Peter Guralnick – Lost Highway

Edizione originale: Lost Highway. Journeys and Arrivals of American Musicians, David R. Godine, Publishers Inc., U.S.A., 1979
Fotografia di copertina: David Gahr
Grafica di copertina: Susan Marsh (Hank Williams and friend from the Collection of Les Leverett)
Ristampe: Lost Highway. Journeys and Arrivals of American Musicians, stesso editore, 1989, e Back Bay Books / Little, Brown & Company, New York, 1999, 2012
Peter Guralnick "Lost Highway" book cover

È più interessato al ritratto umano che all’analisi musicale, Guralnick, ma attraverso la vulnerabile umanità di questi affreschi i musicisti rivelano la loro autenticità, la reale sostanza di cui la loro musica è fatta.
La concezione è la stessa di Feel Like Going Home (1971), qui però i racconti, scaturiti da incontri anche a più riprese con gli artisti, e attraverso la loro viva voce, rendono omaggio soprattutto a personaggi legati al country e dintorni, ma il blues è ancora rappresentato sia tramite alcune icone allora viventi (Howlin’ Wolf, (1) Otis Spann, Big Joe Turner, Bobby Bland) sia come influenza più o meno consapevole, e spirito aleggiante sulla musica popolare del ventesimo secolo.
È quindi una collezione di profili di artisti noti e meno noti, o sconosciuti al grande pubblico, ma dall’autore ammirati allo stesso modo e ugualmente considerati eroi, a volte paganti un prezzo troppo alto nella ricerca o nel raggiungimento dell’affermazione, su tutti l’esempio estremo di Elvis Presley («In nessun caso l’adagio che l’America cerca eroi non per le loro qualità ma per la loro commerciabilità è stato più brutalmente illustrato che con Elvis, il cui successo dapprima lo ha sventrato, poi lo ha abbandonato in uno stato ventennale di sospesa animazione»). (2)

Eroi fallibili e non convenzionali accomunati, ad esempio, dalla strada, concetto tanto reale quanto metaforico che può rappresentare fuga, rifugio (Ernest Tubb, Bobby Bland), riflesso di una vita spesa nella mezzombra (DeFord Bailey, Charlie Feathers, Howlin’ Wolf), destino fin dalla tenera età (Hank Williams Jr). Eroi legati da un’infanzia e una giovinezza in cui la musica rappresenta sogno di libertà, o unica via d’uscita da un ambiente alieno, difficile o troppo conformista, oltre che irrinunciabile bisogno vitale, espressione di esperienze reali, fuga dalle origini, dalle radici o dalla mancanza di esse, fino a un ipotetico ritorno a casa in un grembo tanto idealizzato quanto inesistente.
I protagonisti dei racconti, colti in un punto qualunque a cavallo dell’incostante onda perpetua di quei simbolici e reali journeys and arrivals citati nel sottotitolo, non sono qui solo in quanto esponenti degli amori dell’autore (blues, rockabilly, country), ma nelle sue intenzioni rappresentano un circolo evolutivo esteso, un tracciato racchiudente lo spettro musicale popolare americano. Dagli appartenenti alla generazione che ha ispirato il rock ‘n’ roll, il soul, il country, a coloro che hanno unito influenze bianche e nere creando il rockabilly (“in molti sensi la forma più pura di rock ‘n’ roll”), da alcuni esponenti della corrente outlaw, allergici all’industria del country di Nashville e nutriti direttamente alla fonte (di Jimmie Rodgers, Hank Williams, Bob Wills, Ernest Tubb, Lefty Frizzell… e quindi anche ai piedi della tradizione nera), al ritorno intrinseco al suo primo amore, il blues, qui incastrato in uno dei suoi periodi (anni Settanta) più silenti e impopolari.

