J.B. Hutto – Bio-discografia 1977/1983

J.B. Hutto, 1977

Dopo la morte di Hound Dog Taylor, nel 1976 Hutto eredita la sua band storica, The Houserockers, cioè il chitarrista Brewer Phillips e il batterista Ted Harvey, con i quali c’è già familiarità e affinità musicale avendo “il Dog” condiviso con lui la scena di Chicago e una vena stilistica simile.
Brewer Phillips era un mississippiano classe 1924 scomparso nel 1999, allievo di Memphis Minnie e nei tardi anni 1940 spalla di Roosevelt Sykes, prima di unirsi alla band di Bill Harvey, già visto su queste pagine per la scuola fornita a diversi musicisti di Memphis. (1)
Ted Harvey, nato a Chicago nel dicembre 1930, (2) cominciò a suonare nell’Esercito e si formò come batterista jazz; in seguito prese lezioni di backbeat da Fred Below, e tutti possono sentire quanto abbia appreso bene. Prestò i suoi servizi, con e senza il sodale Phillips, anche a Jimmy Dawkins, Eddie Taylor (amico d’infanzia di Phillips) e Jimmy Rogers; il suo ultimo gig è stato proprio con Rogers nel 1997, poco prima della scomparsa del chitarrista.
La collaborazione con Hutto avrebbe potuto dare buoni frutti, ma fuori non c’è la stessa compatibilità mostrata sul palco e l’unione dura poco, forse solo un paio d’anni, non producendo nulla in studio. JB è un tipo tranquillo e di poche parole, e mal sopporta le discussioni. (3)
Come anticipato nella prima parte della storia, Hutto negli anni 1970 trova una seconda carriera sulla costa nord-est, soprattutto grazie a Ron Bartolucci, agente, manager e proprietario di Baron Records (a Melrose, due passi da Boston) pronto a produrlo, e la testimonianza della sua associazione con i due litigiosi ma fraterni houserocker è dal vivo, il 15 e 16 giugno 1977 al Sandy’s Jazz Revival di Beverly, Massachusetts.

J.B. Hutto and The Houserockers, Live 1977, CD cover (Wolf Records)

Otto brani escono nel 1980 su LP Baron 101 (e su LP Charly) e oggi questi più tre aggiunti si trovano nel CD LIVE 1977 dell’austriaca Wolf Records.
Il supplemento di un pianista, Mike Allen, e di un bassista, Mark Harris, è rispettivamente inutile e ridondante: i tre infatti possiedono autonomamente tiro e sostegno armonico-ritmico per i loro hard boogie scarni e selvaggi. Non sarebbe comunque male se la qualità audio fosse buona, se la lead guitar non fosse spesso sotto e il canto non così penalizzato. Il basso è ingombrante; Phillips con la sua ipervissuta Telecaster avrebbe ben potuto tenere una solida linea di basso con il primo dito, e con il resto un dinamico e intercambiabile interplay con Hutto fatto di schemi accordali shuffle e metallici interventi solistici single string (solitamente con sonorità distorte ottenute in modo naturale) come faceva, anche per necessità, con il molto più scarno e limitato (rispetto a Hutto e a Phillips) Hound Dog Taylor. Con Hutto non ce n’era bisogno, ma sicuramente neppure di un basso come questo qui.
È tra i capitoli più grezzi della sua discografia, esempio dell’atmosfera rovente di un live act di JB oltre che dimostrazione della grandezza stilistica distintiva di Ted Harvey e di quelle due Telecaster tese e agguerrite, e di come avrebbero dovuto esser lasciati soli e registrati al meglio. Non so come Harvey abbia resistito a non rompere le bacchette in testa al bassista, che è insopportabile.

Hutto, come sempre indipendentemente dal contorno, rifugge il caos e il suo timing è imperturbabile; forse qui reitera più del solito il fraseggio alla Elmore James, lo stesso che molti anni prima lo fa innamorare della slide guitar. A parte lo strumentale J.B.’s Boogie e il suo signature song Hip Shakin’, gli altri sono tutti rifacimenti di classici, anche se ormai Too Much Alcohol, l’Alcohol Blues di John Lee ‘Sonny Boy’ Williamson, è diventato suo.
You Don’t Have to Go (Jimmy Reed) è cantato da Phillips, prima che torni a farsi sentire la virale influenza di Howlin’ Wolf, stavolta attraverso Killing Floor, la più assassina e non mi riferisco all’argomento evocato; tagliate fuori il basso più che potete e sentite cosa fanno i tre (soprattutto Harvey). Sixteen Year Old Boy (I feel bad, I feel terrible, già solo l’incipit catapulta all’istante dalle sue parti) è l’unico lento ed è alla Muddy Waters, ma deriva da The 12 Year Old Boy di Mel London, inciso da Elmore James nel 1957 per l’etichetta di London, Chief.
Worried Life Blues di Maceo Merriweather mantiene la sua fierezza ma smette i panni dimessi e aumenta il tempo, mentre l’avvertimento Don’t You Lie to Me di Tampa Red diventa più minaccioso.
I tre in più sono Kansas City, anche questo cantato da Phillips, Dust My Broom e Walking the Dog di Rufus Thomas; si sentono addirittura peggio degli altri.

