Otis Spann – Sessioni soliste 1967-1970

Otis Spann with Muddy Waters and His band, Live the Life CD coverOtis Spann, The Bottom of the Blues CD cover

Mentre Chess con l’inizio del 1967 s’apre alla moda delle super-sessioni (dischi Super Blues e Super Super Blues Band), che cito perché Otis Spann era tra gli accompagnatori, è ancora Testament a mostrarci più da vicino il pianista, per la maggior parte dal vivo, sia in un’atmosfera più intima, che insieme alla Muddy Waters Blues Band. Si tratta di sedici episodi pescati dal materiale prodotto da Pete Welding, rimasti inediti a lungo forse senza nessun altro motivo se non quello d’appartenere a quattro o cinque diverse occasioni dal 1963 al 1968, e quindi ogni gruppo non sufficiente a formare un album a sé, alla fine pubblicati nel 1997 sul CD LIVE THE LIFE (Testament 6001), un bel disco nonostante l’audio non sia il massimo, ma accettabile.
Inizia alla grande con cinque titoli da un concerto acustico del 1968 in tributo a Martin Luther King, forse tenuto alla Disciples of Christ Church (Chicago?), con Muddy Waters alla chitarra e Willie Dixon al contrabbasso ad accompagnare il piano e il canto di Spann. Qualche difetto audio che però non vanifica questa rara opportunità per godere del trio in primo piano, immersi in un’atmosfera particolare dovuta alla sentita circostanza, in un ambiente carico d’eco e con ascoltatori attenti e silenziosi.

"Tribute to Martin Luther King", 45 rpm Cry Records

A partire dalla sublime Been A Long, Long Time sono la flemma, il pianismo corposo ed elegante, e la voce di Spann, a caratterizzare questo gruppetto che da solo vale tutto il disco, Muddy nella veste di sideman a seguirlo come un’ombra.
Otis presenta i brani uno a uno, ad esempio il sempre efficace stomp Look Under My Bed (diversa versione di Boots and Shoes aka Meet Me in the Bottom aka Mr Highway Man) con percussiva dal segnale debole e bagnato, forse il suo battito del piede, seguito dal Tribute to Martin Luther King.
L’originale di quest’ultimo era stato catturato da Norman Dayron l’8 aprile 1968, a quattro giorni dall’assassinio di King, negli stessi momenti delle rivolte nazionali seguite al fatto. La registrazione, fatta per beneficenza, avvenne in un storefront church (1) e uscì su 45 giri Cry Records, la piccola etichetta di Dayron. Il retro avrebbe dovuto essere il sequel fatto nella stessa occasione, Hotel Lorraine, ma fu sostituito dal contributo di Big Joe Williams The Reverend Martin Luther King; oggi i due originali di Spann (il primo rinominato Blues for Martin Luther King) si trovano su Rare Chicago Blues 1962-1968 (Rounder/Bullseye CD 9530).
Qui Otis lo presenta come “a tribute to a wonderful man”, aggiungendo “this man was a man amongst men” per sottolineare la speciale caratura dell’uomo.

I know you had heard the news, happened down in Memphis, Tennessee, yesterday
Fellows, I know you had heard the news, it happened down in Memphis, Tennessee, yesterday
There come, Lord, a sniper, put Doctor Luther King away

La sua voce è pastosa e toccante come sempre, il pianoforte ha suono consistente, limpido, fremente, e mentre le corde scandiscono il passo funereo Otis investe con un’emozionante cascata di note esprimendo lo sgomento e la drammaticità del momento in un’esplosione di trilli e tremoli. Gli altri sono due suoi classici: uno di fatto, il ricorrente Sarah Street, (2) qui nella versione più lenta di tutte e con piccolo solo di Muddy, e l’altro di diritto, dato che mai Worried Life Blues di Big Maceo Merriweather è stato in mani diverse più appropriate, anticipato da presentazione (“…A good friend of mine, Big Maceo […] was an astounding, an astounding great piano player down on his days…”).
La parte centrale conta sette titoli da un live con la MWBB in località e data sconosciute, e tra i bandmate l’unico sicuramente riconoscibile è Muddy; gli altri potrebbero essere i chitarristi Samuel Lawhorn e ‘Pee Wee’ Madison, l’armonicista Paul Oscher, il bassista Sonny Wimberley, il batterista Francis Clay o S.P. Leary.
Spann come solista (con la sezione ritmica) canta solo due brani – come fosse un’apertura prima dell’entrata di Muddy con il resto della band – Kansas City e Tin Pan Alley. Audio altalenante e batteria forse mal microfonata. Equilibrati sono invece i rumori naturali, le voci sul e attorno al palco, gli applausi – questi ultimi arrivano copiosi (3) ma non con volume invadente, tipo dopo il celebre anthem di Little Willie Littlefield. L’atmosfera è sospesa, come nel bellissimo di Bob Geddins, quel Tin Pan Alley che da San Francisco ha fatto strada godendo di belle interpretazioni anche a Chicago, ad esempio di Big Walter Horton. Down tempo per eccellenza, fa meraviglia la vicinanza della voce e del piano, ed è curioso che un brano così nelle sue corde Spann non l’abbia mai registrato in studio, e non si trovi da altre parti.

Il debito verso Eddie Boyd si manifesta apertamente con Five Long Years (già ripreso in The Blues Is Where It’s At come Steel Mill Blues, e nelle sessioni Spivey); l’introduzione pianistica richiama il Third Degree, tema a lui caro, ma poi s’acquieta lasciando entrare la possente e recitante voce di Muddy, che colpisce come una sferzata. Ciò che succede dopo è misterioso e intrigante; Muddy chiama il fratello per il solo, ma Spann dialoga, sottrae, mentre chitarre e armonica marcano la loro discreta presenza con piccole, taglienti note: è il trionfo del less is more in un intreccio di suoni delicati e persuasivi.
Muddy continua con i suoi successi, Live the Life I Love, tipica struttura dixoniana e pregevole armonica, I Wanna Go Home, call and response con le voci della band sulle quali spicca quella del pianista, e l’esemplare Can’t Lose What You Ain’t Never Had in cui invece risaltano gli strali elettrici associati al canto formidabile del titolare. Dopo il saluto di questi al pubblico la band conclude con High Rising, strumentale jazzy propulso dal basso con brevi solo di chitarre, batteria e piano, scaldato dall’approvazione della platea. Le note riferiscono di due duetti Spann-Charles Morganfield (figlio di Muddy) (4), ma non sono presenti.
Le ultime quattro del disco, tutte da Chicago, iniziano con due del solo Spann, le brillanti Everything’s Gonna Be Alright e What’s on Your Worried Mind, varianti però dello stesso motivo, risalenti alle sessioni 1965/1966 che produssero il vinile Otis Spann’s Chicago Blues (v. articolo prec.) in cui entrerà la seconda (e quindi non un inedito, perché nonostante la discografia ne elenchi due con lo stesso titolo, a me questa pare la stessa di O.S.C.B.), mentre le altre risalgono a due sessioni con Johnny Young e Charles ‘Harmonica Slim’ Willis, con buon audio. La prima è del nov. 1963 per il mandolino e la possente voce di Young, Mean Old Train (sarebbe Number 12 and 10 Train), accompagnata da pianoforte e armonica acustica, la seconda del maggio 1964, My Baby Left Me di ‘Slim’ Willis al canto e armonica, Young alla chitarra elettrica, Spann in sottofondo, e la batteria di Robert Whitehead esemplare nella sua essenzialità.

