Michael P. Smith – New Orleans Jazz Fest

Casa Editrice: Pelican Publishing Company, Inc., Gretna, Louisiana
Edizione originale: New Orleans Jazz Fest, A Pictorial History, Pelican Publishing Co., Inc., Gretna, LA., 1991
Prefazione: Ben Sandmel
Postfazione: Ben Sandmel
Cover of Michael P. Smith's book "New Orleans Jazz Fest"

Più di quattrocento foto scelte tra ottocento stampe, a loro volta estratte da un campionario di oltre quattordicimila immagini: basta vederne qualcuna per capire come fare la selezione possa esser stato difficile.
Partito nell’aprile 1970 in Congo Square con poche centinaia di spettatori, il New Orleans Jazz Festival evidentemente era qualcosa di cui la città aveva bisogno se già dopo due anni ebbe l’esigenza di trasferirsi in un luogo più grande, il Fair Grounds Race Course, uno dei più antichi ippodromi degli Stati Uniti, dove si svolge tuttora ogni anno con il nome di New Orleans Jazz & Heritage Festival.
Dopo aver nominato Quint Davis e Allison Miner (1) nella seconda bio-recensione di Professor Longhair come i due principali fautori della carriera del pianista dopo il 1970, li ritroviamo qui tra gli iniziatori di questo grande happening che, grazie alla visione del principe degli impresari George Wein diventò un festival di rilevanza internazionale.
Come racconta Davis in un’intervista riportata nella prefazione, prima di questo Festival c’era un’altra organizzazione che si occupava di allestire eventi musicali, la stessa che chiese a Wein, già noto per i Festival Newport Jazz e Newport Folk, di produrre una serie di concerti a New Orleans.
Il lungimirante Wein pensava che chiunque potesse organizzare concerti, e che così facendo non avrebbe sfruttato le potenzialità e le risorse della città, non quanto avrebbe potuto fare un evento più grande e diluito che contenesse la musica e le tradizioni del luogo, e che comprendesse le diverse etnie. L’impresario allora assoldò i due giovani, al tempo impiegati presso il Tulane Jazz Archives e, durante un incontro allo storico Café du Monde, li incaricò di ingaggiare band locali. I due girarono nei club, nei bar, nelle chiese, dicendo a tutti del festival. Allison Miner ha ricordato:

Quei primi due anni furono molto disinvolti; nessuno di noi aveva la macchina o il telefono, e facemmo tutto usando i trasporti pubblici e i telefoni a pagamento del ristorante Allgood’s. […] La cosa più divertente era quando gli artisti alloggiavano nelle nostre case, prima che potessimo permetterci gli alberghi. Gente come Big Joe Williams, Bukka White, i Como Drum and Fife Corps. […] Ricordo Robert Pete Williams, il grande chitarrista blues della Louisiana, seduto nel mio soggiorno a intrattenerci per ore con le sue fantastiche storie di fantasmi. Queste cose non succederanno più. Quando inaugurai lo spazio Heritage Tent nel 1988 fu proprio per creare un ambiente dove la gente potesse comunicare con i musicisti dialogando, sentendo di averli alla loro portata.

Lo spazio è dedicato soprattutto alle fotografie, ma nel testo sono riportati alcuni eventi e personaggi che caratterizzarono la partenza del Festival; da qui s’evince la natura volontaria e lo spirito genuino animanti un grande evento che poi negli anni, con il successo commerciale, abbandonò buona parte dell’idealismo e dell’improvvisazione per diventare un’attività organizzata con le sue esigenze di mercato, dotata di una Fondazione e impegnante centinaia di persone tutto l’anno, prima, durante e dopo la produzione.
Tra i primi, importanti avvenimenti ci fu il concerto serale della più grande cantante di New Orleans, Mahalia Jackson, ma il surplus fu il pomeriggio in cui lei apparve all’interno dell’allestimento in Congo Square all’esposizione denominata Louisiana Heritage Fair (2) solo per dare un’occhiata, e invece cominciò a cantare spontaneamente Just a Closer Walk with Thee, con Percy Humphrey e l’Eureka Brass Band, avvenimento che fissò il tono e lo spirito degli anni a venire, nelle parole di Davis:
«Una cantante gospel di New Orleans che crea un ponte tra la musica gospel e il jazz tradizionale, cantando un inno con una marching brass band. Per me, quella fu la scintilla eterna di quello che l’intero Festival sarebbe diventato». Una delle prime foto pare scattata proprio in quell’occasione, con la Jackson in mezzo alla gente, in una mano la borsetta e un bicchiere, nell’altra il microfono, a fianco di Duke Ellington, mentre dietro si nota l’impresario Wein soddisfatto dell’improvvisata e poco distante il pianista Cousin Joe Pleasant che ride divertito, anche lui in abiti “borghesi”.