J.B. Hutto, Slide Guitar Master, CD cover (Wolf Records)

Il live ’77 da Sandy’s arriva dopo una serie di concerti ben accolti nel 1976 prima in Europa e poi negli States, e nel vecchio continente è il “Vienna Blues Fan Club” a organizzare e registrare almeno due spettacoli in città nel ’76 e ’77. Da queste occasioni è tratto il disco uscito nel 1999 nella serie Chicago Blues Session di Wolf Records, HIP SHAKIN’, SLIDE GUITAR MASTER.
Si tratta di riprese ancora abbastanza improvvisate, ma il suono è più vivido rispetto al disco appena visto, con undici episodi di cui nove con l’accompagnamento di due musicisti locali, Small Blues Charlie al basso e Fritz Ozmec alla batteria, e solo due con gli Houserockers. È comparabile allo svedese Blues for Fonessa nel senso che non avendo una band appartenente alla sua specie con la quale produrre energici set a base di boogie-rock virali, ma una austriaca che si limita a fornirgli un’elementare base ritmica, JB si dedica a blues lenti classici e a versioni mid-tempo di brani originariamente su di giri sia nel tempo d’esecuzione che nel volume dell’amplificatore, vedi un Dust My Broom rallentato.
Come può succedere con altri bluesman afroamericani di quell’epoca in trasferta, abbiamo l’Hutto americano (tirato) e l’Hutto europeo (loose), e a volte quest’ultimo riserva sorprese dando occasione di sentirlo con un carattere blues più tradizionale, che a noi europei in fondo piace tanto.

In altre parole, sorvolando sull’audio metallico e accettando (o apprezzando) il fatto che fa quasi tutto da solo, è un disco più che buono solo perché offre la voce e la pungente Telecaster in primo piano, entrambe distese e intense, nell’affrontare ad esempio due classici di colui che dopo Elmo è la sua miglior scuola di canto e chitarra a Chicago, Muddy Waters, con Honey Bee e Long Distance Call. La slide è molto vibrante e carica di riverbero, Honey è bella, Long Distance è penalizzata dalla bassa fedeltà, ma il suono della chitarra ne esce comunque bene.
Da Guitar Slim invece potrebbe esser stato ispirato per le sgargianti mise di scena (però i fez di Hutto non hanno eguali) e per il suonare vagando tra il pubblico, sui tavoli o sui banconi dei bar grazie a cavi più lunghi del solito, e qui dalla sua The Things I Used to Do, mentre ha già da un po’ in repertorio un adattamento della bellissima Mistake in Life di Roosevelt Sykes.
Figura archetipica come il postino (e il lattaio, v. sotto), il Garbage Man di Hutto è insidioso come le sue note, libere d’oscillare in tutta la loro ampiezza in un tempo diluito, facendo concorrenza a quello di Muddy (gli accompagnatori all’inizio sembrano non saper che pesci pigliare, specie il batterista, poi proseguono alla bell’e meglio), prima di tre suoi cavalli di battaglia: Too Much Alcohol, Dim Lights e un J.B.’s Boogie qui più limpido, dal suono metallico e tocco corrosivo.
Peccato per le tracce con gli Houserockers, Hip Shakin’ e Milkman Blues, prigioniere di un composto sonoro in cui tra l’altro Phillips copre JB. Di Phillips dicono che è al basso, ma a me pare una chitarra, forse la Tele simile a quella di JB, visibili in una foto interna.
Altri cinque episodi dal vivo a Vienna con lui e gli Houserockers nel 1977, in cui però il solista è Phillips, sono in GOOD HOUSEROCKIN’ (Wolf Records), intestato a Brewer Phillips e Ted Harvey, ma l’audio è pessimo. La rottura con gli Houserockers è riassunta così da David Weld:

I due avevano suonato con J.B. in giro nell’Est, ma lui li liquidò dopo una grossa litigata (…). La lite si svolse alle prime luci dell’alba, in un tranquillo quartiere bianco con J.B. indossante il suo cappello Shriners pieno di lustrini e il vestito africano. Ebbe una disputa con Brewer a pistole spianate; non furono usate, ma qualcuno chiamò la polizia. (4)

J.B. Hutto and The New Hawks, Keeper of the Flame LP's cover (Baron Records)