Altro tratto comune in queste storie, attribuibile quanto si vuole alla visione dell’autore (“S’impara velocemente che chiunque sia l’intervistato […] potrebbe esser ritratto nel modo esattamente contrario con le medesime informazioni”), è che c’è poca gloria e molta amarezza, anche o soprattutto per chi la gloria l’ha raggiunta. Pur nei resoconti di successo, o di esplosione d’orgoglio e di fiducia, prevale il rovescio della medaglia, la caducità, l’aspetto cupo, il disincanto, il moto di ritorno alla quotidianità, alla disillusione, alla lotta, al tedio, poco conta se solo un’ora prima si era sul tetto del mondo.
Al di là della pienamente condivisibile lettura di Guralnick, di tutto si può dire di questi racconti se non che non siano realistici: scrivere e interpretare episodi o interi capitoli di musica splendida non corrisponde a una vita altrettanto splendida. Corrisponde piuttosto a una vita vissuta fino in fondo, nuda, fragile ed esposta, la stessa vita che trapela dalle migliori canzoni, e corrisponde al duro lavoro che comporta non tanto il cavar fuori la melma di quelle esperienze e metterle in parole e musica, quanto la difficoltà di relazionarsi con sé e gli altri su un livello emotivo al limite della rottura, dell’estraniamento, dell’incomprensione, della solitudine, dello sfruttamento, del rifiuto, dell’inganno, la sopravvivenza alla pressione dei voleri e delle aspettative altrui e all’irrazionalità e ai capricci di un mondo pronto a elevarti in vetta e un attimo dopo assistere con indifferenza, se non con gusto, alla caduta rovinosa.

Ciò che più mi ha fortemente colpito incontrando tutti i vari soggetti di questo libro non sono state tanto le vicende della loro vita – in ciò non sono molto diversi da chiunque altro – quanto il modo in cui la ricerca del successo ha seriamente e inevitabilmente distorto il fulcro del loro essere, così come la musica stessa. (3)

Abbiamo il Texas Troubadour, Ernest Tubb, qui leggenda vivente di sessantatré anni, ex venditore di birra cresciuto con il lavoro nei campi insieme ai neri e con i dischi di Bessie Smith e, come molti, emulo di Jimmie Rodgers. Stella del Grand Ole Opry dal 1943, padre della musica honky tonk e patriarca di un intero clan texano che conduce direttamente a Waylon Jennings e Willie Nelson, come un John Wayne con la chitarra al posto del fucile incarnava valori classici come lealtà, stoicismo, onore, tra gli ultimi della sua specie, forte della sua fedeltà, del tutto ricambiata, con i fan.
L’occasione è durante un Midnight Jamboree, live broadcasting organizzato nel suo negozio di dischi dopo l’Opry del sabato sera, durante un ennesimo tour sul suo Silver Eagle personalizzato, quasi la sua casa, entrambi (lui e il bus) ancora attivi con duecentoventi spettacoli e quasi duecentomila km all’anno: “I think Ernest will die right in the back of that damn bus“, dice Jack Greene, ex sideman e lui stesso stella dell’Opry. (4)
Poco tempo per altro, se non per questioni spinose o tecniche, mentre Guralnick chiede come mai Tubb non si conceda un po’ di riposo. Forse per quel “vuoto che non si può riempire” (sono ancora parole di Greene), e per le decisioni dell’industria di Nashville, negli anni Settanta in piena “schizofrenia culturale” e in rifiuto del venerabile passato, interessata a un mercato crossover (con il cosiddetto countrypolitan) e impegnata nella dismissione di grandi figure tradizionali come, oltre a Tubb, Roy Acuff e Bill Monroe (“almeno, con un po’ di imbarazzo”, dice l’autore), mentre MCA (ex-Decca), la sua etichetta di sempre, scarica uno dopo l’altro gli artisti non al passo. Cosa rimane se non la strada?

