Lightning in a Bottle

A One Night History of the Blues

Lightning in a Bottle DVD cover

Il concerto newyorchese di beneficenza A Salute to the Blues al Radio City Music Hall, il 7 febbraio 2003, diede avvio al tanto atteso Year of the Blues. Le riprese dell’evento ebbero la supervisione di Martin Scorsese, produttore esecutivo, la regia di Antoine Fuqua e la direzione musicale di Steve Jordan, batterista e percussionista noto nella band del Saturday Night Live e in quella originaria dei Blues Brothers.
Sono ventisei le performance contenute nella parte principale, con versioni ridotte dei brani, riprese delle prove e interviste agli artisti.
In sala durante le esibizioni sono proiettati su schermi giganti frammenti dei cinque filmati della serie The Blues prodotta da Scorsese prossimi all’uscita, a commentare i brani svolti in ordine cronologico e presentando gli autori dei brani proposti cercando al contempo di tracciare una storia del blues.
Dal DVD sono stati omessi diversi importanti rappresentanti del blues che pur devono aver preso parte all’evento dato che si intravedono nel backstage, inserendo invece artisti rock e pop più famosi. In particolare si notano, ma non si vedono sul palco, Robert Jr Lockwood, Jimmie Vaughan, Lazy Lester, Billy Boy Arnold, John Hammond, e anche sul doppio CD c’è più o meno la stessa mancanza.

I vantaggi di una superproduzione come questa sono gli aspetti tecnici professionali come il suono, la luce, la scenografia, la fotografia, il taglio e le riprese, tutto a partire da una visuale ravvicinata dei musicisti coinvolti, nella loro vistosa eleganza e nella loro, a volte appena accennata a volte grande, gestualità ed espressività. Ad esempio sono ottime le riprese di ‘Gatemouth’ Brown sul palco, come è bella l’inquadratura di Buddy Guy da sotto, con un lampo di luce che pare uscire dalle mani a contatto con la chitarra.
Di fondamentale importanza la qualità della house band, all-star che ben gestisce i diversi stili e i cui componenti si scoprono poco a poco. La telecamera indugia su qualcuno dei protagonisti, una cinquantina in tutto, raggruppati per la foto rituale, mentre scorrono le immagini di Buddy Guy, tra i più visibili, che snocciola The First Time I Met the Blues.
Il concerto inizia con i colori e le suggestioni del tramonto africano: l’elegante Angélique Kidjo interpreta con voce potente un traditional delle tribù Togo dell’Africa occidentale, Zélié. A sentirla e a vederla in quella mise africana delle grandi occasioni sui toni accesi, si può intuire quanto d’Africa sia rimasto in terra americana e sia confluito nelle generazioni afroamericane a venire, nei loro spiritual, nei blues, e nel modo di agghindarsi nelle occasioni speciali. Il salto tra la proposta dell’africana Kidjo e quella dell’americana Mavis Staples è temporalmente e chilometricamente abissale, ma stilisticamente e spiritualmente non avviene nessun strappo: con la sua ancora affascinante voce bassa e un adeguato accompagnamento dà vita a una delle esibizioni più belle, proponendo un’intensa See That My Grave Is Kept Clean di Blind Lemon Jefferson, con Keb’ Mo’ al dobro.

