Hash Brown’s Texas Blues Revue

Hash Brown's Texas Blues Revue CD cover

Dai biscotti di Zuzu Bollin alle frittelle di patate di Brian Calway aka Hash Brown il passo è breve.
A chi ha viaggiato negli Stati Uniti sarà capitato d’imbattersi nei gustosi hash brown, piatto dell’abbondante colazione anglosassone servita entro le 10/11 di mattina, adatta ai pionieri alla conquista del selvaggio west, ai coal miner e ai gandy dancer, ma anche ai turisti più instancabili.
Nel nome di questa ipercalorica delizia è celato uno dei chitarristi blues più attivi e vitali del Texas, impegnato non solo con gig e collaborazioni nella patria elettiva e in giro per il mondo, ma anche nella produzione di artisti emergenti, nell’insegnamento e nel costante compito di tenere viva la vasta cultura musicale dello Stato.
È nato il 22 settembre 1955 nel Connecticut e ha cominciato a suonare nel 1973, trasferendosi una decina d’anni dopo a Dallas per comprensibili motivi, gli stessi che hanno stimolato centinaia di musicisti a tuffarsi in questa prospera area texana, la Dallas/Fort Worth, arricchendo ulteriormente uno Stato già di per sé abbondante di nativi illustri e meno illustri, quest’ultimi non meno importanti per il mantenimento e il consolidamento di un’ampia tradizione.

Il Texas non conobbe lo schiavismo di massa nello stesso modo degli altri Stati del Dixie perché fu indipendente fino al 1845 e quindi fuori dalle risoluzioni comuni, e la sua economia agricola si fondò principalmente sull’allevamento di bovini invece che sul lavoro della terra, in più parti arida, ma la sua storia economica particolare prese il via con la scoperta del petrolio ai primi del Novecento.
Il destino solitario dell’africano-texano fece perdere gran parte dell’identità e delle tradizioni, tramandate più facilmente dove lo schiavo, e poi il mezzadro, viveva in comunità. La musica popolare degli eredi degli schiavi texani assorbì svariate influenze dovute alle migrazioni e agli stati confinanti e, in assenza di una forte tradizione autoctona, prese forma un melting pot caratteristico, là dove la varietà diventa tipicità. E la varietà texana, quasi sempre contraddistinta da una componente selvaggia, rude, soddisfa forse l’intera casistica degli stili blues, creandone dei particolari.
Da quello più arcaico e rurale, back porch, al vigoroso e sanguigno texan-rock o roots-rock, figlio geneticamente incapace di rinunciare a papà blues, da quello urbano “da esportazione”, o à la T-Bone Walker, condito da boogie, jazz, soul, R&B, a quello infettato dalle sonorità di confine, tex-mex, zydeco, cajun, country, dal gospel all’hillbilly, dal classic blues con il fenomeno delle Texas moaner alle ballate di un songster come Mance Lipscomb, da vocalist atipici come Alger Alexander e il “recente” Joe Tex, al trascinante, spietato groove strumentale di Freddie King.
Anche i personaggi minori erano dotati di grande originalità, ad esempio J.T. ‘Funny Paper’ Smith, nel quale si riscontrano testi e temi musicali poco convenzionali. Ce n’è per tutti i gusti e per tutti gli strumenti, anche se sono le chitarre (impossibile elencarle) e i sassofoni (qualcuno: Illinois Jacquet, Buster Smith, Booker Ervin, Marchel Ivery, Herschel Evans, Adolphus Sneed, Joe Houston, Leroy Cooper, David Newman, James Clay) a farla da padrone. Tutti là sembrano fare musica, in un moto perpetuo. Il miscuglio, naturalmente, s’evidenzia non solo nel rilevare gli stili presenti sul territorio, ma anche nella produzione del singolo.

Miss Marcy and Hash Brown on stage in Dallas
Miss Marcy, Hash Brown, Dallas 2010

Non basta ricordare che i fratelli Vaughan sono nati a Dallas, dove Robert Johnson lasciò parte delle sue uniche incisioni (le altre a San Antonio), che Robert Jr Lockwood suonò spesso a Fort Worth, dov’è nato il sassofonista King Curtis, che Lonnie Johnson e Lead Belly abitarono a Dallas, e ricordare altri nomi noti come Blind Willie Johnson, Blind Lemon Jefferson, Lightnin’ Hopkins, Charlie Christian, Victoria Spivey, Sippie Wallace, Clarence ‘Gatemouth’ Brown, Charles Brown, Albert Collins, Eddie ‘Cleanhead’ Vinson, Johnny Copeland, Johnny Winter, Esther Phillips, Angela Strehli, Lou Ann Barton, Janis Joplin, la band più famosa di FW e dell’intero Texas, gli ZZ Top, Gary Primich, Fabulous Thunderbirds, Omar and the Howlers e tanti altri, contando anche quelli che non ci sono nati, ma hanno costruito la carriera là.
Non basta perché sono molti di più quelli che hanno calcato o calcano la scena, avendo minor riscontro commerciale magari, ma perpetrando la tradizione; la schiera dei vecchi texani blues dimenticati o quasi, o mai conosciuti dal medio pubblico, è folta.