Otis Spann, Muddy Waters, Brownie McGhee, Sonny Terry, backstage 1964 ca
Spann e Muddy con Brownie McGhee e Sonny Terry, backstage durante un tour, 1964 ca
Courtesy of John ‘Hoppy’ Hopkins

Tornando al 1967, in luglio Spann è di nuovo al Festival di Newport con Muddy e band, in settembre a New York partecipa a un album (Douglas LP 781) intestato a Luther ‘Snake’ Johnson (aka ‘Georgia Boy’) e alla MWBB (l’armonicista ora è ‘Mojo’ Buford), e il 18-19 dello stesso mese a Chicago alla prima estesa sessione solista di Buddy Guy che sarà il suo album di debutto A Man & the Blues, prodotto da Sam Charters per Vanguard.
Durante un tour in Canada la mattina del 18 ottobre il musicologo Michael Nerenberg, con un registratore portatile a bobine e un unico microfono, cattura Muddy e alcuni della band, gli stessi di The Bottom of the Blues (v. sotto) senza basso e batteria, a Montreal in un salotto con cucina attigua (al 624 Prince Arthur Street Rooming House, dov’erano alloggiati). La particolarità, oltre alla situazione casalinga e rilassata, è che tutto è a base di chitarre acustiche e armonica, e perfino Spann suona la chitarra in due brani.
A parte questa unicità, il disco Muddy Waters & Friends GOIN’ WAY BACK (CD Collectors’ Classics Series, Just a Memory Jam 9130-2) testimonia non solo le radici di questi musicisti, ma anche la loro disponibilità a suonare in una situazione privata, pur avendo suonato magari la sera prima o dovendo farlo la sera stessa. L’audio è fin troppo buono visti i mezzi, ma è roba per seri appassionati (completa di colpo di tosse e squilli di telefono), da ascoltare senza alcun’altra pretesa se non quella di godere dei nostri beniamini in un contesto extra e casuale. E per caso sembra di esserci capitati, sentendo la musica, le loro voci, e leggendo le note che descrivono l’entrata di Muddy nella stanza piena di fumo ed effluvi di caffè, annunciato dal suo portamento regale in vestaglia da camera color porpora, per niente sminuito dalle pantofole e dalla retina per capelli.
I primi cinque titoli sono di Muddy accompagnato da Sammy Lawhorn, seguono tre di ‘Snake-Georgia Boy’ (Luther Johnson) con Lawhorn, e i due di Spann, Bad Lovin’ Trouble (titolo frainteso perché Otis canta “bad luck and trouble”) e Nothin’ Bother Me. È da rilevare quanto Spann, con in mano una chitarra (su cui per la maggior parte si limita a suonare accordi), cambi l’impostazione vocale e quasi non sembri lui, accompagnato da ‘Mojo’ Buford, che poi mette il sigillo con un suo brano.

Lucille and Otis Spann

Come accennato nel precedente articolo in questo periodo Spann sposa Mahalia Lucille Jenkins, (5) aspirante cantante che comincia a esser presente nelle registrazioni del pianista, ahimè con risultati mediocri; s’inizia a notare nell’album THE BOTTOM OF THE BLUES (Bluesway BLS 6013, CD BGO Records, 1990) con nove tracce prodotte da Bob Thiele a New York il 20 novembre 1967.
Questa ultima sessione Bluesway, nonostante lo straniante “fattore Lucille”, si può ritenere ancora della vecchia guardia, cioè con le buone e belle sonorità chicagoane perché c’è di nuovo la formazione con Muddy, Luther ‘Snake’ Johnson, Sammy Lawhorn, George ‘Mojo’ Buford, ‘Lil Sonny’ Wimberley (o Wimberly) e il fido S.P. Leary, tutti in assetto orchestrale, nel senso che ci sono pochi solismi, ma ognuno ben distinguibile.
Il disco esordisce con l’implacabile mid-tempo Heart Loaded with Trouble, ed è incredibile come anche da avvezzi al blues possa ancora colpire un attacco così, senza preamboli, andando subito al dunque: “Don’t wanna commit no murder”, esclama, e si è coinvolti tout court. È un omaggio a James Oden in cui Otis mostra come il suo baritono naturale con magnifico timbro, adatto ai suoi tempi da medio-lenti a rarefatti, dall’espressione colloquiale a quella più melodica, sia efficace anche nello shouting e nei tempi più andanti possedendo un’inflessione soulful perpetua, dono equiparabile alla sua tessitura pianistica, e la capacità di non indebolirsi nell’estendersi un po’ oltre la sua gamma ideale. Notevole anche l’armonica gemente.
Il vibrante slow Diving Duck, accreditato al pianista, contiene un wandering rhyme forse inaugurato dal Rollin’ and Tumblin’ di Hambone Willie Newbern:

If the river was whiskey, people, and I was a diving duck
You know I would dive to the bottom, little girl, will never come up

Tutto è tenuto dall’abile trama di chitarra, armonica e piano, quest’ultimo con trilli, tremoli, escursione sulle note basse, e piccoli glissati a chiudere le frasi.
Sono accreditati a Spann anche il duetto con Lucille Down to Earth, trainante mid-tempo chicagoano reso purtroppo rigido e sterile dalla povertà melodica della cantante, e Doctor Blues, uptempo poi ripreso nelle incisioni Blue Horizon come Can’t Do Me No Good (là attribuito a Muddy Waters), in cui la medicina ufficiale non può curarlo:

Well I went to the doctor, you know 'long the other day
Know my doctor, he throw the book away
Say that he couldn't do me no good, yes, he couldn't do me no good
Say, if anybody can help you son, take somebody in your neighborhood

Altro tipico shuffle chicagoano è I’m a Fool, attribuito a Lucille che si inserisce in parlato rappresentando un classico battibecco, non ben riuscito proprio per il parlato, mentre nell’altro suo, il lento torch-song My Man, è solista. Nonostante il bel vibrato e il timbro marcatamente blues, Lucille non mi convince mai; appare anche in Shimmy Baby di Muddy rispondendo in semiparlato a Otis (che canta e suona) su un incalzante ritmo latino fornito da S.P. Leary. Tende a urlare, e non è piacevolissima al padiglione auricolare.
Spann torna alle vette espressive con lo slow Looks Like Twins di Muddy, che va ringraziato insieme all’armonica di Buford (anche se mi pare che questa stoni un po’) nel tessere col pianista un’aria dilatata e quietamente sofferente: è un’associazione a delinquere. Completa l’opera il lento di Walter Davis Nobody Knows già affrontato nelle incisioni Testament (Otis Spann’s Chicago Blues), e ritrovato con piacere in questa versione altrettanto riuscita. Nel complesso un disco in cui il pianismo e la vocalità di Spann sono discretamente esaltati, al di là del contorno non sempre ottimale.