Un personaggio particolare di quegli anni fu un musicista poco conosciuto al di fuori della Louisiana e del Texas, George Coleman alias Bongo Joe, percussionista creativo e artista di strada eccentrico proveniente da San Antonio. Bongo Joe suonava ogni tipo di percussione accompagnandosi con un canto sorprendente e divertenti, improvvisati monologhi; una musica del tutto originale con forte collegamento alle tradizioni dei griot dell’Africa Occidentale. Quint Davis lo racconta così:

Indossava un fez color porpora, camicie hawaiane con bretelle, pantaloni Bermuda e stivali da paracadutista. Teneva un’ascia infilata nella cintura perché la usava per “accordare” i tamburi, fatti con barili vuoti da duecento litri, facendovi dei grossi buchi. La prima volta che venne insistette per alloggiare al Fairmont, perché al tempo in cui l’hotel era segregato fu mandato via da lì.

Lo accompagnò all’albergo e, oltre a indossare la mise sopra detta, Bongo Joe aveva una valigia con due altoparlanti incorporati, rivolti verso l’esterno. Dentro la valigia c’era un registratore pronto a far partire un nastro sul quale era incisa una risata isterica; si fermarono a un semaforo, e lui indirizzò la valigia verso la gente per strada, facendo uscire a tutto volume la risata.
Arrivati all’albergo tutti notarono questo tizio alto un metro e novanta, con i bermuda, le bretelle, gli stivali e l’ascia e, quando qualcuno immancabilmente prese a fissarlo, lui fece partire la registrazione: “Vi potete immaginare la reazione”, commenta Davis. Giunse all’aeroporto senza nessun strumento, e disse all’autista che aveva bisogno di andare in una discarica. Abituato alle richieste più strane, l’autista impassibile gli chiese che tipo di discarica, e Joe rispose che aveva bisogno di barili. Quando arrivarono sul posto « …to Bongo Joe this place looked just like Werlein’s», (3) comprò tre o quattro barili da duecento litri, ancora grondanti olio.

Altri aneddoti su alcuni personaggi indimenticabili sono riservati a James Booker, ‘Ironing Board’ Sam (poggiava il piano elettrico su un asse da stiro), Rahsaan Roland Kirk, e altri la cui esibizione per qualche motivo è rimasta nella memoria di molti, come quella di Al Green del 1983, in crescendo fino a un finale al fulmicotone, Stevie Wonder con i Meters nel 1973, Alice May Victor che suonò il pianoforte in mezzo al prato, dando così l’idea per la Gospel Tent, Doug Kershaw, che fece stare la madre sul palco durante il suo show e lanciò al pubblico i crawfish, simbolo della cucina della Louisiana e della musica cajun, Allen Toussaint con i suoi unici concerti annuali (la sua attività principale quella di produttore e arrangiatore) sulla Riverboat, che lo evidenziarono anche come interprete, Irma Thomas nel 1975, che segnò il primo grande aumento di audience. La Gospel Tent, invece, fu diretta da Sherman Washington degli Zion Harmonizers. Il preacher ebbe problemi nel portarla avanti perché alcuni ministri non acconsentivano che la musica mondana fosse suonata poco più in là e che fosse servito alcol, ma Washington, che non era contrario alla musica secolare, riuscì a far accettare la convivenza.