Ad esempio, Henry ‘Ragtime Texas’ Thomas, autore non accreditato di Goin’ Up the Country dei Canned Heat, i quali quarant’anni dopo ripresero la canzone così com’era compreso il caratteristico suono del flauto di Pan (Bulldoze Blues), Willard ‘Ramblin” Thomas (zio di Lafayette Thomas), finger-picker che con il fratello Jesse Thomas (nati entrambi in Louisiana) crebbe a suoni deltaici e slide sul confine Louisiana-Texas, Hop Wilson, suonatore di steel guitar a otto corde, Frankie Lee Sims, Andrew ‘Smokey’ Hogg, Big Al Dupree, James ‘Wide Mouth’ Brown, fratello di Gatemouth, Pee Wee Crayton, che per convincere T-Bone a farsi dare lezioni di chitarra gli comprò un cavallo, Ray Sharpe, autore della famosa Linda Lu, i pianisti Amos Milburn, Mercy D. Walton, Floyd Dixon, Roy Hawkins, ‘Big’ Walter Price, Curtis Jones, i chitarristi ZuZu Bollin, Johnny e Oscar Moore, Goree Carter, Johnny ‘Guitar’ Watson, Henry Qualls, Willie Willis, Robert Ealey, Texas Johnny Brown, chitarrista di A. Milburn e autore di Two Steps from the Blues per Bobby Bland, il trombonista Pluma Davis, Clay Hammond, cantante soul e autore di Part Time Love per Little Johnny Taylor, (1) il cantante soul Z.Z. Hill, James ‘Wee Willie’ Wayne, che portò il Texas a New Orleans tramite le incisioni Imperial e il classico Junco Partner, rimasto nella memoria cittadina, Ivory Joe Hunter, Black Ace, chitarra lap-steel che acquisì da Oscar ‘Buddy’ Woods influssi hawaiani, altri tesori femminili come la pianista Katie Webster, Barbara Lynn, mancina con Fender (You’ll Lose a Good Thing il suo hit) e Diunna Greenleaf, potente contralto da esportazione, Roy Gaines, Jimmy ‘T99’ Nelson, Lester Williams, Sam Myers, nato in Mississippi ma attivo per anni sul territorio con la band di Anson Funderburgh, U.P. Wilson, l’armonicista Joe Jonas, il Rev. K.M. Williams, Tutu Jones, gli artisti Dialtone come Joe Doucet, naturalizzato a Houston, Little Joe Washington, houstoniano DOC, il pianista Earl Gilliam.

Zuzu Bollin promotional photo

E a proposito di Sippie Wallace c’è da ricordare che era parte di un altro storico, talentuoso clan di Houston di cognome Thomas, ma forse la sua è la più antica famiglia di musicisti blues. I due fratelli di Sippie furono tra i pionieri del boogie woogie piano, e la nipote, Hociel, cantante anch’essa. Il maggiore, George W., già nel 1911, su testimonianza di Clarence Williams, usava figurazioni di basso boogie, e nel 1916 editò lo spartito New Orleans Hot Scop, «la prima canzone a incorporare il tipico giro di basso ‘ambulante’ (walkin’ bass) […] e il primo a immortalarlo su gommalacca, registrando The Rocks nel 1922 con lo pseudonimo di Clay Custer». (2)
Intendo che con “prima canzone” Fassio voglia dire che George fu il primo a mettere su foglio il cosiddetto giro, perché descrizioni di contemporanee figurazioni simili sono state riportate da testimoni dell’epoca. Il fratello più giovane, Hersal, perfezionò «il modello, elaborando impervie costruzioni di basso, adottando tremoli, sincopi e innovative scale ascendenti con una destrezza sorprendente per l’età […] A Chicago la sua fama era tale che gli altri pianisti non osavano suonare in sua presenza, e tutte le ragazze erano sue. Morì appena sedicenne, avvelenato da cibo avariato». (3)