Il giorno dopo, sempre a New York, è uno degli accompagnatori di Sippie Wallace in quattro brani su nastri che saranno pubblicati solo vent’anni dopo da Reprise, parte di una sessione più estesa di Sippie insieme a un sestetto che comprende Geoff e Maria Muldaur, cioè Jim Kweskin & The Jug Band (Mountain Railroad MR-52672, e su CD Drive Archive DE2-41043).
Nel 1968 ha un’altra sessione di accompagnamento per Luther ‘Snake’ Johnson, nella stessa città e prodotta ancora da Bob Messinger, con Muddy, Oscher, Madison, Wimberly e Leary (Luther Johnson with The Muddy Waters Blues Band, Come on Home, 1969 Douglas Records LP 789).
C’è poi un acetato (Ebony 1000) posseduto da Jim O’Neal, credo mai pubblicato, in cui Otis è al piano elettrico in Night Time Is the Right Time, in duetto con Lucille.

Otis Spann's "Cryin' Time" cover (Vanguard Records)

La prima vera occasione solista del 1968 è di nuovo offerta da Sam Charters per Vanguard il 7, 20 e 21 marzo agli Universal Studios di Chicago, e dieci brani escono su CRYIN’ TIME (LP VSD 6514, CD VMD 6514). Il disco inaugura l’ultima fase della sua discografia, quella che lo vede a contatto con giovani musicisti bianchi e/o non appartenenti alla scena blues di Chicago e qui, a parte il sempreverde e calzante bandmate Luther ‘Snake’ Johnson alla seconda chitarra, appaiono alla lead guitar Barry Melton (Country Joe & The Fish), il bassista Jos Davidson (Siegel/Schwall Band) e il batterista Lonnie Taylor. La vaga aria progressive (segno dei tempi) un po’ è dovuta allo stesso pianista che in qualche episodio suona l’Hammond, però ovunque si è investiti da sonorità aliene a Spann, e in Home to Mississippi, che prende spunto da Kansas City e dà una strizzatina d’occhio al nuovo pubblico, la batteria (ma anche il basso) è troppo davanti a tutto, come se dovesse assurdamente competere con il cantato. Le tracce sono quasi tutte autografe; Lucille sembra meno presente rispetto al disco precedente e tra le pubblicate in effetti è così, però ascoltando anche le inedite lo è altrettanto: non voglio dire che rovina i suoi dischi (e invece sì), ma sinceramente, in vista di un imminente allontanamento dalla band di Muddy, Spann non può sprecarsi come suo accompagnatore, e soprattutto i loro duetti non rendono.

Ad esempio Blind Man, traditional dal sapore gospel. Il sottofondo d’organo è poco chiesastico e risulta accessorio, mentre Lucille, che qui comunque si controlla abbastanza e a momenti è pure piacevole, è come sempre in antitesi con Spann, cioè la loro accoppiata alla fine si rivela disomogenea, specie quando lei prende il sopravvento. Perché insistere con i duetti, o a entrare in qualche modo (in parlato o altro) in un brano meglio interpretato dal solo Spann? Se proprio doveva essere nei suoi dischi e nelle sue esibizioni, perché almeno non eseguire un paio di cose da sola e finirla lì? Comunque questo è un discorso generale e il vero guaio, in questo caso, è la sezione ritmica, non solo ancora molto davanti, ma anche inadeguata e da principianti del blues. Su Someday, blues ballad con piano malinconico e discorsivo, voce di Otis calda, ispirante, e insinuanti lick ritmici di chitarre (ma basso ancora troppo alto nel missaggio), si torna un po’ a respirare fino a quando arriva la cantante, e anche se appare solo verso il finale è comunque di troppo.
Cryin’ Time è un blues strumentale d’organo mostrante come il pianista abbia concreta padronanza anche sul “nuovo” strumento (nuovo in rapporto all’uso nella musica popolare), come nel breve The New Boogaloo, stracciato e tirato avanti e indietro con maestria (ma con accompagnamento basso-batteria scolastico). Se da un lato entrambi si possono considerare chicche (ha già usato l’organo nelle incisioni Testament, ma là l’audio è pessimo), dall’altro non mi dicono molto sapendo chi c’è dietro: non era tipo da organo, Spann, e troppo moderna per lui la rivoluzione organistica degli anni 1960. Lui era nato per il pianoforte e per il blues cantato, e così raggiungeva la massima espressione, abbellita dal suo tipico sapore agrodolce e dalla sua profondità; questi episodi invece mi fanno lo stesso effetto estraniante di quelli con il prepared piano di The Blues Of.
Per questo se subito dopo si passa ai brani pianistici questi appaiono splendidi, come Blues Is a Botheration, rammentante le sue qualità come solista e come partner, qui con ‘Snake’ Johnson, che altrettanto conferma la sua efficacia nell’incrociarsi con il pianista. Stessa cosa per l’altro slow del disco, You Said You’d Be on Time, (6) con tonici e speculari lick dei chitarristi e il canto del nostro che, anche se leggermente opacizzato, rimane ancora suo valido alleato.

Twisted Snake è uno strumentale che doveva esser lasciato al solo Spann perché basso e batteria sono del tutto inutili: peggio, una cornice pedestre; oltretutto era da un po’ che non lo si sentiva in un bouquet pianistico così fiorito, speziato da un pizzico di stride e di New Orleans. Il suo calibrato e istintivo senso armonico-ritmico-melodico meritava di esprimersi in libertà, e questa cadenza fissa ed elementare dei due accompagnatori limita la percezione dell’offerta, anzi la distrugge con quel banale e didascalico giro blues.
Chiude una doppietta firmata Muddy, omaggio dopo quindici anni di fratellanza. Uno è Green Flowers, tutto in doppio senso come piaceva a Morganfield, qui in ambito “floristico”, in cui le chitarre ben s’intrecciano con il piano (e dove la parte finale e iniziale di due versi cantati sono inspiegabilmente tagliati di netto), l’altro è l’uptempo Mule Kicking in My Stall, anche questo dal tipico carattere testuale del bluesman di Rolling Fork (If I find that doggone mule, there won’t be no mule at all), ma dalla scansione funky-soul: gli accompagnatori qua trovano pane per i loro denti.
Nel 1999 Vanguard pubblica il CD BEST OF THE VANGUARD YEARS (in realtà si tratta di *tutti* i brani usciti per Vanguard) con diciotto episodi riassumenti la sua esperienza con l’etichetta, vale a dire i cinque pregevoli di Chicago / The Blues / Today! visti nell’articolo precedente, i dieci appena descritti e tre inediti dalle stesse ultime sessioni. Si tratta di Blues Jam, strumentale jazz in cui si stenta a riconoscerlo (ricorda Nina Simone) e segno che, lasciato libero, era in grado di suonare in più linguaggi rispetto a ciò che si sente in tutto il suo registrato (e guarda caso si tratta di un inedito, appunto) (7) – e di due gospel con Lucille e l’organo, il traditional He’s Got the Whole World in His Hands e My God. Il primo è ben portato da Lucille, forse l’unico brano in cui l’ho sentita cantare bene (da qui mi pare che esprima meglio il gospel, peccato che nel blues assuma quel tono aspro e fuori controllo), il secondo con la voce di Lucille più dolce del solito ma che delude presto, ancor più perché l’inizio fa ben sperare con il canto di Spann che ricorda T’Aint Nobody’s Business if I Do, cioè nel suo tipico stile e con una voce che scalda il cuore, ma anche simil-Ray Charles (un insieme potenzialmente esplosivo), prima che arrivi lei a rovinare tutto in un crescendo vocale sempre più squillante che, se da una parte evidenzia la sua potenza d’emissione, dall’altra annienta la linea melodica e copre il povero Otis.