Anche il secondo e ultimo album per Baron risale al 1980 ed è KEEPER OF THE FLAME (LP-104), ristampato in CD ancora dalla viennese Wolf nel 1991. Prodotto da Ron Bartolucci e Steve Coveney, l’originale conteneva sette brani di cui tre dal vivo, in totale diventati undici nell’edizione digitale con quattro titoli aggiunti dalla stessa occasione live.
I Nuovi Hawks vengono da Boston e sono il bravo Leroy ‘Lefty’ Pina alla batteria (con lui fino alla fine) e ‘Silvertone Steve’ Coveney alla seconda chitarra; al basso c’è Bob Case nel febbraio 1980 al Viscount Recording Studios di Cranston, Rhode Island, e il sobrio Norman McCloud dal vivo l’11 luglio 1979 al Vegetable Buddies di South Bend, Indiana.
Le tracce in studio sono un sollievo dopo tanto materiale dal vivo dalla precaria qualità audio, e allo stesso tempo un leggero tormento per via di un suono più moderno; gli anni Ottanta sono iniziati per tutti, ed è il caso di You Don’t Love Me di Willie Cobbs. La chitarra di JB però è un toccasana, e persiste il valore della sua vocalità calda, matura ed espressiva, inoltre Coveney supporta bene. Pochi hanno rifatto questo brano con andamento rilassato come gli originali – al plurale perché Cobbs fu ispirato da She’s Fine, She’s Mine di Bo Diddley – e anche in questo caso è così.
Torna il suo Love Retirement, slow blues da ascoltare a tutto volume con slide corposa sottolineante frasi cantate (ahimè quasi incomprensibili) nello stile di Muddy, come spesso succede nei suoi lenti. Quando canta così è grande, ma mi piace anche come interpreta in modo inusuale per lui il classico Summertime, anche se lascia la lead guitar a Coveney, piuttosto acida. Fifteen Cent Phone Call è un uptempo autografo alzante una ventata non innocua, di quelle improvvise che investono il passante girando l’angolo di una strada a Chicago. Un boogie shuffle elastico sostenuto con belle chitarre, quella di JB mordace, discorsiva sopra la ritmica di Coveney tra western swing e rockabilly.

Le tracce dal vivo sono ad alta tensione e tutte molto valide, inizianti con l’annuncio del maestro di cerimonia (credo Leroy Pina) e un’imponente Dim Lights, un po’ disturbata dall’audio massiccio.
Più chiara la lacerante Let Me Love You di B.B. King, dalla sei corde bella grassa in call and response con il canto superbo. Secondo Coveney, JB raramente preparava una scaletta, e lo strumentale Tumbleweed fu del tutto improvvisato (e si sente). È abbastanza suggestivo per il suo incedere nervoso e insieme ipnotico, come l’inconcludente moto di un rotolacampo, ma non è compiuto. JB fornisce un robusto pattern ritmico e qualche break alla ‘Junior’ Kimbrough, Coveney è psichedelico con tono fuzzy.
I bonus sempre dal vivo sono altrettanto riverberati ma più letali (peccato siano stati tenuti all’oscuro per più di dieci anni), a partire da The Sky Is Crying, da cogliere fino all’ultima nota con i lancinanti lamenti di JB e la seconda chitarra a far eco.
Eccelso il travolgente e aspro trattamento riservato a Please Don’t Leave Me di Fats Domino: per me già solo questo vale tutto. JB è in piena forma e rivela con rauca potenza sonora la sua pura fibra; è una cura ricostituente da sparare ad alto volume fino a quando non si regge più. Mi sembra di vederlo in quel suo ironico enfatizzare parole e vocalizzi.
Baby How Long è parte dello stesso trattamento d’urto, e non si pensi di star tranquilli con No Good Man, che pare Dust My Broom ma è Mother in Law Blues (AKA Early in the Morning) di Junior Parker rivisto a modo suo: suono tanto sporco quanto bello. Una band che non aggiunge nulla, ma adatta a mettere in evidenza Hutto, e Coveney ricorda:

Viaggiammo dappertutto negli States, con puntate regolari a New York al Tramps, al Lone Star e al Bottom Line. Suonammo al ChicagoFest e in altri grandi festival in tutto il paese. (5)

J.B. Hutto and The New Hawks, Live at Shaboo Inn, Conn. 1979, CD cover

È invece per completisti il LIVE AT SHABOO INN, Conn. 1979, su compact disc dal 1991 per Fan Club e riedito nel 2007 da Last Call come parte di una raccolta denominata 6 Blues Giants Live.
Lo Shaboo Inn fu aperto nel 1971 ed era tra i locali più interessanti del New England, tappa obbligata per i musicisti passanti tra Boston e New York. Sorto nel sito di un’ex fabbrica tessile dell’Ottocento nella tranquilla cittadina di Willimantic, Connecticut, nei suoi undici anni di attività ha offerto migliaia di live act di artisti già noti o che lo sarebbero diventati, di blues, rock, jazz, e vi si trovava uno spirito familiare in cui il contatto con l’artista era ravvicinato, nonostante potesse contenere anche un migliaio di spettatori. Il disco offre un tipico show americano di Hutto con i New Hawks (la formazione precisa non è specificata, comunque è verosimilmente la stessa o quasi delle tracce dal vivo di Keeper of the Flame), anche qui compatti attorno al leader e dando sostegno adeguato.

