Marco Pandolfi & The Jacknives

Step Back Baby / Too Many Ways

Marco Pandolfi & The Jacknives, Step Back BabyMarco Pandolfi & The Jacknives, Too Many Ways

Il primo (2004) è il disco d’esordio perfetto e il secondo (2006) è la conferma con qualcosa in più di una band che ha segnato la scena blues italiana ed europea, dando gioie nel presente e speranze per il futuro realizzando un progetto nelle possibilità di pochi: riproporre il blues old school con sonorità e spirito fedeli, lontano da repertori scontati o brutte copie di brani epici, da inutilità e da sperimentalismi fuori luogo. Ci sono personalità e serietà (non seriosità) alla base di questi dischi che non risentono il passare del tempo, come quelli della fonte alla quale bevono, il Chicago blues e in generale il blues elettrico tradizionale, fatto da un nucleo a quattro con suono compatto, agile e diretto, dal frontman Marco Pandolfi voce e armonica a Marco Gisfredi chitarra, Federico Patarnello batteria e Luca Bernard contrabbasso, complementi dallo swing solido e maturo. Non si sentono mancanze e niente è in più, con un’accoppiata chitarra/armonica credo unica in Italia, per forma, interplay e capacità.

Quasi nessuna nota interna, solo la musica parla di questa formazione, ed è evidente che non sbucano dal nulla. In STEP BACK BABY c’è solo una dedica al chitarrista Marco Fiume, scomparso troppo presto, e l’informazione che il contenuto è stato registrato live in uno studio di Noventa Vicentina il 22/23 maggio 2004.
L’unica segnalazione è importante: Everybody playing in the same room at the same time, no overdubs, da qui anche le motivazioni e la genuinità di queste registrazioni, a partire dallo shuffle a tempo medio di My Mind Is Troubled (Little Milton), jump blues maneggiato con perizia in cui la chitarra di Gisfredi annuncia il costante rapporto antifonale con il canto e l’armonica di Pandolfi, come nella tradizione nera.
Le eredità meno sfruttate avanzano con l’armonicista Snooky Pryor, ripreso nella sbuffante e potente Someone to Love Me, ai tempi incisa per Vee-Jay, e nel drive deciso, chicagoano fino all’osso, di Do You Want Me to Cry (Eddie Taylor), con contrabbasso dixoniano e vetrina per Gisfredi, bolognese classe 1978, che suona il blues come se avesse cominciato nella culla, mentre Pandolfi alterna toni d’armonica spessi ad altri sottili, sempre credibile anche nelle parti cantate; il risultato d’insieme è un esempio di dinamismo.
Canto nel microfono dell’armonica e bel lavoro ritmico ipnotico in Here’s My Picture di Billy Boy Arnold, confermante che non si tratta solo di rispetto, ma di valorizzazione, come nel fluente, ballabile swing R&B Glad I Don’t Have to Worry No More da Robert Lockwood. Suono saturo ma leggero, pulito e allo stesso tempo polveroso; la chitarra mostra d’aver assimilato e sintetizzato una vasta lezione, come la cromatica di Pandolfi, nell’eco stilistico della costa occidentale.

Anche proporre Jody Williams è segno di cultura ma soprattutto lo è farlo con qualità, e nel lento I Feel so All Alone Gisfredi mostra le sue doti di tono e fraseggio; la sua chitarra è la colonna vertebrale dei Jacknives, mentre Pandolfi emette vibrazioni calde e malinconiche.
Una super chicca è la presenza di L.C. McKinley, misconosciuto bluesman chicagoano epigone di T-Bone Walker che registrò per JOB, Parrot, V-Jay, Bea & Baby. Tra le sue più walkeriane c’è All Alone Blues, che i ragazzi interpretano benissimo, con un riverbero eccellente che rende percepibile lo spazio in cui operano dando un senso di pienezza. Ritmica ovattata – e la regola del volume basso premia qui come altrove – con marcetta sul rullante e contrabbasso scuro, gutturale, alla Big Crawford, e caratteristico slapping sul finire, chitarra di nuovo ammirabile e Pandolfi con canto laid-back.
Con I Used to Have a Woman, estratto del suono ancora sporco di sud sviluppato nella Windy City da Muddy & Co., si tocca uno dei punti più alti. Già dall’inizio si riconosce Jimmy Rogers perché è nello stile di quei suoi primi dischi Chess inizio anni 1950 con Little Walter e Big Crawford (That’s All Right, Ludella…), anche se allora l’armonica era ancora acustica.
Alleggerisce il passo ma punta il piede sull’acceleratore il boogie Step Back Baby di John Lee ‘Sonny Boy’ Williamson: Gisfredi è inventivo, mentre l’armonica (acustica) ha bello stile rurale; impossibile fare meglio, idem in One More Chance with You, dove Pandolfi dichiara debito a Little Walter e Gisfredi ricorda le sofisticherie urbane di Louis Myers.
Blue Breeze e Last Ride sono strumentali a nome del gruppo, il primo pregevole up-tempo carico di swing con parti di armonica e chitarra, il secondo un saluto shuffle a Chicago, di gran classe e con armonica walteriana.

