J.B. Hutto – Bio-discografia 1954/1976

J.B. Hutto, 1977

Joseph Benjamin Hutto nasce in una fattoria a Blackville, South Carolina, il 26 aprile 1926; alcune fonti dicono 1929, ad Augusta, Georgia, confondendo il fatto che la sua famiglia si trasferisce lì quando lui ha tre anni.
Suo padre Calvin è contadino e diacono alla chiesa locale, e Joseph entra nel mondo della musica ad Augusta, cominciando a cantare da piccolo con tre fratelli e tre sorelle nel gruppo di famiglia, The Golden Crowns Gospel Singers, attivi nelle chiese del posto nei tardi anni 1930 e primi anni 1940.
Pur impressionato da slider georgiani come Kokomo Arnold o Curley Weaver, J.B. ha dichiarato di non aver avuto desiderio di esibirsi come bluesman prima dell’arrivo a Chicago con la famiglia negli anni 1940, dopo la morte del padre. Altre fonti dicono che invece è il padre a trasferirsi a Chicago nel 1941 per lavorare in un’acciaieria, dove poi il figlio lo raggiunge nel 1949, ma pare consolidato che alla fine degli anni Quaranta J.B. si trova nel bel mezzo della fervida scena blues di Chicago. C’è però una fonte (1) che lo cita impegnato al fronte nella guerra di Corea nei primi anni Cinquanta, come autista di camion nelle zone del conflitto.

A Chicago s’esercita come batterista e in tale ruolo suona localmente con Johnny Ferguson & His Twisters, chitarrista con armonica e pianoforte. L’unica cosa che so di Johnny Ferguson è che era cognato di Bob Stroger, ai tempi non ancora bassista (cominciò tardi e per casualità, abitando dietro a Sylvio’s) ma dotato di automobile, con la quale scarrozza la band in occasione di gigs. (2)
Dopo aver provato anche il pianoforte, comincia a interessarsi alla chitarra grazie a musicisti molto influenti, come Muddy Waters, T-Bone Walker, Robert Nighthawk, Big Bill Broonzy, esercitandosi tra un set e l’altro durante le serate nell’area di Chicago. Fatale è però l’incontro con Elmore James, più o meno nel 1950, e il fascino suscitato dal suo bottleneck style. Prende a seguirlo e a studiarne il metodo, concentrandosi quindi sulla slide guitar e cominciando a esibirsi durante i weekend al leggendario mercato all’aperto di Maxwell Street, spesso con l’one man band Eddie ‘Porkchop’ Hines.
La sua prima band è proprio con Porkchop al washboard e batteria, Joe Custom alla seconda chitarra, e all’armonica ‘Earring’ George Mayweather (decenni dopo vecchio baluardo della scena blues di Boston), formanti il combo originale The Hawks, nome ispirato dal vento di Chicago, dai suoi abitanti chiamato “The Hawk”, e che continuerà a usare con le formazioni che si succederanno. Con loro suona negli house rent party e in locali come Sylvio’s, 1015 Club, Club Playtime, Happy Home, Globetrotter Lounge, Red’s Upstairs Lounge, e nel 1954 hanno la possibilità di registrare per la piccola Chance Records aperta da Art Sheridan e poi di Ewart Abner; quest’ultimo in seguito avrà più fortuna con Vee-Jay.

J.B. and His Hawks, Pet Cream Man 45 rpm (Chance Records)

Le sessioni sono due e producono nove brani di cui solo sei escono, sia su 78 che 45 giri, tra maggio e novembre 1954. I primi due dischi sono intestati a J.B. and His Hawks, Now She’s Gone / Combination Boogie (#1155) e Lovin’ You / Pet Cream Man (#1160), dall’intera prima sessione, di gennaio o febbraio, il terzo è a nome di J.B. Hutto and His Hawks, Dim Lights / Things Are So Slow (#1165), dalla seconda, il 19 ottobre.
Ho questi episodi in una doppia raccolta Charly (3) a parte il primo della lista, sostituito da Price of Love (già su Delta Swing LP 379 del 1977; i rimanenti due non pubblicati sono Thank You for Your Kindness e Mouth Harp Mambo). Sono l’unica occasione per sentire Hutto prima maniera in un genuino blues elettrico dal carattere “gutbucket”. Anche nella produzione matura e a stile consolidato manterrà la componente ruvida e schietta (uno dei motivi per cui lo si ama), ma qui il suono è ancora downhome, e le percussioni spartane tra cui il washboard di Porkchop sfregato con i cucchiai rimandano alle jug band, con la patina sabbiosa del profondo sud prima amplificazione (anche l’armonica è amplificata). JB usa poco slide, fa brevi riff in overdrive mentre Joe Custom esegue sporchi pattern di basso boogie sulla chitarra, e il suono è tipico della distorsione primi anni 1950, arrivata a Chicago dalla Sun Records di Memphis (Willie Johnson, Joe Hill Louis…).
Si sente anche l’influenza del primo Muddy elettrico con Little Walter, ad esempio in Things Are So Slow, blues stop-time in cui paragona la recessione di quegli anni alla crisi del 1929, (4) mentre gli effetti del mentore Elmore James sono chiaramente udibili in Dim Lights. In queste due c’è più riverbero e l’esito è più urbano essendo percettibile il pianoforte di Little Johnny Jones, allora nei Broomdusters di Elmore James.
Secondo Bob Koester la prima sessione fu registrata da Joe Brown e poi venduta a Chance, così i primi due dischi si possono considerare di JOB, e comunque si capisce che tutto proviene da uno o due tra gli impianti migliori della città, come era prassi ai tempi per molte etichette.