L’audio è abbastanza decente, tuttavia la sua chitarra in qualche caso è sotto, e non ci sono particolari variazioni, sia fra gli otto brani che lo compongono sia rispetto ad altri dischi dal vivo.
Oltre alle sue ricorrenti Hip Shakin’, Too Much Alcohol e a uno strumentale iniziale di rito, J.B.’s Stomp, riprende il noto Shake, Rattle & Roll di Jesse Stone per Big Joe Turner, The 16 Year Old Boy (anche nel Live 1977) di Mel London e Linda Lu di Ray Sharpe, come al solito cambiando un po’ le liriche. Tell Me Why e I Don’t Know Why sembrano nuovi e autografi, il primo un suo classico blues mid-tempo, il secondo un lento torrido, da lui presentato come una “storia di vita”, forse la cosa migliore insieme a The 16 Year Old Boy.
Dave Pierce, roommate di Bartolucci, nelle note afferma che Hutto si fermava spesso nel loro appartamento quando era in tour sulla East Coast e che, lavorando entrambi per negozi di dischi, avevano sempre molta musica per le mani e ne ascoltavano parecchia insieme a JB, costantemente interessato e con “le orecchie sempre aperte”.

JB Hutto, Bluesmaster, The Lost Tapes, CD cover

A sorpresa quest’anno (2015) sono spuntate due nuove pubblicazioni. Una è di marzo ed è la ristampa del contenuto di un LP londinese, BLUESMASTER (JSP 1096) uscito nel 1985 con sette brani forse fine anni 1970 intestati a J.B. Hutto, ai quali nella riedizione su CD sono stati aggiunti tre di Johnny Littlejohn, con il titolo BLUESMASTER, THE LOST TAPES.
Non lo conoscevo, e leggendo nel web l’errata informazione che trattasi di tracce dal vivo europee m’ero fatta l’idea che fosse un altro trascurabile “live in London” accompagnato da una band locale e con bassa qualità audio, invece all’ascolto sono rimasta colpita dalla sua inaspettata bellezza. Intanto, l’audio è molto buono ed è evidente che si tratta di registrazioni in studio, anche perché JB a un certo punto annuncia un “take four”.
Secondo e più grande motivo di stupore, la sconosciuta band è di prim’ordine. Qui abbiamo tutt’altro suono, carattere, umore, interplay di classe con classico corredo di piccoli solo, fills e riff a regola d’arte, e tutti sono protagonisti. Sembra roba chicagoana per la natura del suono e dell’esecuzione, con tipiche armonie strumentali e una chitarra ritmica da un solista coi fiocchi, con la quale Hutto scambia le parti e ben s’incastra, dando quindi prevalenza al canto e all’insieme. Ricorda il disco Testament per la presenza di un signor armonicista, oltre che per la qualità uniforme e la grandezza dei singoli. Non si sa il quando, né il dove e con chi.

Le note sono di John Stedman, fondatore di JSP che dice d’aver lavorato con Hutto per due concerti al 100 Club, e che era entusiasta quando ai tempi ebbe la possibilità di acquisire questa sessione; i nastri erano di Max Jones, nota firma di Melody Maker.
Nell’implacabile Screamin’ and Crying JB chiama l’altra chitarra per il solo, e anche se par di cogliere un “Eddie” (andando così il pensiero a Eddie Taylor, che sarebbe compatibile) non significa nulla, dato che è un suo richiamo ricorrente prima di un break suo o altrui.
Solo l’ultima è dal vivo, la meravigliosa Howling Wolf Blues (sfumata), come confermato dalle note che non dicono nulla in più se non che proviene dal 100 Club. Qui ha un suono cavernoso, forse ha la Gibson visibile nelle ultime foto e usata nelle incisioni anni Ottanta. L’esito è immenso, come è superlativo quando “ulula” accompagnandosi con parsimonia più eloquente di mille gesta. È la Howling Wolf di ‘Funny Papa’ Smith via Muddy Waters, e questa potrebbe essere la prima versione registrata di quella che sarà Lone Wolf nel disco Black & Blue.
Le altre sono Look on Yonder Wall, aprente il disco e mostrante subito l’altra chitarra in meritata evidenza, oltre che primo altissimo esempio del tenore generale, l’uptempo Two Headed Woman, per il quale non mi viene da dire niente di più formale di “oh mamma!” (e cosa non fa l’armonica, sembra Carey Bell, o Snooky Pryor), il lento da vertigine You Sure Hurt Me Bad, ancora dimostrante quanto JB abbia assorbito da Muddy (si rifà a Mean Disposition), la swingante Shake, Rattle & Roll (che differenza da quella dello Shaboo Inn!), che mette ancora avanti l’altra chitarra, e una Hip Shakin’ finalmente come si deve. Peccato non ce ne sia di più. Questo è il miglior Hutto (with a little help from his friends) “tradizionale”, rimasto nascosto ai più. È stato un crimine lasciarlo spirare in un vinile già introvabile poco tempo dopo la sua uscita, data la scarsa tiratura che Stedman dichiara esser stata fatta, privando tanti di questa roba sopraffina. Una band eccezionale insieme alla sua vocalità ruvida e virile, al suo timing propizio, al buon gusto del suo tocco e suono, qui più evanescente che mai.