Mantiene alto il livello espressivo ed emozionale David ‘Honeyboy’ Edwards che, a parte un vistoso panciotto, sembra impermeabile alla pomposità dell’evento: la sua Gamblin’ Man è suonata in solitaria, esattamente come la suonerebbe da qualsiasi altra parte. Nel salone scuro riecheggiano la vecchia voce appassionata, tutt’altro che fioca, e le manovre sull’acustica amplificata. A parte c’è il suo racconto dell’esordio pubblico nel lontanissimo 1928, a tredici anni. Il livello è eccelso e non l’abbassa il morbido Keb’ Mo’, il quale, ancora in acustica, accompagnato alla chitarra da Danny Kortchmar e da una ritmica stemperata, dà una valida interpretazione di Love in Vain di Robert Johnson.
Rimarchevole l’apporto di una Odetta così ombrosa da far pensare che non sia solo calata nel brano che va a interpretare, Jim Crow Blues di Lead Belly, ma che senta la segregazione come una ferita profonda ancora aperta. Ferita che si lascia lenire dal suo stesso canto e dalla musica che l’accompagna, quella di un Kim Wilson impeccabile a cui lascia il posto al microfono principale per il breve solo, e che le fa uscire un primo sorriso, seguito da Dr John, presente nella house band come Wilson, Kortchmar, Keb’ Mo’ (quest’ultimo è ora al banjo) e una mirabile sezione ritmica con Levon Helm, che s’alterna alla batteria con Steve Jordan, e Larry Taylor al contrabbasso, che invece s’alterna con Willie Weeks, basso elettrico. Odetta esce di scena appena finisce di cantare, a musica non finita, girandosi appena e salutando con un cenno: l’impressione è che, data la lunga scaletta, sia stato raccomandato di non attardarsi sul palco perché è una rappresentazione del blues non degli interpreti, ma lei forse ha esagerato e un applauso se lo poteva prendere.
Natalie Cole è in forma super e come aspetto ricorda la Tina Turner anni Settanta. In stile classic blues interpreta St Louis Blues di W.C. Handy, con Ivan Neville all’organo. Vien da chiedersi come mai non s’esprimi più spesso in blues, mentre la sua esibizione finisce in un tripudio e con la gioia del direttore Steve Jordan che può concedersi un finale trionfante: You guys rock! esclama soddisfatta la Cole.

È bella e rispettosa dell’originale Sittin’ on Top of the World (Mississippi Sheiks), assumendo aspetti tenebrosi e cupi con la voce (ricordante John Lee Hooker) e la chitarra elettrica di James ‘Blood’ Ulmer, sarà anche perché affiancato dal violino di Alison Krauss che un po’ d’inquietudine la infila, non per niente dall’antichità lo strumento è associato al diavolo; Levon Helm ha un mandolino, Kortchmar un’acustica, Taylor è sempre al suo posto, Jordan un solo tamburo.
Alle prove la band sta iniziando prima dell’arrivo di Ruth Brown: Chi sta cantando la mia canzone?, dice con finto tono minaccioso. Se si pensa che ora non c’è più è commovente vederla arrivare al rehearsal, dove saluta tutti uno a uno e racconta a Dr John dell’invalidità seguita al suo infarto, ma anche di quanto in quel momento stia bene, ricevendo gli auguri per il suo 75º compleanno. Segue uno spezzone di Mama (He Treats Your Daughter Mean) ora con lei, e alla fine la band prende una lavata di testa da Odetta, contrariata perché non hanno fatto risaltare la voce della cantante costringendola a una sorta di competizione con loro (ma Brown la prende in ridere: “È tutto OK. Sono così contenta di esser qui che [eventualmente] urlerò”).
Al concerto Ruth Brown entra con Mavis Staples, Natalie Cole è già sul palco, per un siparietto con l’attore Bill Cosby, dando una lezione di classic blues dividendosi le strofe di Men Are Just like Streetcars, cantata nel 1939 da Rosetta Howard, in cui si dice che gli uomini sono come i tram: se ne perdi uno, basta fermarsi all’angolo della strada e aspettare, e un altro presto arriverà.
Sfuma il filmato con il call-and-response tradizionale Satisfied, per Florence Stamp e coro (su Rounder Records), e Buddy Guy regala un altro momento importante: la sua interpretazione di I Can’t Be Satisfied, il primo disco di Muddy Waters, è superlativa, mentre è per sua natura suggestiva l’ardua Strange Fruit, lasciata alla storia da Billie Holiday, ma India.Arie, anche lei elegante in stile africano, rende la suggestione di nuovo struggente.