Oppure il piccolo grande canadese Hank Snow, che preferisce isolarsi nel suo modesto ranch nei sobborghi di Nashville piuttosto che sguazzare nella “atmosfera da Disneyworld” (Guralnick) della Music City. Altro erede di Rodgers, legato a filo con Tubb, ebbe un’infanzia spezzata e un’adolescenza come mozzo nella Marina mercantile. Maltrattato dal padrigno, iniziato alla musica dalla madre, solo dopo una lunga gavetta ha scritto il suo nome, pur da straniero, nel firmamento della musica country.
Personaggio dimenticato è DeFord Bailey, stella all’Opry quando ancora era WSM Barn Dance. Soprannominato Harmonica Wizard, fu proprio la sua perfetta imitazione della corsa del treno sull’armonica a ispirare il cambio di nome del grande intrattenimento radiofonico quando George D. Hay, The Solemn Ol’ Judge, presentò lo show di Bailey (Pan-American Blues) e il Barn Dance una notte di dicembre del 1927.
“No place in the classics for realism”, disse Hay, in riferimento e in contrapposizione all’ora precedente in cui era andata in onda musica classica, “musica proveniente per la maggior parte dalla Grand Opera”: da quel momento ci sarebbe stato il Grand Ole Opry: “Nothing but realism, down to earth for the earthy”. Nient’altro che pura realtà, nella fattispecie i suoni che avevano accompagnato DeFord bambino sulla sua strada quotidiana per la scuola.
Negli anni Trenta DeFord andava in tour con musicisti allora poco conosciuti come Roy Acuff e Bill Monroe, e la stella era proprio lui: strano immaginarlo oggi ma anche solo qualche anno dopo, quando divenne troppo evidente l’anomalia del suo essere nero nel cuore della country music. L’Opry dei primi tempi era come una religione, non una professione, ma poi la cosa si fece seria e le frequentissime trasmissioni di Bailey diminuirono sempre più, esaurendosi nel 1941. Nell’epoca del blues revival degli anni Sessanta ebbe diverse offerte per riapparire sulla scena, ma lui rifiutò.

Ci sono anche le storie di Rufus Thomas, alle basi del soul di Memphis, del leggendario e influente primo chitarrista di Elvis, Scotty Moore, di Elvis stesso (Guralnick ha in seguito dedicato due volumi a The King), e di altri hillbillies dalla minor fama, ma destinati a scrivere a caratteri indelebili la loro parte in un irripetibile periodo musicale, come Sleepy LaBeef, baritono del rockabilly dal repertorio infinito, (5) Charlie Rich, ex alcolista e uno che ha conosciuto le trappole del successo, e Charlie Feathers, “sometime ambulance driver, stock car racer, semi-pro ballplayer, shuffleboard hustler, and rockabilly legend”, impegnato a esibirsi per una fauna pittoresca in un Hilltop Lounge in un tipico sabato sera della tipica periferia di una grande città (Memphis), ancora nella parte pur con i capelli bianchi, pettinati alla D.A. (6) Non uno arrivato in vetta, ma uno che vide nascere il rock ‘n’ roll, che fu alla Sun Records con Elvis, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e gli altri, che nacque nel tempo e nel posto giusti (Holly Springs, Mississippi) per esser allievo di Junior Kimbrough: ce n’è abbastanza da giustificare la propria esistenza.
Abbiamo inoltre ‘Cowboy’ Jack Clement, nella cui casa / studio di registrazione in Belmont Avenue a Nashville hanno gravitato in molti (da Johnny Cash a Townes Van Zandt); personaggio eccentrico, songwriter, cantante, chitarrista steel, produttore e tecnico del suono (anche alla Sun Records), talent scout (scoprì J.L. Lewis), ex Marine, e Mickey Gilley, schiacciato dalla preponderanza dei suoi cugini Jerry Lee Lewis e Jimmy Lee Swaggart (ingombrante e ingannevole predicatore che dal successo cadde in rovina) – da ragazzi tutti e tre pianisti con il boogie nelle vene e sempre insieme come fratelli a Ferriday, Louisiana – e per gran parte della sua vita adulta impegnato a non sembrare un imitatore di Jerry. Come se fosse possibile scrollarsi di dosso la familiarità, la musica con cui si è cresciuti. Suo l’immenso Gilley’s Club a Pasadena, Texas, the world’s largest honky-tonk, con attrazioni da luna park, compreso il toro meccanico immortalato nel film Urban Cowboy (non solo il toro, tutto il film gira attorno al locale).

