Lucerne Blues Festival, 16.11.2012

Irma Thomas – Golden State/Lone Star Revue – Sista Monica Parker

Pare proprio che la destinazione Lucerna, stimata in quattro-cinque ore, sia volentieri disturbata da imprevisti (secondo una statistica del tutto personale) che ne allungano notevolmente il tempo d’arrivo. Ciò si rivela pesante soprattutto quando si parte con i minuti contati invece di concedersi un piccolo anticipo per godersi la trasferta svizzera, o per incontrare qualche artista prima del concerto. Questa volta a fermare la corsa è stato un camion andato in panne dentro il traforo del San Gottardo, regalandoci tre buoni quarti d’ora in coda proprio a pochi metri dall’ingresso. E non posso neppure lamentarmi troppo rispetto a chi era nella parte finale della lunghissima fila, dato che poi il via libera è stato intermittente per non creare troppo traffico nel tunnel.
Il programma del venerdì sera prevedeva più di quello che ho dichiarato nel sottotitolo, ma non parlo di ciò che non ho seguito perché non m’interessava (Guitar Shorty, Fabian Enderhub) o perché iniziava troppo tardi (all’una e mezza, nel decisamente migliore per temperatura Casineum Club, rispetto alla Panoramasaal), vale a dire un Revue di Chicago formato da John Primer, Eddie C. Campbell e Elmore James Jr, alla quale si sono aggiunti Bob Stroger, Bob Corritore e Kenny Smith (visti aggirarsi nel Club). Forse bello ma sicuramente impossibile data la necessità di rimettersi in viaggio subito per rientrare nei ranghi: una vera toccata e fuga.

A dare il via ai diversi set, tutti con durata ragionevole per permettere lo svolgimento del folto programma, e con la stessa formula – dieci/dodici brani più il prevedibile encore – c’è Sista Monica Parker, soul woman di Gary, Indiana, ma d’adozione nord-californiana, sulla scena ormai da vent’anni se si conta dall’occasione avuta al Monterey Bay Blues Festival quando salì sul palco con Etta James.
Come da background comune a molte cantanti blues/R&B, anche Sista Monica ha praticato il gospel fin dalla tenera età (sette anni), mentre è più anomalo come nei primi tempi finanziò la sua attività musicale: consulente di reclutamento ingegneri nella Silicon Valley per compagnie come Apple e Hewlett Packard. Ora lavora per lei una band di cinque elementi – Danny Beconcini, piano elettrico, Hammond B3 e direttore, Danny Sandoval, sax tenore, Bill Vallaire, chitarra, e i due probabili fratelli Artis Joyce, basso, e Leon Joyce Jr, batteria – e ha all’attivo undici dischi con l’ultimo, Living in the Danger Zone, in gran parte presentato qui. Non così per l’apertura, The Sista Don’t Play, da una delle prime uscite, che fa notare l’influenza di Koko Taylor ed evidenzia un potente, pulito e profondo contralto, ma anche purtroppo quell’odierno suono Chicago soul/blues di scarsa rilevanza.
Durante l’esecuzione di No Shame in My Game, soul moderno di grana grossa, fa un richiamo agli uomini che trascorrono il tempo sui social, trascurando le loro donne. Saluta il pubblico affermando di tornare dopo quindici anni e di sentirsi a casa avendo incontrato persone conosciute allora, e ricordando quattro donne che ha stimato particolarmente: Ruth Brown, Koko Taylor, Etta James e Katie Webster, omaggiando quest’ultima con il suo iconografico Pussycat Moan, che vocalmente non ha problemi a eguagliare.

Prosegue con Hug Me like You Love Me, brano portante dell’ultimo disco, soft blues a tempo medio citato sulle magliette della band (ne lancerà qualcuna dal palco), preceduto dal racconto di come le sia stato ispirato da un incontro con B.B. King a Santa Cruz, il quale, in risposta alla sua richiesta di una foto con lui, acconsentì con l’usuale disponibilità e dicendo quella frase, qui mimata e resa allusiva dalla cantante. Frase che poi la nostra digitò su Google per assicurarsi che non esistesse già un titolo simile, prima di farci una canzone: se già il racconto della motivazione dietro al brano spegne ogni eventuale mistero o immaginazione (ma qui ci può stare dato che si tratta di una banalità), quest’ultima sentenza sull’interrogazione dell’oracolo elettronico ne evidenzia ancor più la mancanza di urgenza.
Anche Stop Talkin ‘Bout Me Stalkin’ You è un tempo sostenuto sul ritmo e sul carattere del soul/blues contemporaneo, ma più funky e serrato, prima di rallentare con il classico gospel Walk around Heaven All Day, eseguito da seduta e accompagnata solo dal piano elettrico, anticipato dal suo ricordo di musicisti come John Lee Hooker, Luther Allison, Little Milton, Junior Wells, “con i quali ho diviso la strada e il palcoscenico”, e citando (a parole) uno dei suoi gospel preferiti, Down by the River di James Cleveland.
Il momento più blues arriva con il lento Tears dall’ultimo disco, dove Sista mostra la sua potenza vocale (non ha bisogno di microfono, vedi foto sopra) ricordandomi Valerie Wellington, scomparsa troppo presto (per me, la vera erede di Koko Taylor): queste ultime due sono la parte migliore. Torna per il bis con lo scatenato up-tempo di You Got To Pay, con sonorità rock-blues, nel cui finale cita in medley Proud Mary versione Tina. In definitiva un set alimentato da una corrente troppo aggiornata per i miei gusti, estrapolato da prodotti discografici che non posso salutare come significativi o originali.