J.B. and His Hawks, Combination Boogie 78 rpm (Chance Records)

I singoli passano inosservati. Non solo i gusti degli acquirenti afroamericani sono in continua evoluzione e quella musica è giudicata di vecchio stampo, in più la piccola Chance, aperta nell’agosto 1950 e, prima di Abner, con una produzione discontinua, non ha capacità distributiva; l’ultima sessione di Hutto è anche l’ultima dell’etichetta, che qualche settimana dopo, nel dicembre 1954, chiude l’attività. JB continua a esibirsi nei locali dell’area disinteressandosi sempre più al business musicale; la goccia che fa traboccare il vaso cade durante una serata, quando una coppia tra il pubblico litiga e la donna non trova di meglio che rompere sulla testa dell’uomo proprio la sua chitarra. I dieci anni seguenti in gran parte li passa a lavorare in un’impresa di pompe funebri.
Probabilmente è la scomparsa di Elmore James nel 1963 a dargli una scossa, e l’anno dopo torna in scena associandosi a una nuova versione degli Hawks, con il batterista Frank Kirkland (dopo l’onorato servizio per Bo Diddley da Chess e in tour) e il bassista Herman Hassell. Un trio spietato che infuoca le notti del South Side (dove risiede da quando s’è sposato) e che sarà per anni house band al Turner’s Blue Lounge, 4012 South Indiana. Il locale ha già una storia, essendovi stati leader Bo Diddley, Jimmy Reed, Curtis Jones e Eddie Boyd, gli ultimi due anche suoi saltuari accompagnatori, almeno fino a quando il piano non si rompe. Nelle note di HAWK SQUAT, Bob e Sue Koester descrivono Turner’s, situato sotto la “El station”:

«Due bar e una piccola sala da ballo al secondo piano di un edificio annidato sotto la stazione ‘L’ tra la 39ª e Indiana a Chicago. Uno dei bar era Turner’s Blue Lounge, con l’insegna neon più alla moda di tutto il quartiere, ma niente che rivelava la presenza di una band all’interno. I residenti del quartiere andavano da Turner da anni, pagando cinquanta centesimi all’ingresso per ballare la musica di un trio blues. Con il biglietto si aveva diritto a una birra.
In un cubicolo di fronte c’era la cucina, solitamente chiusa di notte; nel retro, sotto un soffitto inclinato, c’era il palcoscenico. Dietro il club c’era una birreria all’aperto inutilizzata – vittima dei reclami dei vicini. J.B. Hutto e i suoi Hawks lavoravano da Turner’s tre notti la settimana. (…) Le sessioni della domenica sera erano particolarmente interessanti perché oltre alla slide guitar di JB c’erano anche Hound Dog Taylor e Big Walter Horton (che viveva nei paraggi), e Charlie Musselwhite veniva per imparare».

Chicago/The Blues/Today! CD cover (Vanguard Records)

La voce sulle bollenti sessioni da Turner’s gira e Hutto e i suoi Hawks diventano noti come tra i più eccitanti eventi musicali della città grazie ai corrosivi suoni del chitarrista e al dinamismo dei set, così come alla presenza di altri bluesman che si uniscono nei fine settimana.
Qualcosa arriva anche a Sam Charters, che forse decide di registrarlo dopo averlo visto nelle sue escursioni notturne nel South Side, le stesse che nel 1965 lo portano a produrre i tre volumi di CHICAGO / THE BLUES / TODAY!, dove J.B. Hutto and His Hawks trovano posto (nel I vol.) con cinque brani nella formazione di cui sopra, fermata su nastro il 28 e 29 dicembre 1965.
Come Charters rileva nelle note, Hutto è “un uomo piccolo, intenso” e “uno dei pochi giovani bluesman a suonare con uno slide di metallo”, ma è quella “genuina immediatezza” e la “fiera insistenza” della sua musica a conquistarlo, e a far sì che JB riapra la carriera discografica grazie al successo di questa operazione su Vanguard. Fare meglio è difficile: questo, insieme alle incisioni Testament, è l’Hutto d’annata più raffinato e raro, il meno corporeo.