Otis Spann

Il 10 giugno 1968 va agli studi Ter-Mar di Chess con Johnny Shines, Walter Horton, Willie Dixon e Clifton James per delle sessioni Blue Horizon organizzate dall’inglese Mike Vernon con l’aiuto di Dixon e il supporto dei nuovi partner americani di Sire Records; il progetto prevede un album a testa per Shines e Sunnyland Slim, e un singolo per Spann, tutto in un unico giorno. Dieci brani di Shines escono su Blues Masters vol. 7 (Blue Horizon BM 4607) e tra questi Spann è presente solo in Pipeline Blues al piano.
A sua volta è accompagnato dagli stessi musicisti (tranne Sunnyland, naturalmente) in Can’t Do Me No Good e Bloody Murder (singolo Blue Horizon 57-3142); il primo un’altra versione del Doctor Blues (v. sopra), il secondo il noir Bloodstains on the Wall di Frank Patt, avvolgente dramma in cui Horton contribuisce con lunghi e leggeri vibrati, Dixon con note cupissime, Spann con proficua economia.
In settembre/ottobre la MWBB (Muddy, Spann, Johnson, Wimberly, Leary), Luther Allison, George ‘Harmonica’ Smith e il suo chitarrista, Marshall Hooks, sono a Los Angeles all’University of California per le sessioni del disco di George Smith in tributo a Little Walter (George Smith & The Chicago Blues Band, Blues with a Feeling), con la produzione di Steve LaVere e Pete Welding. In quest’occasione anche Lucille registra un brano, Love Me with a Feeling; a L.A. Lucille registra anche a suo nome qualche giorno prima, per Capitol, in una sessione con Shakey Jake, accompagnata da Spann, Luther Allison, ‘Big Mojo’ Elem e Francis Clay.
La band (Muddy, Spann, Oscher, Madison, Johnson, Wimberly, Leary) poco dopo torna in Inghilterra per partecipare al Jazz Expo 1968 di Londra e con l’occasione arrivano altri ingaggi, uno di questi è ripreso il 21 ottobre dalla BBC (BBC TV Broadcast “Jazz at the Maltings”) al Maltings Theatre di Snape (nel Norfolk) e successivamente pubblicato su Muddy Waters, Rare Live Recordings Volume 2 (Black Bear 902 [LP]); qui il pianista porta Bloodstains on the Wall. Il 2 novembre sono al festival di Montreux (esce un solo brano di Muddy, Country Boy, su un LP Chess), mentre il 4 sono registrati ancora dal vivo presso la Salle Pleyel di Parigi (France’s Concert LP 121) e qui Spann ne ha due, Ring Up e Worried Life Blues.

Nel frattempo Mike Vernon dopo la sessione di giugno aspetta l’occasione per registrare ancora Spann, e quella giusta secondo lui arriva con il tour americano dei Fleetwood Mac (Peter Green, Danny Kirwan, Jeremy Spencer, John McVie e Mick Fleetwood) tra la fine del 1968 e l’inizio del 1969. Blue Horizon aveva già in progetto di registrare Green & Co. a Chicago insieme a qualche bluesman cittadino, così Marshall Chess offre lo studio Ter Mar (con l’eccellente tecnico del suono Stu Black, anche nella sessione precedente) e Willie Dixon raduna i solisti nella “wish list” di Vernon. Tra quelli disponibili, Buddy Guy, Walter Horton, J.T. Brown, ‘Honeyboy’ Edwards, S.P. Leary, e Spann che quel giorno, 4 gennaio 1969, partecipa a dieci brani tra cui tre come solista.
Il risultato dell’“ammucchiata” è pubblicato in due volumi, BLUES JAM AT CHESS (Blues Jam in Chicago per il mercato americano, e Fleetwood Mac in Chicago), dischi di cui ho già parlato nella bio-discografia di Big Walter Horton, forse anche troppo benevolmente.
Dipende dalla prospettiva da cui si considera. Se si prende come materiale dei Fleetwood Mac allora va bene; sono giovani musicisti inglesi che amano il blues, e il risultato è onesto blues/rock con buoni momenti, specie quando non cantano loro o le sonorità sono impreziosite dai bluesman americani, anche se non esenti da distrazioni (in particolare Horton).
Comunque Spann accompagna Walter Horton insieme ai Mac, e poi senza Horton e con S.P. Leary al posto di Mick Fleetwood accompagna Green e Kirwan. Come solista (con Green, Kirwan, McVie, Fleetwood) esegue in modo sublime il lento Someday Soon Baby, dichiarazione per Lucille lì presente, con chitarra finemente riverberata di Green (si sente Spann dargli indicazioni dicendo di cominciare da solo in stile B.B. King fino al secondo chorus, quando entreranno lui e il batterista), e l’insolito Hungry Country Girl, che inizia con un monologo e prosegue a tempo di camminata lenta (simile all’andata solenne dei funerali di New Orleans); ricorda Roosevelt Sykes. Questo sarà il suo unico hit, ma purtroppo non ne godrà perché uscirà postumo nel 1972 su singolo Polydor (BH 304), finendo nella classifica Contemporary di Cash Box alla 52ª posizione. Il terzo, Ain’t Nobody Business, rimane inedito.