Ma anche i bianchi hanno fatto e fanno la loro parte, come Jack Teagarden, trombonista di Vernon dei primi del Novecento, Ella Mae Morse, Moon Mulligan, Doyle Bramhall padre, il Sir Douglas Quintet, Guy Forsyth, i fratelli Johnny e Jay Moeller (val la pena citare anche un loro bandmate, Nick Curran, che non nacque in Texas ma vi svolse la sua carriera), (4) Mike Morgan & The Crawl, Pat Boyack, ex chitarrista di Marcia Ball (la quale gode di un invidiabile “doppio meticciato” musicale Louisiana-Texas), Jim Suhler & Monkey Beat, Memo Gonzalez & The Bluescasters, Cheryl Arena, Darrell Nulisch & Texas Heat, il già citato Anson Funderburgh (Anson a FW dev’essere considerato un patrimonio se nel 1998 era sulla copertina dell’elenco telefonico della Contea di Tarrant). Fort Worth inoltre ha dato i natali al più sensibile, toccante e profondo songwriter e interprete americano, Townes Van Zandt, oltre che a Ornette Coleman.
E poi la musica norteña, meglio conosciuta come tex-mex, di Doug Sahm-post Douglas Quintet, con Freddie Fender e ‘Flaco’ Jimenez, cioè i Texas Tornados, e altri contemporanei come Miss Marcy con i suoi Texas SugarDaddy’s, Kathy Prather, Will ‘Smokey’ Logg, Denny Freeman, e il country singer Lyle Lovett.

Sam Myers on stage in Rovigo, Italy, 2004
Sam Myers, Rovigo 2004

Hash Brown ha suonato e registrato con diversi di questi, è stato allievo di Sam Myers, recentemente scomparso, e si divide equamente fra The Hash Brown Band, il suo trio come chitarrista, e The Browntones, come armonicista in stile chicagoano, non trascurando il canto, egregiamente usato all’occorrenza.
Il CD in questione è una riedizione del 1999 di Cannonball Records del disco originale uscito per l’etichetta olandese Double Trouble nel 1993, contenente le ultime registrazioni di ZuZu Bollin, aggiunto di una traccia e rimasterizzato. Pur essendo un buon cantante, Hash Brown ha condotto negli studi Sumet-Burnet di Dallas un R&B Revue con le voci e gli strumenti di Bollin e Myers, più quella del soul crooner Darrell Nulisch. Completa un’eccellente sezione fiati, naturalmente, con il tenore Marchel Ivery, il contralto Big Al Dupree, i baritoni Pete Brewer e ‘Kaz’ Kazanoff, la tromba di Keith Winking, e una sezione ritmica con il piano di Matt McCabe e Nick Connelly, il basso di Rhandy Simmons, la batteria di Marc Wilson e di Bobby Baranowski.

Lo swing strumentale Big Boy del chitarrista Bill Jennings, contemporaneo di Louis Jordan e Bill Doggett, è un classico del genere, riproposto anche da Junior Watson e Duke Robillard, e ci porta nel mondo rétro delle big band. Spiccano i botta e risposta tra i fiati, con piccoli assolo che s’estendono anche agli altri strumenti, licks di chitarra, diteggiature di piano, assolo di basso e batteria, tutto molto breve e godibile.
Zuzu Bollin rifà l’incisione Antone’s, il jump swing Hey Little Girl. La voce è un po’ stanca, ma ha un apprezzabile effetto ralenti da sembrare fatto apposta, autentico easy-going texano-californiano. L’originale fu inciso nel 1964 da Z.Z. Hill per Kent dei Bihari, con l’immancabile orchestra di Maxwell Davis.
Darrell Nulisch con My Baby’s Gone propone un blues classico, ma il garbo di questa piccola-grande orchestra, e soprattutto il fair-play elegante e devoto dell’atteggiamento vocale, ricordano lo stile lievemente “sottomesso” che fu di Otis Redding. La timbrica poi è propizia nell’intessere una dignitosa disperazione.
Lo slow Mistreated Blues (T Is for Texas), che Pee Wee Crayton incise per i Bihari (è bastato vedere l’accredito a Josea), è tutto per Hash Brown che canta e dosa inserti strumentali laid back in pieno rituale cool blues. L’originale si può trovare in una delle raccolte Ace dedicate al chitarrista, The Modern Legacy Vol. 1.
My Daily Wish Is di Lockwood è guidata dal piano di McCabe, dalla chitarra di Brown e dalla pastosa voce vibrante di Sam Myers, per uno squisito omaggio al maestro. Myers, quasi cieco dall’infanzia, ha smesso d’esibirsi con la sua band, Anson Funderburgh & The Rockets, nel dicembre 2004 (con loro dal 1986), a causa di un tumore che poi l’ha portato via nel 2006; ho fatto quindi appena in tempo a vederli insieme nell’estate 2004 al Deltablues di Rovigo.