È incredibile la trasformazione di Macy Gray dal rehearsal al concerto, chiamata a interpretare Hound Dog di Big Mama Thornton. Alle prove, titubante, chiede come eseguirla; il direttore le abbozza la canzone e le suggerisce di divertirsi, ma lei rimane perplessa. Al concerto, irriconoscibile, è sicura di sé e riesce a coinvolgere il pubblico. Gray se la cava, ma perché non chiamare qualcuna più dotata e con più dimestichezza con il materiale, come Koko Taylor, Etta James, Aretha Franklin, Candi Staton, Lavelle White, Irma Thomas, Diunna Greenleaf, Diana Braithwaite, Janiva Magness, Angela Strehli, Marcia Ball, Lou Ann Barton, Sue Foley…?
Il misconosciuto Larry Johnson, il cui mentore fu il Reverendo Gary Davis, non buca la scena. Alle prove suona Johnson! Where’d You Get That Sound?, al concerto la sua Hear the Angels Singing.
La memorabile Midnight Special resuscitata da Lead Belly è nelle mani di John Fogerty. Va benissimo sentirla dall’autore di Proud Mary (ai Creedence appartiene una bellissima versione dello “Speciale di mezzanotte”), ma qui avrei preferito una lettura più tradizionale, o appunto sull’onda di quella dei Creedence.
Clarence ‘Gatemouth’ Brown appare in quella che probabilmente è stata la sua ultima registrazione dal palco. Nella sala d’aspetto dapprima intrattiene i presenti (tra cui Hubert Sumlin, James Ulmer, e Lazy Lester che vuole il bluegrass) con il violino della Krauss, poi sale su e con la chitarra elettrica dà un saggio strumentale di Texas-style in Okie Dokie Stomp, 1954, con tutto il coolness possibile: una goduria che tira su il morale. Nella house-band sono presenti anche i Beale Street Horns (Andrew Love, Ben Cauley, Jack Hale, Jim Horn).
Bonnie Raitt, accompagnata da Kim Wilson, in Coming Home di Elmore James sembra emozionata e tesa, forse per il confronto con le black star e soprattutto dopo Clarence Brown. Non è così per l’house band, sempre agiata e disinvolta.

Steven Tyler & Joe Perry degli Aerosmith demoliscono in tutti i sensi la gloriosa I’m a King Bee, non val la pena dir di più. Meglio David Johansen che onora Howlin’ Wolf con Killin’ Floor, cantando nello stile di quest’ultimo ma senza sforzi e contento di duettare con il chitarrista di Wolf, Hubert Sumlin, che ancora fraseggia in modo pregevole, altroché. Sumlin, ai tempi operato da poco per l’asportazione di un polmone, durante l’intervista fuma una sigaretta! Il blues è coriaceo.
Bella figura anche per la molto più giovane Shemekia Copeland alle prese con grande R&B. Alle termine delle prove (Something’s Got a Hold on Me da Etta James) dà un excellent all’esecuzione della band. La protégé di Dr John e di Robert Cray va poi in scena con Cray stesso. Non avrei mai pensato di spendere parole positive su Robert Cray, ma questa I Pity the Fool con Copeland, presa da Bobby ‘Blue’ Bland e lasciata sostanzialmente quella, è molto buona. Cray ha un canto davvero soulful e la chitarra è pulita, economica, mentre alla Copeland la forza vocale e interpretativa non mancano, peccato solo che la sua voce sia un po’ sovrastata dal volume generale; un’altra l’avrebbero seppellita.
Imperdibili i Neville Brothers con Big Chief, parole di Earl King musicate durante la registrazione di Professor Longhair. Arthur, Charles, Aaron, Cyril e la seconda generazione, Ivan, all’organo nella house band: che famiglia!
Solomon Burke narra di quando negli anni 1950, prima del chitlin’ circuit, c’era il neckbones circuit, e di quando suonò davanti a un pubblico di Ku Klux Klan. Immenso in tutti i sensi, emana carisma a volontà e infatti, pur stando seduto sul trono, da vero preacher qual è trascina gli spettatori, che s’alzano, battono le mani e ballano ai piedi di Sua Maestà al ritmo della splendida Turn on Your Love Light, già di Bobby Bland, e poi sull’altrettanto meravigliosa Down in the Valley; i coristi sono Vaneese Thomas, Curtis King, Babi Floyd.
Seguono un ispirato Buddy Guy con Red House di Jimi Hendrix, e vecchie riprese in cui si vede Hendrix non perdersi nulla ai piedi del palco del giovane Guy. Torna Kidjo che richiama Buddy Guy per un altro episodio hendrixiano, Voodoo Child, e c’è anche Vernon Reid, ma ne risulta una voluminosa versione da stadio.