Otis Spann "The Biggest Thing Since Colossus" cover

Vernon, notando che tra i Mac e Spann è scattata l’intesa, cinque giorni più tardi (9 gennaio 1969) produce un’altra sessione ai Tempo Sound Studios di New York per un album a nome di Spann, con Peter Green, Danny Kirwan e John McVie, senza Mick Fleetwood perché il pianista vuole S.P. Leary (e senza Jeremy Spencer).
Sono diversi gli alt. take nella registrazione di Warren Slaten dal vivo in studio, dodici i master eletti di cui dieci escono nella primavera 1969 su vinile Blue Horizon THE BIGGEST THING SINCE COLOSSUS, disco più di chitarre che di piano, con molti brani nuovi, apparentemente tutti portati da Spann.
Non posso che dir bene dello slow blues My Love Depends on You. Le sonorità della chitarra sono figlie della stagione hippie, e con quel volume ed eco rubano un po’ la scena, ma è un gran attacco di disco, anzi sorprendente. Green suona con economia e passione, calibrando le note (in particolare al minuto 2:45 le “piega” in maniera molto efficace), (8) mentre Spann enfatizza tremoli e trilli, e volteggia sulle scale come al solito bilanciando il suo timing perfetto (in senso estetico) tra piano e bellissima voce con rilassata eleganza.
L’acid rock a ritmica Bo Diddley Walkin’, che sarà retro di Hungry Country Girl sul singolo postumo sopra detto, ha un ritmo selvaggio caratterizzato da accenti off-beat e mostrante l’arte di S.P. Leary. Spann partecipa anche lui nella sola funzione ritmica, e in un semicantato a verso libero coperto dalla batteria, difficile da cogliere. Vero che qui non è tanto importante ciò che dice quanto forse rappresentare la confusione mentale del narrante, che “parla da solo” e fa cose strane (sbircia, si nasconde, corre, cammina…), ma sei minuti così sembrano troppi, a meno che non ci si tuffi completamente nel british rock del tempo e ci si dimentichi di Spann. It Was a Big Thing è caratterizzata da un morbido riff wah wah, ma non c’è molto altro da dire.
A ristabilire un clima più consono al pianista è un altro lento, Temperature Is Rising (100.2° F), forse ispirato da Cold, Cold Feeling di J.M. Robinson. Dolce e pungente, pieno di vibrato kinghiano (B.B.), chitarre e piano scendono (e salgono… vista la temperatura) le scale blues amorevolmente insieme in poco più di sei minuti che volano via. La prima chitarra dovrebbe essere Kirwan e stranamente esce a destra, da dove di solito esce Green (ma nella raccolta completa con i remix è il contrario).

Dig You è uno strumentale (Spann interviene in parlato) di cui non si sente la necessità. La batteria, pur eccellente (che tocco!), è davanti, ma il piano è solo in funzione ritmica e il nostro non canta quindi cambia poco (ancor più che in Walkin’, a cui somiglia, durando però per fortuna la metà). Forse voleva essere una specie di Tip on In (Slim Harpo) più aggressivo (rock). Green esce a destra, più caldo rispetto a Kirwan a sinistra, alto e acido (anche qui ci sono diversità nella raccolta completa).
Non male No More Doggin’, classico R&B di Rosco Gordon, con bel bounce richiamante il tipico ritmo di Gordon, e walking bass, ma gli strumenti coprono la voce (poi alzata nella versione remix, come il piano) e quel solo di chitarra (Green) sottrae un po’ di swing. Nella raccolta completa ci sono altre due versioni complete con alcune diversità.
La ripresa di Ain’t Nobody’s Business è elegante e laid back, ma non supera le precedenti, con un solo di Green e uno di Spann, mentre She Needs Some Loving, condotta da timbro wah e riff ripetuti di Green e Kirwan (con solo di quest’ultimo), sembra esaurire la sua spinta prima della fine.
Il non ancora diciannovenne Kirwan riappare a destra (a sinistra nella raccolta) messo alla prova con il blues lento I Need Some Air, in cui il canto di Spann è di nuovo sotto, prima di scoprire che nella versione remix la voce è alzata notevolmente. Piano e chitarre sono bilanciati e suonano bene insieme, e Spann sostiene Kirwan anche a voce perché durante il suo solo gli dice: “Tell it like it is!”; quest’ultimo è tutto passione e forse s’ispira a Otis Rush. Green torna leader in uno shuffle a tempo medio, Someday Baby (non la Someday Soon Baby di poco prima, v. sopra), dove Spann si sente bene mentre l’ottimo McVie è alto. Alla fine un disco dove il rock prevale insieme ai difetti di missaggio, ma sborda di autentico vigore e di sonorità anni Sessanta.

Nel 2006 Columbia ha fatto uscire il doppio THE COMPLETE BLUE HORIZON SESSIONS, la raccolta remix citata sopra. Il primo dischetto contiene i due brani del giugno 1968, i due del 4 gennaio 1969 e i dieci “Colossus” nello stesso ordine, come accennato alcuni più estesi perché con false partenze e voci in studio incluse e tutti missati di nuovo, con differenze audio rispetto al disco originale.
Nel secondo ci sono i due esclusi: il lungo Blues for Hippies, dedica di Spann allo stile di vita hippie con ritmica simil-Spoonful (Howlin’ Wolf), accenno biblico (incontro con Daniele nella fossa dei leoni), e batteria ancora sopra – pubblicato insieme a Bloody Murder su un singolo per il mercato americano (Excello 2329), e She’s out of Sight, lento non superiore a quelli visti sopra. Il resto sono tutti alternate take (Someday Baby ne ha molti, ma alcuni sono solo false partenze, il take di Colossus è il n. 8), tra cui la prima versione di Temperature Is Rising, qui Temperature Is Rising (98.8° F), uscita su singolo Blue Horizon (57-3155).

Nel gennaio-febbraio 1969 ci sono le sessioni per After the Rain di Muddy, proseguenti la svolta rock/psichedelica iniziata da Marshall Chess con Electric Mud, e infatti i musicisti sono gli stessi; Spann partecipa solo a un paio di brani e si sente pochissimo.
In aprile (21/23) invece è la volta di Fathers and Sons: sono le ultime sessioni con Muddy e prima della fine dell’anno il suo posto sarà di ‘Pinetop’ Perkins. Le tre giornate in studio sono suggellate il 24 con il Cosmic Joy-Scout Super Jamboree, concerto di beneficenza (per una scuola locale) e insieme promozione dell’album all’Auditorium Theatre di Chicago. Il clou è rappresentato dal gruppo centrale di F&S (Muddy, Spann, Mike Bloomfield, Paul Butterfield, Sam Lay [gli ultimi tre la metà della formazione originale della Paul Butterfield Blues Band], e ‘Duck’ Dunn), ma partecipano anche James Cotton, Nick Gravenites e ‘Buddy’ Miles – più qualche nome della scena psichedelica di Frisco nell’opening act, come le Ace of Cup e i Quicksilver Messenger Service (in una foto dell’evento si vede il monumentale sistema di John Cipollina con quattro amplificatori più uno culminante con sei trombe Wurlitzer in cima).
Il 6 aprile è co-produttore (insieme a Bart Friedman) e accompagnatore nella sessione di Johnny Young per Blue Horizon agli studi O.D.O. di New York, con Oscher, Lawhorn e Leary. Dodici brani escono sul vinile Johnny Young, Blues Masters Vol. 9 / Fat Mandolin, disco che poi avrà lo stesso trattamento delle sue incisioni BH, con remix, aggiunta di false partenze, alt. takes, inediti e trasferimento su CD Sony (Johnny Young, The Complete Blue Horizon Session).
Con gli stessi musicisti e sempre per BH accompagna Victoria Spivey in una sessione (forse prodotta da lui e Spivey) a Chicago il 5 maggio in almeno undici brani, a quanto ne so ancora inediti; Mike Vernon nelle note alla raccolta del 2006 lascia intendere che saranno pubblicati appena saranno ritrovati.