Darrell Nulisch on stage in Lucerne, Switzerland 2004
Darrell Nulisch, Lucerna 2004

Il jump blues sarcastico Dog in a Man (Ways of a Man), condotto ancora da Myers stavolta in stile shouter, è preso dal fuoriclasse Roosevelt Sykes; timing regolare, stilettate di Hash Brown alla Junior Watson, fiati che muovono l’aria attorno.
Zuzu Bollin torna in ottima forma con il classico uptempo swing I Can’t Lose with the Stuff I Use, che Lester Williams, altro discepolo texano di T-Bone Walker, incise con successo per Specialty di Art Rupe nel 1952. Altro hit dello stesso anno è il lamento walkeriano Cry Cry Cry, il secondo disco di Zuzu, slow che parla attraverso la voce malinconica e il chitarrismo lacerante di Bollin, con accompagnamento di Brown, mentre è in stile Chicago Got You Where You Want Me, omaggio per armonica e voce di Sam Myers a John Brim.
S’esprime al massimo Myers nel suo lento Sad and Lonesome, pagante ancora pegno al blues di Chicago, e in particolare allo stile vocale di Muddy Waters. Ain’t Gonna Let You In è una sorpresa perché presenta un duetto botta-risposta tra Bollin e Myers, sopra un serrato swing guidato dai sassofoni.
È un gioiellino condito da humour il jump in rima I Sat and Cried di Jimmy Nelson, figliol prodigo di Joe Turner, e anche lui scomparso recentemente. Nulisch interpreta con verve e stile, richiedendo subito la nostra attenzione con l’esortazione iniziale: Two minutes and thirty-eight seconds is all I need / To tell you people of my misery. Ricorda le proposte di Junior Watson, anche lui pescatore tra i novelty song.

La rivista chiude alla maniera texana, con due strumentali portati da Hash Brown.
Uno è firmato da lui, Hangin’ with Terry, uptempo swing che corre piacevole e tranquillo e l’altro, più impegnativo, è il bebop swing di Honey Boy, colto dal ventre di Willard Ballard Doggett (Bill Doggett), hammondista dell’epoca swing compagno di Billy Butler, chitarrista di vaglia che con il combo jazz di Doggett creò meraviglie strumentali, tipo il successo del 1956 Honky Tonk (ne esiste un’altra versione del 1961). Lì si può notare il soave finger pickin’ di Butler, per un suono più che lucido, cromato direi, e il sassofono di Clifford Scott (altro texano) in un bel dialogo e scambio di riff che ha fatto scuola nel R&B, con break composti da linee musicali, rigorosamente single-note, affondanti le radici nel blues phrasing, attraverso il jazz e al servizio del rock ‘n’ roll.
Honey Boy è ripreso da Brown fedelmente dall’originale (su LP King Records del 1956, Hot Doggett) in cui spiccavano tutti i componenti, il robusto groove dell’Hammond di Doggett, lo swing di Butler, lo shuffle di Shep Shepherd e le calde nuvolette del tenore di Percy France.
Qui manca il suono dell’Hammond, ma Hash Brown, sopra una base ritmica rocciosa sprizzante shuffle-swing, in cui s’evidenzia il basso e composta anche dai fiati e dal piano, ne dà un ottimo rendimento, ingrassando il suono e ampliando il discorso.
Il Texas non finisce qui, ma intanto ascoltiamoci ancora questi 43 minuti totali degli anni Novanta, forse non particolarmente nuovi e originali nel loro attaccamento alla tradizione swing dell’ovest, ma esempio sincero della vitalità del blues e rhythm and blues sul finire del secolo scorso.


  1. Da non confondere con Johnnie Taylor (1934-2000). Nacquero entrambi in Arkansas (Little Johnny nel 1943), e oltre alla contemporaneità e all’aver iniziato tutti e due come cantanti gospel per approdare al soul e all’R&B, la fonte di maggior confusione forse è che proprio quel brano, Part Time Love, successo di Little Johnny Taylor, fu ripreso da Johnnie Taylor.[]
  2. Edoardo Fassio, Blues, Ed. Laterza, 2006, cit. a pag. 58.[]
  3. Ibidem.[]
  4. Aggiornamento: Nick Curran è purtroppo scomparso a soli 35 anni, il 6 ottobre 2012.[]
Scritto da Sugarbluz // 20 Giugno 2010
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