Peggio di una sberla l’esibizione di Chuck D. & Fine Arts Militia, da saltare a piè pari come quella dei due Aerosmith. Per fortuna che almeno prima fanno sentire com’è la vera Boom Boom di John Lee Hooker, a scanso di equivoci. Il brano diventa antimilitarista (No) Boom, Boom (Mr Bush don’t push that push – nel 2003 ci fu l’invasione dell’Iraq), ma non è solo lo stravolgimento tematico, quanto le sonorità irritanti. Inoltre tramutare in hip-hop un blues classico non dimostra affatto che quello stile è l’ultima evoluzione blues (come era puerilmente negli intenti), in quanto ovviamente trattasi solo di forzatura. Per fortuna l’house band se ne tiene alla larga, ma veder saltellare come un grillo questo ragazzone non più tanto giovane fa anche un po’ pena.
L’ultimo, B.B. King, ristabilisce le cose. Racconta di quando suonò Sweet Sixteen (che poi esegue, come sempre emozionato) a Baltimore, Maryland, davanti a una giovane platea che lo disapprovava perché non voleva sentire il vecchio blues, e quando arrivò alla frase Treat me mean, but I’ll keep on loving you just the same, s’emozionò fino al pianto perché sentì che quelle parole, pur essendo nate in altro contesto, erano molto adatte anche in quel frangente; il pubblico ne fu colpito e l’esecuzione finì con gli applausi.
A lui s’aggiungono Robert Cray e Bonnie Raitt, ora più rilassata, per l’errebì Paying the Cost to Be the Boss, che chiude il film.

Anche nelle cinque tracce dei contenuti speciali si perde occasione per rimediare l’assenza dei grandi esclusi dal film, anzi, si cade in basso: ancora i pessimi Tyler e Perry (Stop Messin’ Around), Mos Def (Minnesota Blues), di nuovo musica rap e già sentita nel finale del film, Buddy Guy (First Time I Met the Blues, bella sì, ma ora sarebbe stato il caso di dare spazio ad altri), Chris Thomas King che lascia rovinare Revelation dallo “scratch-remix” di un dj e, se non altro, c’è almeno il buon southern rock di Gregg Allman e Warren Haynes, preservanti integrità storico-musicale con The Sky Is Crying.
Trying to catch lightning in a bottle è un modo di dire per un’impresa molto difficile se non impossibile, come appunto catturare un fulmine dentro una bottiglia. In superficie si può alludere all’organizzazione di un evento non semplice per la quantità e l’importanza della maggioranza degli artisti in campo, più in profondo al cogliere l’essenza del processo creativo, la nota mancante sullo spartito, in quei pochi minuti che i protagonisti hanno a disposizione per mostrare la loro arte, il loro fulmine.
Che siano riusciti a fermare il vero lampo o no questa è una bottiglia che vale comunque la pena stappare e bere, da soli o in compagnia.

Scritto da Sugarbluz // 22 Aprile 2010
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