Otis Spann, "Up in the Queen's Pad" (Spivey Records) vinyl cover

Come anticipato nel precedente articolo, tra i dischi usciti dalle varie sessioni newyorchesi per l’etichetta di Victoria Spivey con i musicisti di Muddy Waters, ce n’è anche uno che sarà pubblicato nel 1980 a suo nome (più esattamente, “Otis Spann with Sammy Lawhorn & Queen Victoria Spivey”) da registrazioni del 9 e 10 aprile 1969 nell’appartamento-studio-etichetta discografica della Regina a Brooklyn, UP IN THE QUEEN’S PAD (A Musical Parlor Social Deluxe!!), (LP 1031), che però non ho mai sentito.
Otis è in sei brani su sette, I Just Want a Little Bit, I’m Accused, Vicksburg Blues, Five Long Years, Let’s Look after Each Other (quest’ultimo con la nota che si tratta di “walking blues for vocal duet, piano and kazoo”), Help Me Somebody (canta Spivey), accompagnato solo dalla chitarra di Samuel Lawhorn e in qualcuno dalla partecipazione vocale di Spivey, un paio di volte segnalata come “casuale”, che sia canto o parlato. Le note di copertina eccentriche sono tipiche dei dischi Spivey; ad esempio in Five Long Years l’intervento di Victoria è descritto come “incidental chatter including emotional outburst”, e l’assenza di Lawhorn in un brano è giustificata con “stava facendo un pisolino”, mentre a Spann, oltre al piano e la voce è attribuito un “percussive foot stomping”. Segnalano inoltre la presenza di due personaggi di contorno, “Guess Who” al kazoo (probabilmente Len Kunstadt, marito di Spivey e socio d’etichetta), e Parakeets al “Tweet and Chirp”.
Inoltre hanno spesso titoli altisonanti e gusto grafico forse già rétro all’epoca (ricordano i quotidiani degli anni 1920, ma non la stessa qualità tipografica), con notazioni scritte a macchina che paiono incollate su un foglio e fotocopiate, insieme alle foto e vari ritagli o decorazioni.
Il 9 aprile è registrato anche If I Could Hear My Mother, uscito sull’LP 1017 (Spivey’s Blues Showcase, 1975), “an 8-minute tribute by Otis to his mother with a vocal chorus from Victoria. Otis’ and Victoria’s chanting are highlights”.

"Sweet Giant of the blues" cover

In questo periodo, metà 1969, il pianista ha lasciato Muddy per attriti forse inerenti a Lucille (Muddy non la vuole nella band) e Otis, tornando in Inghilterra da solo in luglio per un breve tour (è registrato in studio dalla BBC per la radio in tre brani mandati in onda il 2 lug. 1969, e in un club di Soho in cinque brani andati in onda tra giugno e sett. 1970) matura l’idea di una propria band. In realtà una sua band non avrà occasione di maturare (9) perché gli è rimasto pochissimo tempo, e intanto in studio gli affiancano musicisti estranei al blues, in particolare il 13 agosto vede la registrazione di un disco che a mio parere è il peggiore tra quelli della nuova era e quindi in assoluto ma, ancora, la colpa non è sua quanto della produzione. Lui è sempre lui, è la cornice che cambia.
Esce con il titolo SWEET GIANT OF THE BLUES (Flying Dutchman/Bluestime, BT29006) prodotto da Bob Thiele a Los Angeles con musicisti da studio attivi nell’area, per la maggior parte bianchi poi noti in vari ambiti musicali, come Mike Anthony (banjo e chitarra), Max Bennett (basso), Louie Shelton (chitarra), Tom Scott (flauto, sax tenore) e Paul Humphrey (batteria). (10)
Nei crediti sono specificati gli orari: dalle due alle cinque del pomeriggio e dalle sette alle dieci di sera. Questa suddivisione esatta – due turni da tre ore per quattro brani ciascuno, e la “pausa pranzo” in mezzo – sembra confermare la sensazione di un disco suonato da professionisti che timbrano il cartellino. Niente a che vedere con i visi pallidi dei Mac che, pur venendo da oltreoceano, nelle sessioni Blue Horizon lo accompagnano con tutt’altro spirito. Questi invece sono turnisti, buoni se non ottimi strumentisti, ma hanno poco a che fare con il blues e niente con la musica di Spann (che in qualche episodio suona un piano truccato), immettendo sonorità soul e funky-soul contemporanee scontate.
Il più adeguato è il batterista (lo pensavo già prima di scoprire che è l’unico afroamericano), per il resto è un fluire di linee e assolo amorfi di chitarra in fuzz tone e di sassofono (Bird in a Cage, più banjo in Got My Mojo Working e nel gospel Make a Way), chitarra wah wah (I Wonder Why), e qualche occasione persa tipo la troppo lunga Sellin’ My Thing, attribuita a Spann ma che ricorda la splendida She Wants to Sell My Monkey di Tampa Red e Big Maceo Merriweather. Avrebbe potuto esser notevole se non fosse per i suoni standard degli accompagnatori e per i loro (doppi!) assolo di sax e chitarra.
L’unica che mi stava convincendo del tutto è Hey Baby (sarebbe Hello Baby) (11) perché c’è un bel suono, bella chitarra all’inizio, atmosfera rilassata e Spann è maestoso, fino a quando arrivano i deludenti solismi di sax e di chitarra: non è che sono male di per sé, ma sono inadeguati e insignificanti in un contesto che voglia essere davvero all’altezza di Spann. Roba che può piacere forse solo a chi non lo conosce. Segnalo inoltre Moon Blues (Thiele, Weiss) poiché sull’avvenente melodia di Looks Like Twins Spann è amaro e poco entusiasta riguardo le recenti conquiste spaziali, peccato però che il supporto intervenga con altro fuzz tone e addirittura flauto alla Ian Anderson.

I saw a flag on the moon, and I was just as proud as I could be
I saw a flag on the moon, oh Lord and I was just as proud as I could be
Well you know I love my country, baby, but my country don't love me
"Super Black Blues" vinyl cover (Flying Dutchman/Bluestime Records)