Going Ahead, Please Help, Too Much Alcohol (l’Alcohol Blues di S.B. Williamson I), Married Woman Blues e That’s the Truth sono magnifici esemplari della raggiunta consapevolezza nel maneggiare in modo personale la lezione di Elmore James.
Canto tagliente, implorante, associato a una chitarra che circoscrive fuochi d’artificio, piccoli dardi evanescenti lanciati in più direzioni non per appiccare fiamme tutt’intorno (come nei dischi Delmark), ma per esaurirsi brevemente ricreandosi in uno scintillio perpetuo. I bandmate Kirkland e Hassell lo accompagnano duttili, attillati, e i tre paiono una cosa sola, Kirkland marcando con colpi flaccidi il suo drumming morbido, elegante e agile, Hassel in un brontolio costante ed entrambi con traino swing ideale per trasportare la potenza emotiva di Hutto, ben avvertibile anche se in studio manca l’interazione con il pubblico, la miccia che usa per infuocare i ritrovi abituali. La scena che descrive Frank John Hadley nelle note di Rock with Me Tonight forse si riferisce a qualche anno più avanti, ma è indicativa di una sua live performance:

Alcuni di noi lo ricordano scatenare l’inferno nei club e nei festival dalla metà degli anni ’60 fino ai primi anni ’80. […] Chi scrive ricorda di essersi recato a un suo concerto una sera e di aver visto un volantino attaccato fuori sulla porta del club. Avvertiva: If you think your heart can take it, come boogie with JB.
Già solo aprire la porta fu traumatico: pungenti note blues invasero le mie orecchie e il mio cuore cominciò a pompare come un martello pneumatico. Oh gente, c’era questo tipo in uno sgargiante completo giallo e uno strano fez multicolore che faceva gemere la chitarra, e stava camminando sul bancone del bar! Stava per incendiarsi! Attraverso il fumo delle sigarette, inoltre, si potevano intravedere dozzine di persone muoversi in una specie di gioia orgiastica! Ah, J.B. Hutto!

Pete Welding di Testament non si lascia quindi scappare l’occasione di registrarlo accompagnato da altri personaggi dello stesso ambiente e spessore: Johnny Young, Big Walter Horton, Lee Jackson e Fred Below. La magia avviene ai One-derful Studios di Chicago nel giugno 1966 e fa nascere il primo intero album a suo nome, J.B. HUTTO & THE HAWKS nella serie MASTERS OF MODERN BLUES, con dodici episodi ugualmente eccellenti, irrinunciabili pezzi di storia del Chicago blues.
Lui è ancora economico, calato nel blues polifonico chicagoano: un sistema funzionante in modo misterioso, non comprensibile o riproducibile solo attraverso lo studio delle singole componenti.
Qui paga omaggio al suo maestro in una Dust My Broom serrata con i suoni di tutti ben distinti, ma amalgamati in un vortice incalzante e avvolgente, a Roosevelt Sykes con una Mistake in Life ipnotica e dal canto dolente, a Jimmy Oden con una Goin’ Down Slow dal crudo realismo, a Lucille Bogan con una scoppiettante Sloppy Drunk grazie alla sponda armonica e ritmica degli accompagnatori, e ancora a S.B. Williamson I con Bluebird. Le altre credo siano autografe, a partire da Lulubelle’s Here (Lulu Bell è la moglie), che mette a ferro e fuoco l’atmosfera prima dell’enfatica e vibrante She’s so Sweet.

J.B. Hutto & The Hawks, Masters of Modern Blues (Testament Records)

Prende le andature di Howlin’ Wolf con My Kind of Woman, e ridefinisce Pet Cream Man, risqué che sarà sempre legato al riff jamesiano.
Blues Stay Away from Me è come vagare soli in un tunnel senza luce quando fuori fa buio, e l’unica arma consolatoria è la stessa che ci ha messo lì. The Girl I Love fa girare la testa e perdere l’orientamento, mentre Wild Wild Woman accompagna sul lago Michigan per lo skyline al tramonto, da quanto chicagoana è (non che le altre non lo siano).
JB mette all’angolo, s’esprime come se fosse l’ultima volta (questa è una costante, dal vivo come in studio), usa lo slide in parsimonia con tocco leggero e sapiente. Tutto qui è dramma non ostentato, meraviglia scura e torbida, esaltazione fatalista della realtà.
Horton è presente ovunque bene, subdolo (v. Pet Cream Man o l’incombente suono ed eco in Blues Stay Away from Me), mentre è quasi inutile decantare ancora l’arte di Below, che con le sue gesta mette tutti sul tappeto di Aladino, potente, flessuoso e a un livello superiore, oltre l’accompagnamento. Johnny Young e Lee Jackson invece offrono magistrale sostegno armonico.