È invece più vicina (per sonorità) al blues e all’R&B degli anni 1950 la musica della Golden State/Lone Star Revue formata da Mark Hummel, Anson Funderburgh e Little Charlie Baty, anche se le aspettative sono state in parte deluse.
A dir la verità non ne avevo poi neanche tante dato che questa giuntura tra il Golden State (California) e il Lone Star State (Texas), annunciata da Hummel sul palco spiegando che lui e Baty sono californiani, Funderburgh e il batterista texani, m’è sembrata dai primi ascolti un’operazione da tempi di crisi più che un’unione scaturita da vera intesa e da necessità artistiche.
Infatti, nonostante gli intenti e lo schieramento dei validissimi solisti, ottimamente sostenuti da una sezione ritmica rispettabile, Wes Starr, batterista (già al soldo di Funderburgh, Omar, John Nemeth, Little Joe Washington, Jimmie Dale Gilmore, Mike Morgan, Gary Primich, Marcia Ball, RJ Mischo), e RW Grigsby, solido bassista attivo nella Bay Area, temo che l’unione di grandi nomi di per sé non possa far tutto, e che serva solo da richiamo. Il disegno complessivamente è apparso piacevole se s’intende come attrazione, però non mi lasciano nulla le serie di assolo messi lì, pur da grandi personaggi. Inoltre l’accenno a quegli Stati pare solo un riferimento geografico, mentre pensavo comportasse un repertorio tipicamente texano-californiano, magari con qualche gemma poco nota estratta dai bei tempi che furono.
Baty ha ecceduto in moine e ha concesso molto allo show e poco alla sostanza. Lasciati Little Charlie & The Nightcats e l’attività live in patria ora sembra voglia dedicarsi solo a tour esteri all’insegna del disimpegno, usando le sue indubbie doti strumentali e il suo elastico cool blues con superficialità riversando troppe note. Se continua così rimarrà intrappolato nel ruolo di macchietta, buono solo come pepe in set altrui (come qui).

Hummel, l’unico che non avevo ancora visto dal vivo, è in fase di stasi musicale avendo appena pubblicato le sue memorie (Big Road Blues: 12 Bars on I-80, MountainTop Press) ed essendo orfano di una propria band.
Forse anche assalito dalla routine o dalla stanchezza del tour europeo – tra l’altro la sua mise da camera da letto lo suggeriva, anche se i veri richiami del suo completo suppongo si possano ascrivere alla rilassatezza e all’informalità californiane – è sembrato non tanto convinto della situazione confezionata da un copione per festival internazionale da gestire con consumata ritualità nel ruolo di leader.
Funderburgh, che si conferma chitarrista essenziale e valido alleato in ogni situazione, sembra ancora sofferente per la perdita di Sam Myers (ho bei ricordi live di quell’unione) e in cerca di uno sbocco; non adatto a fare il solista perché non canta, è tuttavia sprecato a fare la terza parte in un Revue senza futuro.
A lato di tutto ciò, l’attitudine e l’esperienza dei singoli è fuori discussione, e il richiamo a brani del glorioso passato prossimo, quasi tutti pescati nel repertorio di Hummel, è tanto apprezzato quanto inevitabile, come Bombshell Baby, dal noto disco degli anni Novanta con Junior Watson, l’insinuante, ritmica Shake for Me di Howlin’ Wolf, il morbido shuffle di Never No More con bell’intervento di Funderburgh, ma anche di Baty prima di un intenso solo di Hummel alla cromatica, e la lenta She Moves Me di Muddy Waters.

Il ricorrente strumentale di Freddie King, Side Tracked, viene distribuito tra Anson Funderburgh e Charlie Baty come occasione di sfoggio chitarristico ed esempio dei due diversi modi d’affrontare il tema, parco quello di Funderburgh e un po’ sopra le righe quello di Baty.
Seguono le riprese dell’incalzante Rockinitis di Billy Boy Arnold e di Have You Ever Been in Love, con solo impegnativo e uno dei migliori dell’armonicista nello stile di S.B. Williamson II, titolare del brano, prima di chiamare sul palco Jimmy Carpenter, presentato come sassofonista accasato a New Orleans ed ex sideman di Walter ‘Wolfman’ Washington, per The Hustle Is On di T-Bone Walker, con solo di sax oltre a quello degli altri, e il mid-tempo Honey Do Woman con bel solo di Funderburgh, seguito ancora da quelli di Hummel e Baty.
Il sassofonista rimane con discrezione, e ancora dai dischi di Hummel sono estratti I’m Shorty, sostenuto tra Chicago e California con begli effetti in fade-out, Jump with You Baby, che naturalmente è un jump blues, e Stockholm Train, quasi rockabilly arricchito da bel solo di sax stile R&B anni 1950, mentre per il ritorno dedica al blues di Chicago e a Bob Stroger il serrato stop-time di Lost a Good Man: sprint finale davvero focoso per quanto riguarda l’armonica.