Per il country contemporaneo (rispetto all’epoca del libro) c’è Merle Haggard, esponente con Buck Owens della corrente californiana – anche se per poco non nacque a Muskogee, Oklahoma, area di hard hat (7) con cui è sempre stato connesso. Cresciuto accanto alla linea Southern Pacific in un vagone frigorifero convertito in abitazione, rimasto presto orfano di padre, ragazzino salta su e giù dai treni, lavora, e la chitarra l’unica cosa di cui gli importa. A quattordici anni è in una casa per minori, in seguito è arrestato diverse volte per piccoli reati, a sedici è invitato sul palco dal suo idolo Lefty Frizzell, a diciassette è sposato, a venti è a San Quentin, dove diventa uomo e deve decidere se continuare con il crimine o con la musica. Ma basta ascoltare Mama Tried per tutto questo. Un outsider apparentemente altalenante tra la ribellione della giovinezza e il populismo di Okie from Muskogee (We don’t smoke marijuana in Muskogee… detto da lui suona ironico), (8) brano che nel 1969 lo catapultò a nuova fama, al giro di inviti presidenziali e in mezzo alle cavalcate patriottiche dei politici e alle reazioni avverse alle contestazioni giovanili.
Poi Waylon Jennings, tra gli iniziatori del movimento outlaw, incontrato prima che diventasse superstar, James Talley, vero okie (Mehan, Stillwater), ma cresciuto ad Albuquerque, New Mexico, dal background atipico per un musicista country western (accademico, assistente sociale) – che nonostante entri nelle grazie del presidente Carter e di Rosalynn, che poi la coppia lo onori durante l’Inaugural Ball del gennaio 1977 fermandosi a parlare con lui (tra fotografi impazziti che non sanno chi diavolo è) e che sia anche invitato due volte alla Casa Bianca, subito dopo riprende la vita di sempre – e Hank Williams Jr, sulla strada dall’età di otto anni, in lunga lotta con la sacralità del padre (“It didn’t really matter what I did, they didn’t really care. I could have gone out there and burped and still got a standing ovation…”), con lo stesso suo destino (pillole e alcool, inevitabile se ti è offerto da bere fin da bambino) e con eccessive attenzioni (“I had the best teachers in the business. Hell, everyone wanted to teach Hank Williams Jr a chord…”), fino a un incidente che lo aiuterà a uscire dal vicolo cieco.

Una storia poco raccontata è quella di Stoney Edwards, okie di Seminole trasferitosi in California. La sua Blackbird (scritta dal produttore Chip Taylor) causò indignazione e fu bandita da molte stazioni radio per l’offensivo “niggers”. Chi non lo conosceva non immaginava che dietro quel vibrato alla Haggard e l’accento da cowboy dell’Oklahoma c’era un nero, e che il suo messaggio incompreso era d’orgoglio razziale – era lui il “blackbird”: Hold your head high, blackbird / Sing your pretty song / Don’t let no scarecrows chase you down. Un’infanzia senza affetti né riferimenti, senza sapere nemmeno a quale popolo appartenesse, privato della scuola, costretto a badare ai fratelli più piccoli e destinato all’attività illegale di bootlegger per tradizione familiare. C’è però la musica, di Bob Wills, di Hank, di Lefty. La sua prima chitarra è fatta con un secchio e del filo, e compone canzoni, pur da analfabeta, canzoni belle e semplici; non parla mai d’amore perché non sa cos’è, ma sa raccontare storie.
Un giorno, al lavoro, rimane intrappolato dentro una cisterna sigillata subendo una grave intossicazione di anidride carbonica che non lo uccide, ma gli fa passare due anni in uno stato di quasi coma e seminfermità mentale. Poi si riprende e subito dopo, d’improvviso, arrivano le incisioni Capitol, i cui vertici sono interessati al colore della pelle più che al materiale, perché nello stesso periodo un altro country singer nero sta causando sensazione, Charley Pride (più commerciale rispetto ad Edwards, e non autore).