Dopo Charters e Welding, un altro produttore che fa bel tempo a Chicago, Bob Koester, non vuole che Hutto vada sprecato come negli anni Cinquanta, e nel 1966 lo mette sotto contratto con Delmark. Ha sentito il potente trio di Hutto, con Herman Hassell e Frank Kirkland, da Turner’s, ma anche ai lunedì blues di Rose & Kelly’s sulla 39ª.
Kelly era un poliziotto in pensione e il suo un posto tranquillo, visibile nel bel documentario Chicago Blues di Harley Cokliss in cui c’è anche JB in un’occasione in cui festeggia il compleanno. Nel film suona Thank You for Your Kindness (che poi riconoscerò come If You Change Your Mind), lo si vede tagliare la torta e lo si sente parlare in modo tranquillo e gentile. (5) Nel documentario sono presenti anche Muddy Waters, Floyd Jones, Junior Wells, Buddy Guy, e altri.
Koester racconta che una delle prime incursioni di Hutto nel North Side fu nel club non-alcolico di Ray Townley, Alice’s Revisited (senza licenza liquori perché il posto apparteneva a una chiesa). Nonostante fosse un luogo più hippie che blues, c’erano regolarmente bluesman a suonare (qualcuno ricorderà il Live and Cookin’ at Alice’s Revisited di Wolf), e lì il produttore assiste a una battaglia tra JB e Hound Dog Taylor:

Ricordo uno della band di Taylor agitarsi un po’ per come Hutto stava andando bene, mentre Dog giocava tranquillamente a carte nel seminterrato (…)

Quella che Koester dichiara essere la prima sessione è però tenuta in un «club molto più tranquillo, Mother Blues in Wells Street, vicino Goethe (a Chicago pronunciato Go-thee), dove s’era trasferita la scena dei club dalla zona malavitosa di Rush Street». Il Mother Blues era situato nella città vecchia e originariamente presentava musica folk, ma virò sul blues e sul jazz con la guida di Bob Wettlauffer, che aveva già gestito il Big John’s nella stessa strada, dove Paul Butterfield e altri emersero.
Tuttavia, STOMPIN’ AT MOTHER BLUES è il terzo e ultimo disco a esser pubblicato da Delmark (nel 2004 in CD), con diciannove titoli tra cui quelli della sessione inedita del 17 dicembre 1966 al club, e non si tratta di un live davanti a un pubblico. Leon Kelert dell’etichetta Blackbird è d’accordo nell’effettuare le registrazioni quando il locale è chiuso; le dodici tracce iniziali appartengono a questa prima occasione, le sette finali sono inediti che appartengono all’ultima sessione Delmark, tenuta ai Sound Studios per mano di Stu Black il 19 e il 20 dicembre 1972 per il disco SLIDEWINDER.
Nel materiale del ’66 è quindi il terzetto formato con Hassell e Kirkland a fornire gli episodi più rustici e diretti della sua discografia. Brandelli musicali autentici e sinceri come se li vedessimo comporsi al momento davanti a noi; niente è filtrato, voce, chitarre e batteria sono graffianti e lacere.
Il Re è nudo e crudo, non per stupida vanità ma perché è tutto sostanza e groove, dallo stesso trio di The Blues / Today eppure dall’effetto diverso. Ovviamente anche là, in uno studio ben equipaggiato – se non avessero avuto le speciali qualità che hanno – non avrebbero potuto nascondere eventuali mancanze, ma qui sono spogliati di tutto. Solo purezza e comunicativa, e se là sono grandi qua sono impressionanti. Kirkland lo è, batterista blues fino all’essenza con stile e concretezza formidabili, esempio di ciò che significa essere in the pocket. Da ogni suo singolo tocco escono vibrazioni rock avvolte in una nuvola swing, ma soprattutto c’è, è presente, vive e respira suono.

J.B. Hutto, Stompin' at Mother Blues CD cover (Delmark Records)

Il canto è più grezzo rispetto a quello di HAWK SQUAT e le parole sono incomprensibili, accennate (qui in particolare, ma in generale sarà per questo che non si sentono molti cover di Hutto?): sigillo anticontraffazione su testi tutti suoi a parte un’altra versione di Alcohol Blues di S.B. Williamson I, naturalmente con liriche personalizzate.
Il verbo è proprio il motivo della mancata pubblicazione; la ritengono una sessione troppo cantata per una dizione così poco leggibile, complice l’accento del sud (ma Koester sbaglia quando parla di “accento dell’Alabama”).
Forse è un bene sia così, la musica è già abbastanza forte per i deboli di cuore, meglio non soffermarsi sui dettagli; queste non sono storie da raccontare, sono esperienze tradotte in suono e arrivano per altri sensi. La corrosiva Hip Shakin’ è l’unica non inedita (appare nel primo disco, HAWK SQUAT), moncata della sfumatura finale: un crimine aver omesso l’eventuale chiassosa e travolgente conclusione di Kirkland. È inutile parlare di ognuna delle dodici, perché formano un insieme molto omogeneo.