J.B. Hutto, Slidin' The Blues, Blues Reference Series, CD cover

Abbiamo visto come per tanto tempo JB non sia stato registrato, al contrario dei suoi ultimi due anni su questa terra esiste molto materiale in rapporto a un così breve periodo e al suo stato di salute: agli inizi degli Ottanta gli fu diagnosticato un tumore ai polmoni.
Tra il meglio c’è SLIDIN’ THE BLUES su CD Blues Reference del 2002, originariamente LP SLIDESLINGER (1982) con dieci brani per la francese Black & Blue, uscito anche negli USA per Varrick/Rounder negli anni Ottanta e su CD Evidence nei Novanta con due tracce bonus.
Jean Pierre Tahmazian, fotografo e socio di Jean Marie Monestier per Black & Blue, sente Hutto in un club di Chicago alla fine del 1981, e lo ingaggia con gli Hawks per due tour europei nel 1982 nell’ambito del Chicago Blues Festival, uno in maggio e uno in novembre-dicembre; durante la seconda occasione c’è anche un concerto a Varsavia, poi ne parlo.
Prima di queste venute oltreoceano l’etichetta decide di registrarlo per poter distribuire il disco ai concerti europei, e così Tahmazian supervisiona la sessione al Blue Jay Recording Studio di Carlisle, Massachusetts, il 1º aprile 1982. In sua compagnia c’è il sostanzioso e asciutto Leroy Pina alla batteria e Steve Coveney alla chitarra, mentre dal 1980 è entrato Kenny Krumbholz al basso, ed è anche molto grazie a lui se tutto suona bene.

È un disco esuberante, passionale, generoso, lucido, in cui JB torna a (perdonate il termine) rockeggiare alla grande, ammesso che abbia mai smesso, immerso in un’aura spiritata apparentemente non corrotta dalla malattia che lo avrebbe portato via nel giro di un anno.
È il lavoro in studio da tanto tempo dovuto, arrivato a fine carriera, in cui i linguaggi di Robert Johnson ed Elmore James sono di nuovo scarnificati attraverso schegge sonore come schiaffi, in contrapposizione a certe sue liriche evidenzianti mansuetudine e sensibilità.
Dal disco Vanguard riprende Please Help e That’s the Truth, il primo un lungo boogie blues (bello il basso), lampante esempio della sua agilità fisica e mentale sopra un ritmo impellente con slide ben oliato, arma espressiva sapientemente usata per frasi gementi o piccoli singhiozzi di pulsione e slancio, il secondo un energico boogie sostenuto da superbe sonorità acide e stracciate sopra un persistente rock ‘n’ roll e con liriche stravaganti.
Dal Testament invece torna il brioso Lulu Belle’s Here, uptempo essenziale e scattante in cui chiede piccoli interventi scoperti al batterista e al bassista, mentre è di diverso umore ma altrettanto contingente Leave Your Love in Greater Hands, che nonostante il titolo mistico non è un gospel, anzi offre realismo amaro con testo originale accompagnato da riff simil-Elmore.
Un picco è Lone Wolf, come detto proveniente da J.T. ‘Funny Papa’ Smith e il suo Howling Wolf (da Smith inciso in quattro varianti, segno di successo, tanto che il suo soprannome divenne “The Howling Wolf”). JB s’ispira alla versione di Muddy e la fa sua (anche Lightnin’ Hopkins ne fece una, più simile a quella di Funny Papa, texano come lui e tra le sue dirette influenze). È un lupo afflitto e ossessionato quello che ulula davanti alla porta della sua baby, ma garantisce che if you give me what I want, oh, you won’t hear me howl no more. Il suo slide sferza duro dopo il verso

Sometimes I howl in the morning
In the evening, girl
when the sun go down
Some people call me a (pink?) panther
My baby knows the way I sound

Strano quel “pink” al posto di ciò che dovrebbe essere “black”. È la chiusura il colpo infido, come il suo sommesso ululare dopo

Sometimes I howl so low
You think my head, Lord Lord
is down in the ground
Because I howl like this
When my baby can't be found

liberando inferno con schegge spargenti brandelli di materia tutt’intorno, avvertendo in anticipo con un suo intercalare, “get out of here”, qui più azzeccato che mai.
Il breve J.B.’s Crawl è la versione strumentale di Please Help, altra occasione per perdersi nella sua spinta vitale, viaggiando forte e sicuro come su I Feel so Good, nell’ambito dell’efficace terapia fornitaci dal Dr Hutto; anche Big Bill Broonzy converrebbe che la sua ricetta originale a confronto pare innocua. Una centrifuga potente che non si immagina uscire da un uomo mite, o forse non può essere altrimenti. Buono il contributo di Coveney, e anche in questo caso ne esiste una versione di Muddy e una di Hopkins (I Feel so Bad), mentre la più recente e convincente è dei fratelli Alvin nel bel disco con le canzoni di Broonzy. Angel Face è un lento che mette al tappeto come Lone Wolf, mostrante un lato vulnerabile:

Been a long time
since I saw your angel face
Seein' it again made me realize
I haven't found no one yet, girl
to take your place
I shook your hand when I spoke to you
Even said my few words with a smile
But being that close to you
and couldn't hold you, honey
Deep down inside, girl, I cried

sigillando con una nota molto personale: Not even you could love a diabetic man.
Con Tell Me Mama di Little Walter è impossibile superare l’originale, ma è un altro vortice irresistibile (ritmica di chitarra simil-Killing Floor) prima di due take inediti di Donna Mill, mid-tempo in cui si riflette Smokestack Lightnin’ in ipnotico incedere mississippiano. Uno dei due chiude il disco nel modo migliore, lasciandoci soli con lui e la sua elettrica, occasione più unica che rara.
Altrettanto ipnotico e sudista è il groove di Disco Hustle, portato da Coveney e caratterizzato dagli interventi ondeggianti di JB. My Heart Is Achin’ to Love You è il terzo slow blues, occasione intimista prima di tornare a tutto vapore con Look on Yonder Wall e il rifacimento del suo primo disco, Combination Boogie, in cui JB concede altro solismo a Coveney.

