Gerhard Kubik – L’Africa e il Blues

CD allegato: Africa and the Blues, Connections and Reconnections, Gerhard Kubik, 2001
Edizione originale: Africa and the Blues, University Press of Mississippi, Jackson, USA, 1999
Edizione italiana: L'Africa e il Blues, Fogli Volanti Edizioni, Coll. Biblioteca musicale, Saggi, Subiaco (Roma), 2007
Revisione del testo e prefazione: Giorgio Adamo
Traduzione: Fabio Polese
Copertina del libro di Gerhard Kubik, L'Africa e il Blues

Un testo che forse sarebbe dovuto apparire prima per chiarire alcuni punti ancora oscuri alle soglie del Duemila (quando è stato pubblicato in USA) e per smontare alcune radicate teorie basate su presupposti, nati dalla non conoscenza delle varie culture musicali e linguistiche africane e dall’attribuzione a una vaga madre Africa oppure, al contrario, a una generica regione occidentale del continente nero.
Preciso che con “smontare teorie” mi riferisco solo a certe convinzioni, e che il libro non è nato con questa intenzione.
Non era nemmeno nei programmi dell’autore scrivere ancora di blues (la sua ultima pubblicazione sulla materia era del 1961), soprattutto a causa di «un estremo rispetto per l’ampia e dettagliata letteratura che si era accumulata a partire dagli anni Sessanta, pensavo fosse meglio lasciarla ad altri specialisti con un maggiore retroterra di conoscenza storica afroamericana», definendo poi tale letteratura come un «universo affascinante e sempre in espansione, di straordinaria ampiezza e spessore intellettuale». Come poi sia stato coinvolto a scrivere il libro è spiegato da Gerhard Kubik stesso nell’introduzione.

Se del blues oggi si sa molto, nulla o quasi gli appassionati conoscono, verosimilmente, di cosa gli africani hanno portato con loro, fatto sopravvivere, e i loro eredi mutato e sviluppato nel Nuovo Mondo.
Gerhard Kubik (1) naturalmente non può sapere tutto quello che non s’è saputo finora e che non si saprà mai, ma la sua competenza come antropologo, etnomusicologo, etnopsicologo, africanista, musicista e ricercatore sul campo dal 1959 in ben diciotto paesi africani, per complessive 159 entità sociali, oltre che Brasile e Stati Uniti, appare concreta e interessante nelle pagine di questo saggio che però non consiglio al pubblico neofita, o non interessato alle origini.
La struttura è come un viaggio di andata e ritorno, narrato dal punto di vista africano.
Lo sguardo all’arrivo in America è proprio da questa prospettiva: quali etnie furono portate e in quali Stati, i trasferimenti e i cambiamenti occorsi negli anni, l’evidenza e la localizzazione di tratti africani in particolare alla fine del XIX secolo, quando il blues cominciò a formarsi, gli strumenti e la loro diffusione. Il ritorno in Africa avviene invece quando la musica afroamericana è già conosciuta e i musicisti africani cominciano a reinterpretarla (chi autonomamente, anche nei posti più sperduti, chi spinto dalle case discografiche, in ambiente urbano), a partire circa dagli anni Cinquanta del ventesimo secolo fino ai nostri tempi, con il boom negli anni 1980/90 quando il mercato, guidato dall’ascoltatore euro-americano colto, a un certo punto ha avuto bisogno di commercializzare del “blues africano”, di per sé inesistente.
Uno sguardo e un itinerario diversi dal solito, che mettono in primo piano le aree della terra africana depositarie di quelle ereditarietà sopravvissute in terra americana, conosciute e riconosciute da Gerhard Kubik dopo anni di viaggi e di studi. In qualche caso, eredità differenti da quelle individuate da alcuni storici, i quali hanno analizzato la musica degli americani di discendenza africana definendo di derivazione largamente euro-americana ciò che è più riconoscibile, e genericamente africano tutto ciò che non rientra nella teoria della musica occidentale, quindi incomprensibile.

