dell’uomo a cui Mac deve molto, Harold Battiste, cantata con voce calda da David Barard.
La band conosce così bene la musica di Dr John da tessere un accompagnamento perfetto. Il rovescio della medaglia è che l’effetto è un po’ quello di una routine scarsa di comunicativa, e Mac non ha brillato per partecipazione: non ha pronunciato una parola e ha tenuto la testa bassa come un impiegato sul lavoro desideroso di finire al più presto, non alzando lo sguardo nemmeno per un saluto prima d’andarsene; forse la mia postazione ha giocato molto in questo senso di distacco.

(Nella foto a fianco i simboli dello slogan di House of Blues: “Unity in Diversity”.) La posizione in balconata non è l’ideale, non ho buona visuale e la lontananza non aiuta il coinvolgimento, tanto più che il suono arriva insieme al frastuono della gente di sotto e di quella al bar dietro di noi, nonostante quassù la faccenda potrebbe e dovrebbe esser più tranquilla dato il maggior costo del biglietto.
All’inizio la balconata è piena, ma non stipata, poi diverse persone lasciano il posto. Tra gli abbandoni e la cameriera che gira in continuazione tra le poltrone la situazione peggiora, e come se non bastasse oltre un paio di file vuote dietro a me si piazzano due maleducati di mezz’età che non solo si stravaccano appoggiando le scarpe sulle poltrone vuote davanti come se fossero nel loro salotto, già mezzi ubriachi e con altre bevande in mano, ma anche conversano ininterrottamente tra loro a voce altissima. Una signora bionda, madre di un’adolescente glamour, cerca di attirare la loro attenzione per dirgli di smetterla, ma loro nemmeno se ne accorgono; vorrebbe allora coinvolgere me, dato che sono in mezzo ai due fronti e a loro portata di mano, ma io non dico alcunché ai due energumeni, soprattutto perché non mi va di volare di sotto, eventualmente. L’irrequieta famiglia hollywoodiana (quattro persone) cambia posto (poi, li vedrò cambiare ancora), io invece rimango ad aspettare che i due si esauriscano da soli in breve tempo come una batteria scadente, cosa che succede dopo una quindicina di minuti. Una situazione da stadio quindi che non ha permesso di seguire molto ciò che è avvenuto sul palco, meno male che almeno l’amata e provvidenziale Goodnight Irene l’ho potuta gustare.

Da City That Care Forgot estrae la più che attuale Black Gold, mentre l’ipnotica I Walk on Guilded Splinters risale al primo disco, ma non risalta in mezzo al baccano. Il suo passaggio alla chitarra riserva un medley interessante tra una Mojo Hand rallentata, che non avrei riconosciuto se non fosse stato per le parole, e One Dirty Woman: il suo approccio alla sei corde è piacevolmente bluesy.
E a dimostrazione che i suoi intenti d’inizio carriera non sono affatto traditi e che ancora e sempre più lo si può considerare ambasciatore di New Orleans, arriva il suo ruvido growl da cerimonia voodoo con le parole They call me Dr John, known as the Night Tripper. Non è solo l’incipit di Gris-Gris Gumbo Ya Ya o solo l’attacco del suo album d’esordio (anche se era già sulla scena come produttore e sessionman da molti anni), piuttosto è il biglietto da visita del suo personaggio da quando un riluttante Ahmet Ertegun alla fine decise di rischiare e pubblicare lo strano disco, strano perfino per gli anni Sessanta. Del resto non poteva che essere intriso di atmosfere magiche il prodotto di uno che come nome d’arte aveva scelto quello di un misterioso medicine man della New Orleans di metà Ottocento. Il concerto chiude con le note di Such a Night e qualche ragazza sul palco a ballare, su invito del batterista, con il ruolo di emcee.
Cresciuto all’ombra di James Booker e Professor Longhair, e di una civiltà musicale unica al mondo, ancora oggi Dr John-The Night Tripper ha i piedi immersi nell’intricato Bayou, ed è portavoce e interprete di quello che New Orleans e la sua cultura rappresentano per lui e per chiunque non possa fare a meno di esserne catturato.


  1. Herman Ernest è scomparso il 6 marzo 2011 a causa di un tumore, dopo un’onorata carriera nella musica di New Orleans.[]
Scritto da Sugarbluz // 12 Novembre 2010
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