J.B. Hutto, High And Lonesome, CD cover (Fan Club Records)

Appena undici giorni dopo, 12 aprile 1982, segue una registrazione live catturata a Binghampton nello stato di New York, fuori nel 1992 per Fan Club con dieci titoli sul CD HIGH & LONESOME, dal classico di Jimmy Reed aprente il disco. Siamo nell’ambito già ipotizzato per il decennio precedente di un Hutto (live) americano diverso da quello europeo, cioè più distorto e acido, con tiro più boogie-rock sovente in bassa qualità audio.
In ogni caso il suo soffio vitale trapela senza zone d’ombra e questo, anche se non fondamentale, è un altro ascolto che mostra come sia ancora genuino e diretto, arpionato ai visceri di un blues duro e innato, e soprattutto in questo periodo in cui, consapevolmente o no, è vicino alla fine, par di cogliere ancor più la forza e la volontà che lo animano.
Oltre al title track le novità sono l’adrenalinica, trascinante Hide and Seek, più simile alla sua versione di Please Don’t Leave Me che all’originale inciso da Big Joe Turner (è come sporgersi con tutto il corpo da un treno in corsa!), oltre alle autografe Come Back Baby, narrata con pennellate di passione e sangue, e l’interessante Coo Coo Baby, trasudante delirio e ossessione dai versi come dai break di chitarra.

L’introduzione parlata al bel lento Laundromat Blues (di Sandy Jones, inciso da Albert King) conferma l’impressione di cui sopra, dedicando il brano a chi gli rimprovera di non far blues, dicendo poi giustamente “I know what I’m doing”, prima di infiammare il palco con assolo bollenti. In verità tutto il disco è piuttosto incandescente, Leroy Pina in particolare è molto carico.
Torna il da poco registrato I Feel so Good, che farà anche al festival di Montreux il 17 luglio con, come qua, Brian Bisesi al posto di Coveney. Nelle note c’è scritto che sono i Rolling Stones a far sì che Hutto vada a Montreux, e che proprio in procinto di registrare un filmato televisivo alle prove per il set del sabato sera JB ha una crisi diabetica che gli impedisce d’esser presente, e a noi di poterlo vedere oggi.
Non credo sia stata ufficialmente pubblicata una registrazione del suo set completo a Montreux, ma se ne può sentire una parziale su YouTube che comprende Mean Mistreater, Blue & Lonely, J.B.’s Crawl, Young Fashioned Ways e One Room Country Shack. Mancano all’appello I Got a New Girl e Hip Shakin’, mentre I Feel so Good è l’unica regolarmente uscita sul vinile Blues Explosion, artisti vari, di Atlantic, occasione per cui vince un Grammy a due settimane dalla sua scomparsa.

J.B. Hutto The New Hawks, Live in Poland bootleg (1982)

Come anticipato, il 14 novembre è di nuovo in Europa e il bootleg qui a fianco, identificabile come LIVE IN POLAND, è una buonissima e fedele testimonianza registrata molto meglio di certe pubblicazioni ufficiali, anzi il livello è decisamente professionale, probabilmente rivolto alla trasmissione radiofonica; vale letteralmente il don’t judge by the cover.
Oltre la cortina di ferro quindi fanno sul serio, e in un periodo in cui il generale Jaruzelski ha dichiarato lo stato di emergenza la gente accorre riempiendo metà dell’auditorium, la polizia occupa l’altra metà pronta a intervenire al minimo accenno di disordini. Ha quasi la stessa introduzione del disco americano appena visto, segno che l’emcee è uno della band – band che qui, secondo i crediti battuti a macchina, vede di nuovo Coveney – ma la reazione del pubblico alla sua uscita è tutt’altra, paragonabile a quella per una rock star.
Dice Krumbholz: “In Europa le persone erano molto preparate e attente. Venivano ai concerti con i vecchi dischi di JB in ottime condizioni. Andammo in Francia, Germania, Olanda, Svizzera…”, (6) e qui si sente senza alcun disturbo il pubblico (anzi, rafforza la performance), caldo, riconoscente e palpabilmente felice in un’atmosfera da grande evento, quale in effetti è per loro.
Anche JB è motivato perché il contenuto è buono ed entusiasmante, fin dall’apertura con Summertime, in cui (come sempre fa con questo brano) non suona e si concentra su un canto soulful, però qui Coveney, o chiunque sia, ha suono e fraseggio migliore rispetto a quello di Keeper of the Flame.