Se Mark Hummel sembrava in pigiama, la Soul Queen of New Orleans Irma Thomas è apparsa in abito da sposa, come una vera regina e con apparato da star.
Prima la sua band con sette elementi, The Professionals (Percy Lee Williams, tromba, Emile Hall, sax tenore, Warner Joseph Williams, tastiere, Arthur Bell, chitarra, Larry ‘Choo’ Campbell, batteria, non conosco il nome del bassista né di chi stava dietro l’Hammond), esegue due moderni funk di New Orleans, uno cantato dal batterista. Poi, presentata con enfasi, Irma comincia a cantare dalle quinte, mentre tutti la cercano con gli occhi, il soul di Love Don’t Change (si può sentire insieme a Marcia Ball e Tracy Nelson in una raccolta Rounder, If You Want It, Come and Get It, 2001), uscendo accompagnata dal marito (Emile Jackson) che l’assisterà fino a fine concerto.
Seguono il lento ma non troppo Loving Arms, caratterizzato dall’intervento vocale del sassofonista (anche il batterista farà background vocale spesso), e Let It Be Me, bel classico soul ballad dalle sue registrazioni anni 1960. Le canzoni in repertorio sono così tante che neppure lei se le ricorda, e infatti alla sua sinistra c’è un leggio in caso di calo di memoria (comprensibile anche per età, portata benissimo tra l’altro): sopra non carta ma touch screen, segno dei tempi. Non è sembrato averne molto bisogno, a parte quando ha cercato una delle tante canzoni che, dice, le hanno richiesto, la ballata In the Middle of It All, che va a Guido Schmid, direttore del festival (Guido, are you listening?, domanda).

Preferisco (You Can Have My Husband, But Please) Don’t Mess with My Man della concittadina Dorothy LaBostrie, primo singolo di Irma per Ron di New Orleans, diventato un classico del soul/blues femminile, e in cui la band finalmente tira fuori qualcosa al sapore di Big Easy, perché per il resto offre un accompagnamento del tutto anonimo.
La delizia, infatti, riguarda soprattutto la bellezza dei brani proposti più che l’esecuzione dato che l’orchestra viaggia su sonorità piuttosto mainstream, continuando con uno dei pochi blues di Irma, Hipshakin’ Mama. Per me arriva il clou dato che, incoraggiata dalle sue parole sulle richieste, approfittando del suo parlottare con il sassofonista e della mia vicinanza, lancio un “Ruler of my heart!”. Non lo faccio mai, ma qui l’occasione è ghiotta.
Con mia sorpresa lei sente ed esclama: “Ruler of my heart? You got it!”, ed ecco, senza averci pensato prima, realizzato d’emblée il mio desiderio di sentire dal vivo questo piccolo capolavoro di Allen Toussaint; è sufficiente per influenzare la recensione. L’infilata di intramontabili continua con due ballate soul/blues, la bellissima I Needed Somebody e la celeberrima I’ve Been Loving You Too Long, classico di Otis Redding e Jerry Butler da lei inciso negli studi di Muscle Shoals.
Il gran finale prosegue su brani epocali che hanno forgiato in modo indelebile il suo bagaglio, come il Jerry Ragovoy di Time Is on My Side e l’autografa I Wish Someone Would Care, singoli Imperial di successo, e la bellezza di The Same Love that Made Me Laugh del grande Bill Withers (lo stesso di Ain’t No Sunshine); non poteva finire meglio. In realtà il vero finale è l’encore con Simply the Best dell’inimitabile Tina, ma dato che non sono mai riuscita a farmelo piacere preferisco dimenticarlo.

Di seguito la galleria fotografica, purtroppo caratterizzata da una posizione fissa conquistata con una lotta all’ultimo centimetro nella trincea dei fotografi, non preclusa al pubblico che infatti l’invade regolarmente. A parte la scarsa sostenibilità delle logiche commerciali che minacciano costantemente gli aspetti artistici e musicali, dell’atmosfera troppo mondana e dell’affollamento, il Lucerne Blues Festival si conferma quasi l’unico oggi, nel raggio delle distanze facilmente percorribili, a programmare ogni anno con largo anticipo un’offerta che pochi in Europa possono proporre, potendo contare non solo sui necessari mezzi economici (per chiamare gli artisti con le loro proprie band), ma anche su una robusta volontà e un interesse comune, tutto incastonato in una città che fa da bellissima cornice.

Scritto da Sugarbluz // 23 Novembre 2012
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Una risposta

  1. Mark Slim ha detto:

    Concordo in tutto… Peccato che ti sei persa Eddie C. Campbell. A mio avviso il più bel concerto della serata. A tratti ricordava molto Jimmy Dawkins. A presto!!!

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