Il giorno dopo, ancora a Los Angeles, Bob Thiele produce un altro disco dei suoi, che pare casuale ma molto più interessante, SUPER BLACK BLUES (Flying Dutchman/Bluestime, BT-29003, anche in CD dal 2006). Tra gli accompagnatori, l’unico del gruppo precedente, c’è il batterista Paul Humphrey, confermante la buona impressione, e il chitarrista Arthur Wright, che fa bene e si limita alla ritmica.
Gli altri due sono ancora sessionman tanto rispettabili quanto alieni: Ernie Watts (sax tenore) e Ron Brown (basso). Qui mancano strumenti fuori luogo di partenza, ma sax e basso lo sono comunque per le sonorità che producono; il primo è fastidioso specie negli assolo, il secondo perché è troppo alto nel mix.
A parte ciò, la particolarità di questa improvvisata può fare la gioia dei completisti oltre che delle orecchie, perché tra i convenuti spicca l’armonicista George ‘Harmonica’ Smith e tutto ruota attorno a tre conduttori d’eccezione, oltre a Spann, T-Bone Walker e Big Joe Turner.
Che l’occasione sia casuale lo conferma Stanley Dance nelle note quando dice che Thiele aveva previsto di registrarli separatamente (come fece), e che ebbe l’idea di metterli insieme quando vide che questi si intromettevano nelle sessioni altrui, ma è già intuibile all’ascolto per la spontaneità che traspira e per la diluizione come in un live jam, le voci dei solisti entrando a turno anche nello stesso brano. Originariamente avrebbe dovuto esserci Eddie ‘Cleanhead’ Vinson al posto di George Smith (magari meglio al posto di Ernie Watts), ma Thiele dichiarò che “invece di mandare un biglietto aereo mandai soldi, e Cleanhead non arrivò mai”. (12)

Gli episodi quindi sono lunghi ma solo quattro, di cui tre di Walker, pregni di atmosfera calda e distesa lungo 37 minuti da ascoltare di fila. A partire da Paris Blues che di minuti ne dura quattordici, esordendo con T-Bone che si rivolge a Big Joe Turner, che poi interviene con il suo vocione, prima che sia il turno al canto di Spann, ancora meraviglioso, tutto su una base omogenea e mossa di suoni sparsi di chitarre, piano e armonica. È un quadrumvirato autorevole e significante, con un carattere eterno che sopravvive alle scelte effimere di modernità della produzione e al rischio di pochezza in cui spesso questi raduni all-star cadono, e in cui lo spettacolo principale sono la chitarra di T-Bone, il piano di Spann e i bellissimi, sempre aderenti contributi di Smith, e naturalmente le tre voci, diversamente fantastiche e ugualmente coinvolgenti; sentirle entrare una dopo l’altra ha un che di impossibile e magico.
Here Am I, Broken Hearted ha durata standard ed è tutta di Big Joe, con il supporto strumentale dei compari (Spann purtroppo è di nuovo al prepared piano), peccato per quel maledetto sax da turisti in crociera.
Il vinile girava sui diciannove minuti complessivi di Jot’s Blues e Blues Jam, il primo ancora con il volume del basso in competizione con gli strumenti solisti (e non riesco a credere che disturbi pure l’intro di chitarra di T-Bone!), ma in cui il duetto T-Bone / Big Joe ripaga, il secondo un jump blues in cui le forze si uniscono ognuna con il proprio portamento: la caratteristica voce e chitarra di T-Bone, George Smith e gli splendidi fraseggi jazzy e bellissimo tono, Turner con il suo potente shouting declamatorio, Spann stemperante ad arte il suo pianismo e l’inconfondibile sapore vocale.

Cover of "South Side Blues Jam" (Delmark Records)

La fine del 1969 lo ritrova a Chicago, in particolare il 30 dicembre e l’8 gennaio 1970 ai Sound Studios per un disco prodotto da Bob Koester, SOUTHSIDE BLUES JAM (Delmark DS-628) intestato a Junior Wells, Buddy Guy e Otis Spann: sarà l’ultima volta in cui mette piede in uno studio per registrare, e lo fa finalmente in una circostanza in cui la produzione non allunga la sua pesante mano; peccato che non sia capitato anche a lui direttamente negli ultimi anni.
Sono otto brani tendenzialmente lunghi e rilassati in cui Wells suona con parsimonia e canta in abbondanza liriche anche improvvisate e parlate, con effetto live in un club di Chicago grazie anche a una band che prosegue allentata, morbida ma reattiva insieme a lui, come se si plasmasse nel divenire, senza fretta e al momento giusto. Non deve stupire dato che il supporto è fornito da Fred Below e Earnest Johnson (basso), con Spann sempre pronto a intrecciare e a sostenere le parti di ognuno, in quattro brani con Louis Myers e sei con Buddy Guy (i due sono insieme nelle tracce 1 e 3); Guy nell’ultimo canta con la sua irresistibile voce soulful, sfociando in uno scambio con Wells tutto da godere per la pastosità e l’armonia dei loro toni, la tempistica, e non da meno il supporto di Spann.
Non cito i brani uno a uno perché il solista è Wells, ma raccomando il disco di per sé e in antitesi a Hoodoo Man Blues di Wells per sentire come si possa esser capaci di sfornare dischi dal carattere tanto serrato e preciso, come comandati da un disegno divino (Hoodoo), quanto sessioni “umane” e sciolte come queste in cui l’aspetto di coesione della band è altrettanto forte e importante, ma produce un effetto molto diverso, ugualmente valido.
Segnalo inoltre che in I Could Have Had Religion Wells cita l’infarto di Howlin’ Wolf, la morte di Magic Sam e l’ospedalizzazione di Muddy (dopo l’incidente stradale che lo costrinse a tre mesi di ricovero), cronaca che oggi è storia e segno di come il blues a Chicago all’inizio degli anni Settanta stesse perdendo pezzi; nessuno sapeva che di lì a poco avrebbero perso anche Spann. E non solo, pochi giorni prima di lui spariva un altro immenso talento coltivato in città: Earl Hooker.
In questa stessa occasione i soli Spann, Below e Earnest Johnson registrano Three in one Boogie come riscaldamento pre-sessione, poi inserito su Blues Piano Orgy (Delmark 626).

Cover of Otis Spann's "Last Call"

L’uscita di Muddy dall’ospedale coincide con le pessime notizie sulla salute di Spann, a cui è diagnosticato un tumore al fegato.
Tre settimane prima di morire, tra il 2 e il 4 aprile 1970, fa le sue ultime apparizioni in due diversi locali di Boston. Il registrato è perso, ritrovato e pubblicato trent’anni dopo su LAST CALL (Live at the Boston Tea Party) da Peter Malick, nel 2000 a capo di Mr Cat Music, ma allora chitarrista nella band che accompagna il pianista.(13)
Per i suoi risvolti malinconici e penosi è faticoso parlare di questo disco. Spann non canta perché non è più in grado e al piano è l’ombra di se stesso, con il tocco ancora fine e sapiente, ma incerto e debole sulla mano sinistra, maestro che suona il suo stesso requiem con dignità. È quindi Lucille a dividere le parti vocali con Luther ‘Snake’ Johnson, supportati da Ted Parkins al basso, Richard Ponte alla batteria e Malick alla seconda chitarra. Non un concerto di Spann, ma per Spann, anche se è proprio la sua presenza a determinare l’andamento musicale e il clima.
Non mi piace quasi nulla di ciò che fa Lucille, in Country Girl a un certo punto urla ma è niente in confronto a My Baby (Sweet as an Apple), dove al suo attacco si può addirittura prendere paura; tuttavia la serata non risparmia momenti buoni anche per lei, come quando prima di Chains of Love (Big Joe Turner) fa un annuncio carico di commozione malcelata: «So che molti di voi stasera si stanno chiedendo come mai Otis non canti. Otis ha un piccolo problema, comunemente chiamato laringite, così io cercherò di fare il mio meglio, di darvi il mio meglio…» Qui al suo meglio ci va vicino, anche se sempre sul limite dell’orecchiabilità, compensato dal vibrato, dalla malinconia nella voce, dalla testualità, dal clima sospeso che raggiunge l’apice quando durante il solo Spann estrae poesia con ciò che gli rimane.