I titoli paiono “arrangiati” dal compilatore, dato che la febbrile cavalcata chiamata Hey, Come Morning Blues in realtà è Early in the Morning, non quella di J.L. ‘Sonny Boy’ Williamson ma del sopracitato Junior Parker, meglio conosciuta come Mother-in-Law Blues. Un effluvio di scariche elettriche pervasive, come Meet You for Your Side (?) (titolo senza senso), che non ho mai sentito altrove e dal testo potrebbe essere la I Got a New Girl forse inaugurata a Montreux, alzante ancor più la temperatura e continuando a offrire ottime prestazioni del leader come degli accompagnatori.
Everybody Want to Know (Why I Sing the Blues) di B.B. King rallenta il ritmo, non lo scambio che rimane più che soddisfacente d’ambo le parti; JB comunica in modo eloquente e sostanzioso, la platea apprezza. È ricco di pathos e con vocalità imponente, come nello slow segnalato I Got a Right Heart Woman (nonsenso come sopra), che invece è I’ve Got a Right to Love Her (I’ve Got a Right to Love My Baby di B.B. King). Il tempo diluisce maggiormente, JB un cuoco che cuoce a puntino mantenendo un’ebollizione costante.
Meglio rispetto ad altri live anche gli strumentali, dallo shuffle jump-swing del genericamente intitolato Blues Boogie iniziale che lo presenta ai polacchi con il suo “nuovo” suono dalla portanza più grassa, ugualmente sfrangiato e bruciante nel carattere come fluente e mai banale nell’esecuzione, al J.B’s Boogie finale molto partecipato e allungato per presentare i singoli con i solismi rituali, ben fatti e concisi, quelli della seconda chitarra à la T-Bone Walker, che per il resto mantiene una bella ritmica jazzy, di Krumbholz, e di Pina (man with the beat… from the top to the feet), quest’ultimo non logorroico come nel break del disco precedente, prima del trionfale rush finale di Hutto che forse travolge anche la polizia. Quanta benefica irruenza! Dopo un minuto e mezzo di richiami torna con Rock Me Baby (al canto però non sembra lui), altrettanto diluita ma non impoverita in sostanza, quella di cui JB è fatto, a chiusura di un concerto focoso ed emozionante.

J.B. Hutto Chicago Slide, Final Shows 1982, CD cover

L’altra recente pubblicazione è un doppio CD, CHICAGO SLIDE, FINAL SHOWS 1982, uscito per la californiana Rockbeat nel gennaio 2015 con ventitré brani. Il primo disco e parte del secondo sono concerti francesi tenuti a Mutualite (sic), a cui sono state aggiunte tre tracce da Montreux (ciò che chiamano Got My Mojo Working in realtà è lo strumentale J.B.’s Crawl), e due bonus direi messi a casaccio, cioè il suo primo singolo del 1954, Combination Boogie / Now She’s Gone.
Gli errori qua e là dicono della scarsa cura di questa pubblicazione. La qualità audio non è buona e le formazioni non sono specificate, ma almeno in una di queste occasioni salta fuori che c’è Sarah Brown al basso, solo perché si sente Hutto presentarla. Un altro sicuro è il fido Leroy Pina, mentre la seconda chitarra potrebbe essere Bisesi. Il contenuto comunque è buono; se non fosse per il riverbero metallico e piatto sarebbe un ascolto piacevole, ma non fondamentale, suddiviso tra tempi lenti, medi e veloci, però trattandosi di un live molti brani si ripetono essendo limitrofo ad altre incisioni.
Tra il nuovo è da segnalare Say Goodbye, lento travaglio blues in crescendo, anomalo sia per lunghezza (13:39 min.) che per testo, credo autografo, forse ispirato da Walking the Backstreets and Crying di Little Milton. Anche Blue Hawk Blues, strumentale lento, e Frankie and Johnny (dal noto tradizionale) non mi pare si trovino altrove, come Caldonia, con l’audio peggiore. J.B.’s Bonsoir Blues invece è una lunga (16:00 min.) improvvisazione strumentale per il finale e le presentazioni.

J.B. Hutto & the New Hawks, Rock With Me Tonight, CD cover (Bullseye Records)

Nel febbraio e marzo 1983 rientra nello stesso studio delle sessioni Black & Blue con Bisesi, Krumbholz e Pina prodotto da Scott Billington, e dieci brani vanno su SLIPPIN’ AND SLIDIN’ per Varrick/Rounder; è il suo ultimo album e uscirà postumo nel 1984. Nel 1999 è ripubblicato da Bullseye sul CD ROCK WITH ME TONIGHT, aggiunto di due inediti.
È un disco dalle sonorità moderne, ma di buona qualità. Siamo nel periodo post-Blues Brothers e il blues revival è iniziato, mosso soprattutto da una generazione di musicisti bianchi cresciuti con il blues di Chicago e il rhythm and blues dell’ovest, ma non di meno ispirati dalla tradizione sudista, rispettosi del materiale e supportanti i bluesman originali superstiti.
È il caso della band che lo accompagna negli ultimi anni, ma qui anche di alcuni ospiti, ugualmente originari della costa est, che in qualche traccia trasportano Hutto con eleganza e gusto, ad esempio nel blues westcostiano Why Do Things Happen to Me di Roy Hawkins, in cui la sezione fiati dei Roomful of Blues, Greg Piccolo al sax tenore, Rich Lataille all’alto e Doug James al baritono, crea l’umore plumbeo che ha caratterizzato la produzione del pianista, cantante e autore emigrato a San Francisco nel primo dopoguerra, permettendo altresì a JB d’esser se stesso, come abbiamo visto a suo agio negli slow fumanti.