Il libro si conclude con la potenza delle performance dal vivo di Howlin’ Wolf, che non si ferma neppure dopo l’incidente stradale che gli causa danni ai reni, in ogni città costretto alla ricerca di un ospedale per sottoporsi a dialisi, la triste fine di Otis Spann, la storia di Sam Phillips, lo stato del blues di Chicago nel 1977 (tra cui Jimmy Johnson).
Il linguaggio di Guralnick è a fuoco e scorrevole, e arricchisce la conoscenza dell’inglese americano parlato. Nonostante a volte l’approccio sia ripetitivo e prevedibile dato l’uso del medesimo ordine narrativo per ogni personaggio, l’autore è bravo nell’introdurre il clima e l’ambiente, prima del protagonista. Rinuncia alla cronistoria biografica, usa dei flash-back e ci presenta il soggetto adulto in un momento qualsiasi, svelando tanto senza troppi dettagli: sono pezzi di un mosaico che non inizia e non si conclude, non ritratti definitivi, ma resi nell’evidenza di quel momento e di quello sguardo, alla luce di una quotidianità quasi mai soddisfacente.
Sono storie di cowboys, di rockabillies, di bluesmen, di visioni musicali ed esistenziali, di un’America rurale e di periferia, e dei suoi roadhouse, honky-tonk, truckstop, juke-joint, ballroom, frequentati da gente che vuole solo dimenticare ciò che ha fatto durante il giorno e non pensare a quello che dovrà fare l’indomani.
Caos, performance non riuscite, pubblico scarso o disinteressato, attese, routine, bandmate tristi e insoddisfatti, isterismi dell’entourage, rassegnazione, debolezze, contraddizioni, problemi. Dal Las Vegas Strip (9) agli sperduti e familiari hole in the wall. Contrapposizione di alti e bassi, di successi e vili disattese, in cui la musica si mostra come alleato di vita, e unica vita possibile.


  1. In realtà all’epoca della stesura del libro Wolf era già morto, ma il racconto fa riferimenti alle volte in cui l’autore l’ha incontrato e visto in concerto. Otis Spann, invece, molto malato e irriconoscibile, fu visitato da Guralnick solo una settimana prima della sua scomparsa.[]
  2. Pag. 4 del testo.[]
  3. Ivi, pag. 5.[]
  4. Ernest Tubb morirà pochi anni dopo in ospedale, sofferente di un enfisema che non gli aveva impedito di continuare a girare in tour con una bombola di ossigeno.[]
  5. Aggiornamento: Thomas Paulsley LaBeff è passato a miglior vita il 26 dic. 2019, a 84 anni.[]
  6. Duck’s Ass, la pettinatura maschile di moda negli anni 1950: vista da dietro pare appunto il didietro di un’anatra.[]
  7. Così detti i conservatori della working class, o maggioranza silenziosa.[]
  8. We don’t burn no draft cards… We still wave Old Glory, e via così, tutti slogan “anti-hippie”. In realtà è un luogo comune credere che la working class sostenesse le scelte governative, e in ogni caso il brano non fu certo schifato dalla controcultura, v. ad es. i Grateful Dead che ne fecero una versione (non furono i soli); anzi, in un certo senso lo poterono o lo vollero leggere proprio su base ironica, nonostante l’intenzione di Haggard fosse invece davvero accusatoria verso le proteste giovanili.[]
  9. Lo show a Las Vegas come simbolo di successo e allo stesso tempo di decadenza e compromesso.[]
Scritto da Sugarbluz // 28 Maggio 2016
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