I Wonder Why e My Man, altra modesta vetrina per la cantante, e già visti come parte dell’ultimo repertorio del pianista, sono portati ancora bene dalla band e da Spann (ma il basso rimbomba), il secondo con bella chitarra di ‘Snake’ in supporto, mentre lo strumentale jazzy Stomp with Spann è l’ultimo breve indizio di un’arte pianistica brillante, qui mostrante la sua ossatura.
Molto apprezzabili gli episodi “disintossicanti” (da Lucille) di Luther ‘Snake’ Johnson, soprattutto l’aspro Get on Down to the Nitty Gritty, con il chitarrista a doppiare delicatamente il break di piano, anche inevitabilmente coprendolo (troppo debole il segnale di Spann). Scelte scontate quelle dal repertorio di Muddy, la dilatata Long Distance Call e la celeberrima I Got My Mojo Working, ma molto valide e nel segno del Chicago blues da esportazione. Long Distance è lentamente diluita per dieci minuti e ‘Snake’, anche se imitante il canto di Muddy, mette comunque il suo proprio marchio coinvolgendo e “distraendo” il pubblico (ma fa tristezza sentire Spann ormai così distante, appunto, da se stesso e dalla sua arte); Mojo, aperta dal pianista, è altrettanto riuscita, con belle chitarre e pubblico partecipante. Fa impressione pensare che, dopo averla fatta chissà quante volte insieme a Muddy, questa è proprio l’ultima. Il disco chiude con Blues for Otis, aggiunta registrata nel 1998 come tributo da parte di Malick.

Il 24 aprile 1970 Otis Spann muore al Cook County Hospital di Chicago e il 30 aprile è sepolto al Burr Oak Cemetery ad Alsip, Illinois. Per molto tempo la sua tomba non ha lapide, solo una targa; Otis non era in pari con le quote sindacali e il denaro necessario non è versato. Dopo quasi trent’anni Blues Revue lancia una campagna raccolta fondi per la lapide, finalmente posata il 6 giugno 1999 con l’iscrizione di Charlie Musselwhite:
Otis Played The Deepest Blues We Ever Heard. He’ll Play In Our Hearts Forever.

(Fonti: The Complete Muddy Waters Discography compiled by Phil Wight and Fred Rothwell; Wirz [varie discografie]; Mike Vernon, note di copertina a Otis Spann, The Complete Blue Horizon Sessions; Otis Spann Discography at Discogs; Bill Rowe, The Half Ain’t Been Told: An Otis Spann Career Discography [rivista e aggiornata da Chris Smith e Howard Rye], Micrography, 2000).


  1. Dette così le chiese che occupano spazi dismessi da negozi o magazzini, a piano terra e contigue alle attività commerciali, specie nei grandi centri urbani del nord. Il nome deriva dalla facciata tipo negozio e all’epoca erano luoghi d’incontro molto diffusi nei quartieri neri.[]
  2. Un’arteria di St Louis, Missouri, nella zona di Greater Ville, ancora oggi quartiere nero.[]
  3. Sempre che non siano posticci…[]
  4. Forse Came Home This Morning e One of These Days I Ain’t Gonna Love You No More, elencati nella discografia di B. Rowe come inediti.[]
  5. Nelle note a The Bottom of the Blues Lucille dichiara di chiamarsi Lucille Mahalia Wilson. In tutte le altre occorrenze ho sempre trovato Jenkins.[]
  6. Anche questo brano ha la firma di George Spink, studente chicagoano appassionato di blues visto nell’articolo precedente.[]
  7. Anche in questo caso basso e batteria sono troppo alti di volume ma, pur essendo un po’ disturbanti, qui ha più senso trattandosi di un brano da jazz trio, dove gli strumenti ritmici hanno al contempo carattere solista. Tuttavia non mi va giù che continuino a fare sempre la stessa cosa senza adattarsi alla dinamica di Spann e, di nuovo, ammazzandolo.[]
  8. Nella versione estesa con falsa partenza sulla raccolta completa è al minuto 3:49[]
  9. La sua band si può considerare quella di Last Call, con Lucille, ‘Snake’ Johnson, Peter Malick.[]
  10. Gli stessi accompagnatori nel disco Bluestime di T-Bone Walker, Every Day I Have the Blues.[]
  11. Il motivo ricorda da vicino la You Done Lost Your Good Thing Now nelle incisioni Spivey, con parole diverse ma in cui dice veramente “Hey Baby”, al contrario di questa Hey Baby in cui invece dice Hello Baby. Il sonoro di questa è migliore rispetto alla diversa versione Spivey, ma per il resto non c’è paragone e per capire meglio cosa dico dopo a proposito della chitarra e dell’assolo ascoltate ciò che fa (credo) Sammy Lawhorn in You Done Lost.[]
  12. Da Helen Oakley Dance, Stormy Monday, the T-Bone Walker Story, pag. 159.[]
  13. Probabilmente la registrazione risale al 3 o al 4 aprile, o a entrambe le date, in base ai ricordi di Peter Malick in contrasto con ciò che è riportato sulla copertina del CD.[]
Scritto da Sugarbluz // 12 Marzo 2014
È vietata la riproduzione anche parziale di questo articolo senza autorizzazione

Potrebbero interessarti anche...

4 risposte

  1. Alan Balfour ha detto:

    Good to see such a comprehensive feature on Spann and his recordings.

    Nice to see the photo taken by Hoppy Hopkins who sadly died a few months ago.

  2. Sugarbluz ha detto:

    And I’m glad to see a comment by one of those writers whose notes have taught and accompanied me in listening to music.
    I mentioned you in the other two articles about Spann. Thanks.

  3. Alan Balfour ha detto:

    Sugarbluz sorry being so long in replying – computer problems which kept me “off line” for over a month.

    Did you know that two years ago Jim O’Neal and Eric LeBlanc discovered that Spann was actually born in 1924 not 1930

    There’s a complete Spann discography 2000 compiled by the late Bill Rowe in 2000. It is 76 pages (PDF) and if you give me your email I’ll send you this.

    AlanB

    http://ourblues.net/category/authors/alan-balfour/

  4. Sugarbluz ha detto:

    Did you know that two years ago Jim O’Neal and Eric LeBlanc discovered that Spann was actually born in 1924 not 1930

    I didn’t, but I had some reason to believe that he was older, more or less the same age as his first cousin Johnny Jones, who was born in 1924.
    I discussed about that in my first Spann article. Thank you for pointing that out. I’m going to add a footnote on that.

    You can mail me at tittisant [at] gmail [dot] com, or use the contact form instead. Thanks.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.