Solo cazzotti niente carezze, ma anche cura in grado di comprimere la pressione sanguigna allo scopo di fermare almeno un po’ l’emorragia della quale si soffre.
Unica sottigliezza è il dolce e invadente strumentale Hawk’s Rock, che sembra venirci incontro direttamente dalle colline del Mississippi al ritmo di un treno a vapore (ricorda ‘Junior’ Kimbrough), mentre il lento If You Change Your Mind (ex Thank You for Your Kindness) non può non lasciar segno. Hassell secondo i crediti è al basso, ma mi sembra di più una chitarra a fornire quel bordone armonico scuro e minaccioso come il ringhio di un grosso cane nero con gli occhi iniettati di sangue, in rinforzo agli strali metallici e pungenti di Hutto; lo fa ovunque ma qui è letale. Lo stesso brano è anche in HAWK SQUAT (sotto) con resa diversa, più urbana e raffinata con Sunnyland Slim al piano e Dave Myers al basso.
Lo strumentale Turner’s Rock solleva parzialmente dall’attacco diretto, ma rosola come su un girarrosto implacabile che cuoce ovunque a puntino, prima delle pensose armonie di chitarra di Married Woman Blues, diversa nel testo rispetto a quella di The Blues / Today e non più strettamente attinente al titolo, e di un altro strumentale, Stompin’ at Mother Blues, la cui unica pietà nei nostri confronti la mette in atto nella brevità.

Gli shout vocali e i lamenti riverberati della chitarra di Hutto, il boogie grasso e legnoso di Hassell, il drumming carnale di Kirland sono pura insidia sonora. Peccato aver negato questo trattamento a una generazione di appassionati, fortunati invece i clienti dei club per averlo visto in questo assetto pro-sommossa.
Gli ultimi sette come detto appartengono alle sessioni di SLIDEWINDER del dicembre ’72, con Lee Jackson seconda chitarra, Bombay Carter basso ed Elbert Buckner batteria: credo ci sia un errore nei crediti, che per Carter e Buckner inverte gli strumenti. Dato che in un video ho visto Bombay Carter alla chitarra, e David Weld, chitarrista che ha frequentato Hutto diverso tempo, nelle note di SLIDEWINDER cita Bombay al basso (anche in una foto contenuta nel Live 1977 è al basso), ho pochi dubbi nell’adottare la situazione descritta sopra, tra l’altro confermata nei crediti di SLIDEWINDER.
È passato qualche anno e qualche accompagnatore, i brani sono più compiuti, leggermente più estesi, e il suo canto ha assunto un tono più basso, ma continua a lanciare infallibili saette elettriche da una chitarra sempre affilata. Di questi sette, anzi sei perché uno è solo pochi secondi di prova e “studio chatter”, l’unico già pubblicato (in una raccolta) è Love Retirement (Want Ad) (esiste un’altra versione in Keeper of the Flame, disco di cui parlerò nella prossima puntata), sensuale lento da slow drag.

Tre sono inediti: Lonely Heartaches, con canto soulful, ronzio insidioso della sua lead e bel comping di chitarra ritmica e basso, Dandruff e Guilty Heart, quest’ultima altra occasione in cui si nota il lavoro di Lee Jackson. Precious Stone e Young Hawks’ Crawl sono invece alternativi a quelli su SLIDEWINDER (v. sotto).
Il periodo dal 1967 alla fine del 1972 è quindi apparentemente privo di registrazioni, ma non se si tiene conto della menzione di Koester, in contraddizione con i crediti di copertina del CD HAWK SQUAT, sul fatto che le tracce di quest’ultimo siano del 1968, probabilità compatibile con il suono e la presenza di altri accompagnatori (Hassell non è più nella band), e anche perché non si spiegherebbe la così lunga attesa per la pubblicazione se anche queste fossero del 1966 come scritto nei crediti, dato che l’album originale risale al 1969.
Cogliendo altre parole del discografico, dopo le registrazioni Mother Blues il fotografo e scrittore Dick Waterman ingaggia la band per un tour in California, presto interrotto perché Kirkland s’ammala, ma non appena il batterista si riprende è JB ad avere problemi per una polmonite, che potrebbe averlo tenuto fuori gioco un bel po’.