Il CD allegato è illuminante in quanto, tramite una serie di incisioni africane e americane ben scelte e analizzate nel testo, si è guidati in un ascolto mirato a far emergere le somiglianze e le connessioni di certa musica africana con alcune componenti essenziali del blues, naturalmente in casi in cui nessuna delle due parti sapeva l’una dell’altra.
Dal libro partono tanti concetti, ma dal disco appare un messaggio molto semplice, e cioè che c’è molto più “blues” in certe musiche africane mai commercializzate e registrate nei villaggi da Kubik stesso, da persone ignare anche solo dell’esistenza della parola blues, rispetto alle incisioni fatte da africani che hanno conosciuto la musica americana (dapprima attraverso i film hollywoodiani e in seguito da altre fonti, anche pubblicazioni di autori come Paul Oliver, le quali hanno influenzato tantissimo i musicisti delle aree interessate dalle ricerche), come Ali Farka Toure, proponenti materiale per soddisfare le richieste del mercato occidentale, d’un tratto affamato di “africanità e blues”. Tutto ciò per dimostrare radici ad esempio attraverso suoni sulle canoniche dodici battute, struttura aliena sia agli africani (di ieri e di oggi) che agli europei, ma mancanti di blues nella sua vera essenza, come mancanti di genuinità africana.
Per assurdo e in senso anacronistico un musicista come Toure, etichettato “bluesman maliano”, è stato spinto a fare un prodotto per dimostrare che qualcosa della musica proveniente dal Mali, Guinea o Senegal fa parte delle radici, adottando tecniche che di facciata all’ascoltatore medio ricordano quelle del blues, tralasciandone invece altre più specifiche; una sintesi personale certamente, che può piacere o non piacere, ma non una prova di connessioni storiche antecedenti il ventesimo secolo. A questo proposito, ha detto bene lo storico del blues Francis Davis:

A rendere la questione più confusa, la musica africana sta cominciando a rivelare l’influenza del blues. […] Anche se l’eco della musica di Hooker in quella di Toure è spesso indicata come prova dell’influenza dell’Africa sul blues, è vero esattamente il contrario. (2)

Le blue note non sono ambiguamente intonate perché i cantanti neri hanno difficoltà a riempire le “mancanze” della scala pentatonica africana, e non tutta la musica africana originariamente era pentatonica; non è vero che l’armonia nel jazz e in altre musiche afroamericane è solo europea; i processi di acculturazione naturali non sono semplici sovrapposizioni di similitudini che si fondono insieme, ma lenti e complessi percorsi di trasformazione umana e di apprendimento di ciò che è nuovo e diverso, mediante un meccanismo di adattamento quasi mai dovuto alla presenza di intenti comuni con l’altra cultura; non esiste qualcosa che possa essere chiamato “radici del blues”; la cultura non si trasmette sempre in proporzione al numero delle persone coinvolte, quindi anche le popolazioni provenienti dall’Africa sud-orientale, pur esigue, hanno avuto influenza; l’idea che un musicista faccia un patto con un pericoloso essere spirituale in cambio di capacità musicali straordinarie è africana, ed esistono altre connessioni della letteratura orale dell’Africa occidentale con il simbolismo e la testualità del blues; la cetra monocorde (3) (in America, jitterbug) è all’origine della chitarra slide, tecnica ereditata dall’Africa centrale, come alcuni elementi della tecnica usata per il flauto di Pan (panpipe) e il flauto diritto (whistle) sono stati incorporati nell’armonica blues.
E poi ancora, le migrazioni dei popoli, sia in Africa che in America, l’analisi degli elementi stilistici della gente della savana e delle aree del Sudan centro-occidentale (4) presenti nella musica arcaica del Delta del Mississippi, delle paludi della Louisiana e delle aree rurali (canneti) del Texas. Questi concetti e tanti altri aspetti, luoghi, esempi, strumenti, tecniche vengono trattati e analizzati, e solo in alcuni punti la lettura, per chi è a digiuno di teoria musicale, può diventare un po’ ostica.