New Orleand Jazz-Fest 1973, with Roosevelt Sykes, B.B. King, Bukka White, George Porter, Professor Longhair
Roosevelt Sykes, B.B. King, Bukka White, George Porter, Professor Longhair, 1973.
From New Orleans Jazz Fest: a Pictorial History ©1991 by Michael P. Smith used by permission of the licenser, Pelican Publishing Company, Inc.

Una grande performance fu quella che nel 1973 vide un palcoscenico stellare formato da una rinomata sezione ritmica neorleansiana, quella dei Meters, Joseph ‘Zigaboo’ Modeliste e George Porter Jr, Professor Longhair e Roosevelt Sykes al piano, B.B. King e il cugino Bukka White alle chitarre.
Il primo concerto in assoluto fu quello delle orchestre di Pete Fountain e Clyde Kerr, per la crociera di mezzanotte sul battello a vapore President, nave che avrà un ruolo importante, mentre il giorno dopo toccò all’Eureka Brass Band, per le strade tra Canal e Basin, raccogliere gente da condurre a passo di second line all’apertura ufficiale del primo Louisiana Heritage Fair, in Congo Square.
I concerti serali invece, oltre a quelli di Mahalia Jackson e di Duke Ellington, videro Fats Domino, Al Hirt, The Young Tuxedo Brass Band con Sweet Emma, una delle ultime figure del secolo precedente, rappresentante il pianismo tradizionale della città. Furono quattro giorni a base non solo di musica (circa 350 i musicisti che parteciparono, forse più del pubblico stesso), ma anche di cibo regionale, esposizione e vendita di manufatti. Un mondo variopinto che però a volte il bianco e nero non rende, e se c’è una cosa che manca in qualche immagine, infatti, è proprio il colore, soprattutto in quelle che ritraggono il pubblico, le brass band, gli stand e le panoramiche, ricche di particolari che senza colore vanno un po’ persi, e certamente anche quelle dei coloratissimi indiani del Mardi Gras, i preacher o altri personaggi pittoreschi, pur con il fascino del ritratto senza tempo che solo il bianco e nero sa dare.

Già al secondo anno il pubblico crebbe e il festival fu utile anche per rivitalizzare la scena locale dei club, che in concomitanza fungevano da banco di prova per i musicisti.
Le foto di Michael P. Smith, tra i fondatori del Tipitina e nella sua professione di fotografo particolarmente interessato a ritrarre la scena culturale locale, sono quindi un documento eccezionale narrante un mondo musicale vastissimo: orchestre jazz, cori gospel, bande di chiesa e brass band, molti componenti delle quali oggi sono già nel mito, cajun della vecchia scuola (Sady Courville, Balfa Brothers, ad esempio), tribù di indiani del Mardi Gras, bluesman del Delta, la fife & drum band di Napoleon Strickland e Othar Turner, Guitar Kelley e Silas Hogan in una bella immagine insieme, come Snooks Eaglin e Professor Longhair durante il concerto del 1972, Sippie Wallace, i fratelli Chenier e altre icone dello zydeco, gruppi vocali, jazzisti di culto come Dizzie Gillespie, Art Blakey, Thelonious Monk, Sonny Rollins, Kai Winding, Sonny Stitt, Earl ‘Fatha’ Hines, Lionel Hampton, Kid Thomas, Louis Nelson, Dexter Gordon, Miles Davis, Sun Ra, per dirne solo qualcuno, Nina Simone, Ella Fitzgerald, Odetta, Celia Cruz, gli Staple Singers, Danny Barker, Benny Spellmann, i Neville Brothers, James Brown, Stevie Wonder, Bill Monroe, Pete Seeger, e l’ex governatore/cantante Jimmie Davis, noto per aver usato You Are My Sunshine come cavallo di battaglia (termine non casuale, dato che si presentava cantandola dalla sella di un cavallo) all’epoca della sua campagna elettorale.