J.B. Hutto & His Hawks, Hawk Squat CD cover (Delmark Records)

È dopo la malattia, nella primavera (e forse agosto) ’68, che Koester colloca la produzione di HAWK SQUAT, intestato a J.B. Hutto & His Hawks with Sunnyland Slim, e prima pubblicazione Delmark.
Il produttore dice che solo Hip Shakin’ appartiene alla sessione del 1966 del Mother Blues, e infatti è la stessa, a differenza della copertina che la dichiara come l’unica del maggio ’68. Qua risalta maggiormente essendo in mezzo a tracce un po’ diverse, a parte le ficcanti sonorità di Kirkland e Hutto, ancora efficaci allo stesso modo nel salvaguardare il carattere crudo e realista che JB di solito ottiene in trio.
Il terzo elemento che aiuta a conservare quell’aspetto qui è Lee Jackson, tuttavia presente solo in cinque titoli. Per gli altri i crediti specificano due date del 1966, di cui una però, quella del 17 dicembre, sarebbe campale dato che coincide con la sessione Mother Blues, come pare strano che nello stesso giorno abbia registrato in due modalità diverse; a parte le date probabilmente sbagliate, si capisce che sono occasioni separate perché gli accompagnatori cambiano. Quella dichiarata ai Ter-Mar vede Sunnyland Slim al piano e organo, Lee Jackson alla seconda chitarra, Junior Pettis al basso, e Kirkland. Abbiamo di nuovo arte corale, trama creante un intreccio corposo e ondeggiante, e ancora lodi a Kirkland, importantissimo, peculiare, stupefacente.
Speak My Mind sfrutta il riff di Dust My Broom, Lee Jackson rincalza sotto mentre Sunnyland con l’organo muove tutto, come in What Can You Get Outside That You Can’t Get at Home, con gran solo di chitarra. L’allegorica e spigolosa 20% Alcohol è tra le migliori, con bellissimo canto maturo, asciutto, nervoso, ricordante Muddy, e Kirkland stellare. Anche i due lenti non sono innocui, Too Late e The Feeling Is Gone, con organo insinuante senso di fluttuazione insieme al suono incantatore di Hutto (e Lee Jackson).

L’altra sessione, ai Sound Studios, vede ancora Sunnyland e Kirkland, mentre appare il sax tenore del jazzista Maurice McIntyre (aka Kalaparush), e Dave Myers offre un leggibile rinforzo al basso. Il canto di JB è tonante, declamatorio, da preacher, e primeggia su brani medio-lenti a parte Hawk Squat, svolto come in scena, con il suo parlato e gli assolo di tutti a ruota.
Il resto è ugualmente intenso, con suono molto vivo, anche impressionante nella sua immanenza (come nel West Side Soul di Magic Sam). L’accoppiata voce/chitarra ha incisività perfetta, con punte irresistibili in If You Change Your Mind (stesso brano presente in STOMPIN’, v. sopra, qui reso diversamente con Sunnyland Slim e Dave Myers a infondere il classico stile chicagoano: di uguale, oltre a Kirkland in comune, hanno che sono entrambe splendide), mentre in Send Her Home to Me e Notoriety Woman il canto è di una potenza inaudita: JB pare sputare l’anima.
Completano The Same Mistake Twice, dalla sei corde tagliente, feroce (a poco servono il piano e il sax, fa tutto lui, loro confondono solo), e Too Much Pride, in cui ancora sax e piano, pur brillanti (soprattutto il piano) appaiono un po’ ridondanti, perché Hutto non necessita di abbellimenti e da solo convoglia tutto; ci avrebbero potuto pensare benissimo solo Kirkland e Myers a trasportarlo nel suo imprevedibile zigzagare. Nonostante siano incisioni schiette e aspre, l’atmosfera sia sciolta e JB diretto come in un live jam (non a caso Koester dice che l’album è nato da Turner’s), queste appaiono più ricercate anche per originalità, ma soprattutto per la strumentazione aggiunta, a lui abbastanza estranea.
Tra la fine degli anni 1960 e l’inizio dei ’70 JB si trasferisce nei sobborghi a sud di Harvey, Illinois, dove ha comprato casa. Dista solo trenta chilometri da Chicago ma lui si reca alle serate da Turner’s con i mezzi pubblici, cosa che a lungo andare lo stanca e quindi smette di andarci, comprensibilmente se si pensa anche alla misera paga. Koester nelle note di STOMPIN’ scrive che Bernie Pearl ingaggia la band nel suo (in realtà del fratello) iconico Ash Grove a West Hollywood dopo che “l’album fu pubblicato” (credo parli di HAWK SQUAT), e al ritorno dal trip californiano sicuramente suona ancora nel locale chicagoano dato ciò che il capo di Delmark sente dire da Turner: “Il viaggio in California m’è costato parecchio! Prima li pagavo ognuno 5 dollari a notte, ora mi tocca pagarli 8 dollari!”.