Un altro ospite è il pianista Ron Levy, presenza discreta in diversi brani con fills di classico piano blues, ad esempio in Pretty Baby (Junior Parker) e Eighteen Year Old Girl, entrambi ariosi mid-tempo chicagoani innervati dalla carica elettrica di JB, o nell’altro riuscito lento Jealous Hearted Woman, gli ultimi due molto vicini allo spirito immortale di Muddy, la cui mortalità fisica viceversa si sarebbe compiuta di lì a poco.
Non manca di omaggiare altre due personalità che gli hanno messo radici nel profondo; Wolf, con I’m Leaving You, picco di vigore e dialettica, e con Somebody Loan Me a Dime, che è di Fenton Robinson ma ricorda di più l’Elmore James di I Can’t Hold Out.
Gli strumentali sono due, Floating Fruit Boogie, trascinante uptempo, e New Hawk Walk, con slide gemente di JB mosso dal tremolo di Bisesi. Quest’ultimo ha spazio per qualche solismo in Radar e Black’s Ball, e mentre Soul Lover è a base di ritmica funky e fiati soul, Little Girl Dressed in Blue è un incontro tra blues di Chicago e R&B.
È un disco onesto; nulla di urgente o imperdibile, solo il miracolo di un bluesman in fin di vita che agisce come nulla fosse, regalandoci ancora con tutta l’integrità possibile quel nervo genuino che ha lasciato scoperto affinché ce ne nutrissimo. Hutto ha espresso con ardore un blues sanguigno puro ed essenziale, senza mai andare alla deriva. Forse con un intervento sarebbe vissuto qualche anno in più, ma le sue condizioni di diabetico non glielo permisero, così JB depose le armi a casa sua ad Harvey, Illinois, il 12 giugno 1983.

(Fonti: Darius, Don’t you get the feelin’ (blog); ‘Stereo Jack’ Woker, note a J.B. Hutto and the New Hawks, Keeper of the Flame, Wolf Records, 1991; Frank-John Hadley, note a J.B. Hutto and the New Hawks, Rock with Me Tonight, Bullseye Records, 1983-1999; Jacques Perin, note a J.B. Hutto, Slidin’ the Blues, Blues Reference series, Black & Blue Records, 1982; Dave Pierce, note a J.B. Hutto and the New Hawks, Live at Shaboo Inn, Conn. 1979, Fan Club Records, Boston, 1991.)


  1. Brewer Phillips ha pubblicato anche come solista: Whole Lotta Blues (JSP, 1982/2000), Homebrew (Delmark, 1996) e Ingleside Blues (Wolf, 1982). Segnalo inoltre Good Houserockin’ (Wolf, 1995), intestato a Brewer Phillips & Ted Harvey, comprensivo del suddetto album Wolf fino a quel momento solo su vinile, qualche traccia registrata dal vivo nel 1977 a Vienna e a Boston (con J.B. Hutto), e un paio di inediti da un album del 1980 con Cub Koda (Ted Harvey è presente in tutti i brani), e Well Alright (Black Rose, 2008), che contiene diversi inediti, qualcosa insieme a H.D. Taylor già pubblicato e altri vari tra studio e live con Hutto (un paio già pubblicati in Good Houserockin’), Louis Myers, Ted Harvey e Cub Koda.[]
  2. Aggiornamento: Ted Harvey è stato colpito da infarto il 6 ottobre 2016 a casa sua, e morto all’Ingalls Memorial Hospital di Harvey, Ill., sobborgo di Chicago, a 85 anni.[]
  3. Nel trio con Hound Dog Taylor le discussioni erano accese, anzi pare quasi un miracolo che non si siano accoltellati a morte da ciò che si legge nelle note di Bruce Iglauer in Genuine Houserockin’ Music di Alligator. Pare però che Taylor nel 1975 abbia sparato a Brewer Phillips, ferendolo a un braccio e a una gamba, e che Phillips lo abbia perdonato perché poco dopo si scoprì che Taylor era gravemente malato e che stava morendo; non solo, Phillips gli stette teneramente vicino negli ultimi giorni.[]
  4. In “Dave Weld remembers J.B. Hutto”. Aggiornamento: ho rimosso il link diretto a questo articolo perché l’indirizzo non è più valido. Era nel sito Chicago Blues Guide.[]
  5. Dalle note di Rock with Me Tonight, v. fonti, pag. 2.[]
  6. Ibidem, pag. 3.[]
Scritto da Sugarbluz // 12 Maggio 2015
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