Wayne Bennett, New Orleans Jazz Fest
Wayne Bennett, 1984.
From New Orleans Jazz Fest: a Pictorial History ©1991 by Michael P. Smith used by permission of the licenser, Pelican Publishing Company, Inc.

E poi ancora Irma Thomas con capigliatura afro, Katie Webster, Dixie Cups, James Booker con il giovane Harry Connick Jr, Dr John, Marcia Ball, ballerine e musicisti flamenco, Percy Mayfield, Merle e Doc Watson, Hank Ballard, Bobby ‘Blue’ Bland, Fabulous Thunderbirds nella formazione originale, Stevie Ray Vaughan con copricapo indiano, Los Lobos, Little Feat, Big Joe Turner, Muddy Waters, Lightnin’ Hopkins, Buddy Guy e Junior Wells, Howlin’ Wolf, Willie Dixon, John Lee Hooker, Bo Diddley, Champion Jack Dupree, ‘Gatemouth’ Brown, Etta James, Rufus Thomas, Cab Calloway, Johnny Adams, Chuck Berry, Rita Coolidge, Flaco Jimenez, il regista Les Blank e una rara foto di Wayne Bennett.
Il libro è diviso in quattro sezioni e va dal 1970 al 1990, con un indice finale che dà anche un’idea di quanti artisti sono stati coinvolti nei primi vent’anni considerando che quelli in elenco sono solo una piccola parte.
Nel testo di Ben Sandmel, giornalista, batterista, ricercatore e consulente per il Festival, si rileva anche il progressivo allontanamento dagli iniziali principi, date le proporzioni assunte dal Festival, e le controversie per la scarsa presenza di afroamericani nell’organico e nella gestione dei profitti.
Nonostante tutto l’organizzazione ha cercato di non perdere lo spirito di una celebrazione culturale popolare, partecipativa, in cui il pubblico interagisce con euforia e allo stesso tempo rilassatezza, in un miscuglio di età e razze, tutti con un unico scopo: celebrare la cultura locale e la musica americana in uno spettro più ampio, a quell’irrinunciabile bivio in cui la musica nera e quella bianca s’incontrano.
Concludo con le parole del predicatore Sherman Washington:
«La musica è quella che hai nel cuore. La gente canta e suona il blues, lo fa per una vita. Alcune persone di chiesa non hanno un buon cuore. Il modo in cui il tuo cuore ti conduce si dimostrerà nel modo in cui conduci te stesso, con il tuo atteggiamento».

Per l’acquisto: Pelican Publishing Company


  1. Allison Miner è scomparsa nel 1995 a soli 45 anni.[]
  2. Il Louisiana Heritage Fair è l’evento diurno ed è il maggiore dei due componenti il Festival, l’altro sono i concerti serali. La fiera si svolge dal mattino alle sette di sera ai Fair Grounds, con bancarelle, gazebo per varie attività, messe, spettacoli d’ogni tipo, esposizioni, vendita di manufatti, cibo ed esibizioni musicali, oggi distribuite su dodici palchi per un totale di seicento artisti nell’arco di due weekend lunghi. I concerti serali completano l’offerta in un periodo di dieci giorni, e si svolgono nei club della città in modo informale e non necessariamente programmato.[]
  3. Werlein’s For Music fu un negozio di musica molto importante dal 1850 al 2003, al 605 Canal Street. Oltre a vendere strumenti e a ripararli, era anche una scuola di musica e catalizzatore d’ogni evento musicale in città. Les Paul e Mary Ford suonarono lì, Kid Ory vi comprò il suo primo trombone, Fats Domino i suoi due Steinway, e Tennessee Williams, a cui piaceva scrivere ascoltando musica, vi acquistò un fonografo e dei dischi.[]
Scritto da Sugarbluz // 25 Ottobre 2011
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2 risposte

  1. Mark Slim ha detto:

    La foto di Wayne Bennett mi ha spinto subito ad ordinare il libro. Grande ricamatore alla chitarra con molti artisti tra i quali il mio preferito Bobby Bland.

  2. Sugarbluz ha detto:

    Non si vedono tante foto sue in giro, anzi io non ne ho mai viste prima.

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