J.B. Hutto, Slidewinder CD cover (Delmark Records)

Le sessioni del dicembre 1972 ai Sound Studios producono quindi il secondo Delmark, SLIDEWINDER, uscito nel 1973 con otto titoli.
È un disco più debole dei precedenti, nulla che colpisca in particolare e la coppia Carter/Buckner è precisa e puntuale ma non paragonabile ad Hassell/Kirkland in quanto a eloquenza, però Hutto conferma le sue qualità come chitarrista tanto limpido, sciolto e diretto nello stile quanto caustico, divertente e vibrante nel suono, uno slider dal tocco chirurgico e un nobile espressionista legato a filo con la dura realtà che l’ha prodotto, Chicago.
Anche come autore dà ulteriore prova, praticando il consiglio da lui dato a David Weld, suo allievo per due anni: “Scrivi canzoni da uomo, non da ragazzo, un uomo che dice qualcosa sulla sua vita”.
Weld, che firma le note all’edizione in CD, conosce Hutto nel 1976 in occasione di un articolo per Living Blues e poi continua ad andare a casa sua; è JB stesso a chiederglielo dato che vuole qualcuno con cui provare. Cito Weld anche perché forma originariamente Lil’ Ed and The Blues Imperials con ‘Little Ed’ Williams e James ‘Pookie’ Young, i nipoti di JB che ancora oggi portano l’eredità dello zio, anche se con sonorità moderne.

Questi brani sono generalmente più shuffle, proprio anche per le caratteristiche della sezione ritmica, a partire dai tre strumentali: il lungo title track, lo spassoso Young Hawks’ Crawl con duello tra le due chitarre, e Boogie Right-On, altra lunga cavalcata in gustoso interplay tra Hutto e Lee Jackson.
Il canto è scuro e rimane tra le sue migliori doti, come nella fiera preghiera medio-lenta Blues Do Me a Favor, con sobrio, piccolo break di Lee Jackson, e nel particolare umore (grazie al basso) di Precious Stone, in cui già dall’incipit JB rivela natura sensibile, rintracciabile anche in altri brani autografi: In my heart you’re the precious stone, I treasure it like a rich man treasure gold.
Shy Voice ha scansione funky e ricorda I Feel Good di James Brown (a margine: il particolare giro di basso mi è familiare, ma non mi viene in mente perché).
La copertina del disco rese nota la fiammeggiante Res-O-Glas Airline (visibile anche sull’album originale) tanto che il modello (metà anni 1960) ha preso il nome “Hutto”, ma JB non ha beneficiato di un centesimo per questa involontaria sponsorizzazione. Una chitarra economica di plastica comprata ai grandi magazzini Montgomery Ward che con il tempo è diventata oggetto fetish, soprattutto dopo che è stata adottata da Jack White. La stessa comunque era già sul davanti di HAWK SQUAT, e la si vede all’opera nel documentario sopracitato.

J.B. Hutto, Hipshakin', Live in London (Flyright Records)

Cito solo per completezza HIPSHAKIN’, LIVE IN LONDON, Flyright del 1972. Purtroppo la qualità audio è amatoriale, ripresa in febbraio al 100 Club di Londra, e forse anche in altri ritrovi, su un comune registratore portatile a cassette, penalizzando molto l’ascolto. È accompagnato da un gruppo inglese, The Brunning/Hall Band (Bob Hall, piano, Pat Grover, chitarra, Robert Brunning, basso, John Hunt, batteria), provenienti da varie formazioni, tipo Savoy Brown e Fleetwood Mac.
Non ho trovato nulla registrato nel periodo 1973-1975; nel 1974 c’è però l’uscita di un altro LP Flyright (TARHEEL STOMP, Flyright 511, autori vari) che non conosco, contenente quattro titoli la cui origine mi è ignota. Si tratta di Hipshakin’, Long Distance Call, Hear Me Cryin’ e I Have to Go e i connotati sono quelli di una raccolta, però gli ultimi due titoli non li ho mai visti altrove.
Grazie a diversi ingaggi nei primi anni 1970 Hutto, oltre a sbarcare in Europa, comincia a bazzicare spesso la zona di Boston e Washington DC. Anzi, dato che i segnali dell’ultima fase della sua carriera provengono tutti dalla costa nord-est, cioè dal New England, è possibile si sia rilocato da quelle parti, anche se il luogo della sua scomparsa rimanda ancora ad Harvey.
Nel frattempo Frank Kirkland purtroppo se n’è andato per sempre (marzo 1973), mentre JB soffre di diabete e ha dovuto cambiare alcune abitudini; anche se Too Much Alcohol rimane nel suo repertorio, seduto al bar tra un set e l’altro ora sorseggia succo d’arancia. Dave Weld riporta che «J.B. non beveva più a causa del diabete. Era un uomo umile, sensibile e ricettivo, e fui sorpreso da quanto era amichevole e disponibile (…). Una volta fu arrestato dalla polizia di Chicago per guida in stato di ebbrezza, ma in realtà si trattava dell’alto livello di glicemia nel sangue». (6)