Nella seconda parte, quella del “ritorno” accennata sopra, il professore austriaco traccia l’arrivo della musica afroamericana in Sudafrica, soprattutto dopo il 1945, la presenza di alcuni tratti stilistici del jazz nella musica highlife (genere originario del Ghana) tra gli yoruba della Nigeria sud-occidentale nei primi anni Sessanta del Novecento, e l’influenza del blues urbano nella regione del Sudan occidentale dagli anni Settanta.
Particolare la storia musicale “americana” del Sudafrica, area sempre rimasta fuori dal reclutamento degli schiavi e non influenzante la vicenda (almeno non prima dei contatti della metà del ventesimo secolo), ma regione che più di tutte fu contagiata direttamente, a partire dal dopoguerra, dagli stili urbani afroamericani, soprattutto rock ‘n’ roll, boogie, blues strumentale e swing, soul, be-bop e, molto prima, dal ragtime e dal canto religioso con le tournée dei gruppi minstrel americani, per l’attività della Chiesa Episcopale Metodista Africana. Il percorso è ben descritto, ed è interessante la trattazione della musica pennywhistle, genere nato nel tentativo d’imitare le big band swing degli anni Quaranta da parte dei giovani delle township sudafricane, usando inizialmente flauti giocattolo trovati sulle bancarelle e finendo per sviluppare un’ingegnosa tecnica esecutiva.
Lo strumento divenne popolare, suonato ovunque per le strade di città come Johannesburg e Città del Capo, e questo nuovo swing sostituì la precedente musica da ballo, il jive.
Una volta sdoganato dal disprezzo dei musicisti professionisti e dei ceti medio-alti, le case discografiche raccolsero il genere, qualcuno coniò il termine kwela e la nuova musica popolare cominciò a essere manipolata in studio con accompagnatori di professione, mentre i suoi creatori erano sfruttati fino all’osso e il kwela perse la sua natura originaria. Dal 1958 i suonatori di pennywhistle usarono i flauti commercializzati da Hohner: un agente della ditta si recò a Johannesburg per acquistare degli esemplari da ragazzi che li avevano costruiti.
I progettisti originali rimarranno per sempre ignoti, ma Hohner grazie a costoro ne vendette anche centomila esemplari all’anno nel solo Sudafrica. Per quanto riguarda la postura del suonatore e la posizione dell’imboccatura il modello fu (ancora una volta) Lester Young, il grande sassofonista imitato anche nell’abbigliamento dai giovani sudafricani.
Un libro certamente più scientifico che passionale, però racchiude il lavoro di una vita di ricerche e, in sostanza, non parla solo di musica ma anche di uomini e di popoli.


  1. Per le ricerche incluse in questo testo è stato accompagnato da Moya Aliya Malamusi, mentre negli Stati Uniti è stato supportato da David Evans.[]
  2. Francis Davis, The History of the Blues, New York, Hyperion 1995, pp. 33-35, cit. da Gerhad Kubik, pag. 231.[]
  3. In copertina, suonata da due ragazzi in un villaggio della Repubblica Centrafricana nel 1966. Mentre il ragazzo a destra percuote la corda con due bastoncini, l’altro usa un coltello come slide.[]
  4. Non lo Stato ma l’area geografica chiamata fascia sudanica, attraversante l’Africa dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano, immediatamente a sud del deserto del Sahara.[]
Scritto da Sugarbluz // 27 Aprile 2011
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3 risposte

  1. MiCantino ha detto:

    Bellissima recensione, complimenti!

  2. Sugarbluz ha detto:

    Grazie mille!

  3. greetings, I run a world music blog for the love of world music, I think you may like where I am coming from.

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