Ancora meno parole in TOO MANY WAYS, registrato il 10-11 aprile 2006, e di nuovo molti fatti.
Più maturo e sofisticato (in senso buono), con dieci tracce autografe su sedici più una versione alternativa, apre con tre a firma Pandolfi, che canta efficacemente nel microfono dell’armonica: il title track dal gusto mississippiano, suono cartavetroso, ritmo ossessivo, bel lavoro di batteria, e dove la chitarra è ancora in ottimo interplay con la talentuosa armonica di Vicenza; la pressante, wolfiana, ironica Funky Preacher, energia da parte di tutti e sei corde a riportare il verbo di Hubert Sumlin, mentre l’armonica, grassa, incendia il finale, e JackLeg, strumentale breve e veloce, sciolto showcase per l’armonica di Pandolfi che non ha niente da invidiare a nessuno, con sezione ritmica affidabile, vale a dire una chitarra che sa come sostenere le ance (facendo anche ciò che farebbe un pianoforte), e il morbido e corposo supporto di contrabbasso e batteria.
In There’ll Be a Day mantengono l’andatura a tempo medio a passo di rullante e il suono di Jimmy Reed, con armonica melodiosa e in tonalità alta, ma si sente anche una chitarra alla Jimmie Vaughan, prima del ficcante blues cittadino Cry for Me Baby dai Broomdusters di Elmore James, fiume in piena in cui Gisfredi convalida abilità e conoscenza del linguaggio. Dietro c’è applicazione, passione, niente pedanteria.

È da intenditori anche estrarre l’insinuante Pretty Lil Thing e farla rivivere così, come potrebbero fare i T-Birds. È un ipnotico swamp blues con bel lavoro percussivo, armonica grassa e sublime mentre la sezione ritmica stende un tappeto fluido e scorrevole su cui Pandolfi può trarre il massimo profitto. Nonostante il credito a Williamson possa far pensare a uno dei due più noti, si tratta invece di ‘Sonny Boy’ Jeffrey Williamson (aka Sonny Boy Williamson III), armonicista di New Orleans che arrivò a Shreveport nel 1961 per incidere quattro lati con Ram Records, prima di trasferirsi da Don Robey in Texas dove però non registrò e (pare) morì a Houston per le conseguenze di un incidente stradale. È stato riportato in superficie grazie a Ray Topping per Ace Records che nel 1999 l’ha pubblicato in una raccolta dedicata a Ram, Red River Blues, e mi conforta vedere che non l’ho acquistata solo io in Italia, soffiando via la polvere.
Depend on the Weather è un blues mid-tempo autografo di Pandolfi (Some people say, depend on the weather if you’re sad and blue / But I say they never spent a rainy day with you), con armonica satura e chitarra affilata, a cui segue Gasoline Gipsy, suggestivo strumentale dalle sonorità sudiste di frontiera firmato dai Jacknives, con bellissimi e persuasivi riff di armonica e chitarra (con twang), mentre il lento blues fumante Three Times Wrong di Pandolfi è ulteriore dimostrazione di salute sia strumentale che canora, come pure autorale.

Come to Me (Gisfredi) è un rock ‘n’ roll energico stile Sun Records un po’ alla Joe Hill Louis e con sonorità texane alla Kim Wilson e T-Birds, dove l’armonica alimenta come benzina e la chitarra esalta e spinge a dovere, mentre un momento quasi ascetico arriva con Why Should I Worry di Moody Jones, minimale blues elettrico solo per armonica e chitarra riverberata, esempio di Delta blues urbanizzato al nord, in Maxwell Street a Chicago.
L’autografo collettivo Hard Boiled è uno strumentale a moto ondoso ancorato dal basso che potrebbe stare tra le dita di Freddie King, cool e bollente allo stesso tempo, parimenti a Gates Are Closed di Gisfredi, uptempo per chitarra e ritmica sciogliente i nodi come un massaggio, o come uno strumentale di ‘Gatemouth’ Brown.
Dance Alone (Pandolfi), alla Papa Lightfoot, è un ottimo stomp solo per armonica, contrabbasso e schiocco di dita, tornando poi sull’irresistibile andante elettrico di gruppo con Well You Know (I Love You) di C.W. Triplett aka Dusty Brown, jump shuffle omaggiante la scuola dei maestri emigrati a Chicago.
Concludono un’alternativa Too Many Ways, aspro boogie per armonica, bordone di chitarra e leggera percussione, alla John Lee Hooker, e il live di Do You Want Me to Cry da Memphis, dove si trovavano dopo aver vinto le selezioni italiane 2006 dell’IBC di Memphis; ulteriore riconoscimento è stato il fatto che il loro primo disco è stato il più venduto tra quelli dei partecipanti.
In definitiva due dischi tutto arrosto e niente fumo che suonano molto bene blues old-school e dintorni, esenti da eccessi e fioriture, e con sapiente trattamento dei suoni e della tradizione nera.

Scritto da Sugarbluz // 27 Gennaio 2013
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Una risposta

  1. Mark Slim ha detto:

    Finalmente la recensione che NESSUNO in Italia ha avuto il coraggio e le conoscenze storico-musicali di fare.

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