J.B. Hutto, Blues For Fonessa, LP cover (Amigo Records)

Chiudo questa prima parte con un altro live europeo in vinile, BLUES FOR FONESSA (Amigo), che invece merita considerazione. Registrato a Stoccolma il 26 e 27 febbraio 1976 durante un tour in Svezia, ha dieci tracce con qualità audio non buonissima, ma accettabile.
È accompagnato da bravi musicisti svedesi, Gunnar Rosengren, basso, Stefan Sundlof, batteria e, solo nei primi cinque brani, Anders Gutke a una discretissima seconda chitarra. Non potendo entrare nel mondo di Hutto, non interferiscono e offrono un background standard circoscritto alle manovre del leader che ora, se la copertina è fedele all’evento che rappresenta, imbraccia una Telecaster.
Riprende due sue storiche, Things Are So Slow, il blues sulla depressione economica, e la sinuosa My Kind of Woman a ritmo di rumba, e paga omaggio a quattro mostri sacri, Muddy, B.B. King, Howlin’ Wolf e T-Bone Walker con Blow Wind Blow, Why I Sing the Blues, How Many More Years e Stormy Monday.
Come novità che credo si trovino solo qui, i due strumentali Chicago Boogie, naturalmente uptempo in stile chicagoano, e Goodnight Boogie per i saluti finali, ma soprattutto Stranger Blues, non quello di Elmore James, piuttosto un bel lento che offre tormento e cura insieme, e il meraviglioso Blues for Fonessa, capace di colpire nel profondo. Solo quest’ultimo vale l’album, chissà da dove viene e come mai non si sente altrove.
Il disco è sobrio e quasi minimalista, eppure intenso, forse senza particolari picchi (a parte, per me, Fonessa) ma a un costante buon livello d’interesse, e in un paio di occasioni usa un non ricorrente falsetto. Qualche volta il basso è troppo sopra, ad es. in Stormy Monday.
La sua chitarra è in primo piano con un suono molto pungente, non so se è così perché ha azzerato i bassi sull’amplificatore o altro, e ha bel riverbero naturale. La sua voce è splendida e in generale il suono è chiaro, ma i primi cinque episodi non sembrano live.
Inspiegabili le sfumature finali, specie su ciò che pare dal vivo; oltre a mutilare i brani, privano delle reazioni del pubblico, che da quel poco che si sente pare ricettivo. Non mi piace quando nei live lasciano i rumori e gli applausi troppo alti, ma neppure quando sono tagliati del tutto.
(Seconda e ultima parte).

(Fonti: Sam Charters, note a Chicago/The Blues/Today!, vol. 1, Vanguard Records, 1966; Pete Welding, note a J.B. Hutto & The Hawks, Masters of Modern Blues, Testament Record, 1967/1995; Bob e Sue Koester, note a J.B. Hutto & His Hawks with Sunnyland Slim, Hawk Squat, Delmark, 1969/1994; Bob Koester, note a J.B. Hutto, Stompin’ at Mother Blues, Delmark, 2004; David Weld, note a J.B. Hutto, Slidewinder, Delmark, 1973/1990.)


  1. Guido van Rijn, The Truman and Eisenhower Blues: African-American Blues and Gospel Songs, 1945-1960, A&C Black, 2004, pag. 97.[]
  2. Karen Hanson, Today’s Chicago Blues, Lake Claremont Press, 2007, pag. 197.[]
  3. Chicago Blues, The Chance Era, compilazione con vari artisti registrati dall’etichetta durante la sua breve attività, come John Lee Hooker, Little Walter, Homesick James, ‘Big Boy’ Spires, Willie Nix, Sunnyland Slim e altri. Un’altra raccolta Charly, Combination Blues: Chicago Bluesmasters, vol. 1, contiene quei sei più Price of Love.[]
  4. Nel marzo 1954 la disoccupazione degli afroamericani era al 10%, secondo Douglas B. Chambers e Kenneth Watson, The past Is Not Dead: Essays from the Southern Quarterly, Univ. Press of Mississippi, 2012, pag. 142. Nei primi anni 1930, durante la Grande Depressione, era ben peggiore, dal 50 al 70 per cento a seconda delle zone.[]
  5. Lo spezzone è molto bello, e i due con lui potrebbero essere Brewer Phillips e Ted Harvey; in un’altra scena Hound Dog Taylor è visibile seduto al bar di Rose & Kelly’s mentre Hutto sta suonando.[]
  6. In “Dave Weld remembers J.B. Hutto”. Aggiornamento: ho rimosso il link diretto a questo articolo perché l’indirizzo non è più valido. Era nel sito Chicago Blues Guide.[]
Scritto da Sugarbluz // 27 Aprile 2015
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