Amiri Baraka – Il popolo del blues

Sociologia degli afroamericani attraverso il jazz
Casa Editrice: Shake Edizioni, Milano, 1994
Edizione originale: LeRoi Jones, Blues People. The Negro Experience in White America and the Music That Developed from It, Morrow & C. Inc., 1963
Edizione aggiornata: Prefazione all'edizione italiana di Amiri Baraka, Shake Edizioni, Milano, 2007
Traduzione: Carlo Antonelli e Raf Valvola Scelsi (testo), Chiara Masini (prefazione)
Libro di Amiri Baraka, Il Popolo del Blues

Lo scopo principale di questo testo è l’analisi dei vari stadi nel percorso del nero da africano ad americano, e dalla schiavitù alla cittadinanza, attraverso la musica a lui più intimamente legata: il blues, il jazz e, in epoca schiavista, i canti di lavoro e quelli religiosi.
Il peso dell’espressione blues nell’anima dei suoi creatori si è alterato, o riposizionato, nel passaggio da schiavo africano a nero americano, differendo radicalmente e segnalando all’esterno i cambiamenti delle reazioni all’America.
Sono questi cambiamenti il materiale oggettivo del libro di Amiri Baraka (all’anagrafe LeRoi Jones), analizzati con metodo sociologico e antropologico il cui tramite, la musica afroamericana, è l’elemento scatenante non solo in quanto creazione nero-americana, ma anche quello in cui leggervi più chiaramente tali cambiamenti.
In un breve excursus storico l’autore arriva ove più gli preme: il particolare momento in cui emerse il nero americano (1) e le “strane vie sotterranee” che ne hanno formato le linee ereditarie e gli atteggiamenti. Per Baraka, l’origine del blues rappresenta soprattutto questo momento.
È come se il blues fosse l’atto di nascita ufficiale dei neri americani, in quanto persone che accettano l’idea di far parte di un Paese, e le cui reazioni-relazioni dell’intera esperienza sono espresse nella lingua di quel Paese, l’inglese, sia pure in una forma gergale con trucchi e ambiguità, ma mezzo formale per tramandare quel vissuto.

A caratterizzare la singolare sorte dello schiavo africano in America furono principalmente la condizione di non-umanità e la sua totale estraneità al Nuovo Mondo, mondo con un tipo di cultura e società in profonda antitesi con la sua propria concezione di vita, fatto quest’ultimo ritenuto dall’autore come il più estraniante e il più doloroso, capace di amplificare la condizione di schiavitù e di cambiarne, come mai avvenuto prima, ogni aspetto già di per sé negativo. Questi due importanti fattori fissano fin dal principio la posizione dell’africano nella società americana, ma anche dell’ex-schiavo e dell’afroamericano.
Baraka analizza il processo di occidentalizzazione e di acculturazione degli africani negli Stati Uniti, processo più veloce di quello che avvenne in luoghi come Haiti, Brasile, Cuba, Guiana, dove tanti africanismi sono sopravvissuti. Negli Stati Uniti dopo solo poche generazioni nacque un individuo quasi completamente differente, il nero americano, e quasi ogni aspetto materiale della cultura africana assunse forme marginali o si estinse del tutto: soltanto la religione (o magia) e le arti non furono completamente sommerse dai concetti euro-americani.
Nella prima parte l’autore analizza come il blues, il jazz e l’adattamento del nero alla religione cristiana si collegano alla cultura africana, in capitoli che a grandi linee esaminano la musica degli schiavi, l’interpretazione delle esperienze, l’indottrinamento cristiano e la religione afro-cristiana, (2) le superstizioni, la post-schiavitù fino alle origini del blues, musicalmente derivato soprattutto dallo shout e dallo spiritual.

In campo sociale e quindi musicale la fine della schiavitù fu determinante, con dirette conseguenze quali il mutamento dei modelli linguistici, la fine dell’egemonia della chiesa cristiana sull’organizzazione del tempo libero, la libertà di condurre la vita secondo i propri criteri e la nuova libertà di movimento, non solo in cerca di lavoro ma anche per necessità di vagabondare al fine di scoprire ciò che c’era oltre i confini della piantagione, insieme all’impellente bisogno di denaro, aspetto del tutto sconosciuto in schiavitù. Nonostante i legami che lo univano alle vicende storico-culturali della massa degli afroamericani, il blues diventò l’espressione più evidente dell’individualità, della vita e della storia personale all’interno della società americana.
Dalla narrazione si evince un ritratto del tessuto sociale, storico e umano che diede vita a diverse forme musicali, sempre legate e condizionate, quando non direttamente scaturite, dal tempo in cui sono nate, e dai cambiamenti in esso contenuti. Insieme al racconto della nascita e dello sviluppo della musica afroamericana nelle sue svariate espressioni, riunite sotto un’unica grande intenzione chiamata Blues, viene quindi esaminato il come e il perché, e la diversa importanza che ebbero eventi epocali come la Guerra Civile, la fine della schiavitù, il trasferimento di massa nelle città del Nord, le due guerre mondiali, la Grande Depressione: eventi che hanno cambiato e completato la visione dell’America, condizionandone quindi anche il decorso musicale.

Non meno importanti sul piano della coscienza nera furono le situazioni territoriali e locali, e non solo la visione e la distorsione della società bianca nei confronti della cultura afroamericana, ma anche i condizionamenti della borghesia nera (nata soprattutto dai predicatori di città), il “Rinascimento nero”, e quanto e perché il country blues tradizionale sia rimasto per molto tempo incomprensibile al bianco, a differenza del classic blues (3) e del jazz, che hanno inconsapevolmente fornito elementi e mezzi interpretativi tra le diverse caste sociali, tra sottocultura e cultura mainstream.
Le divisioni e le caste erano naturalmente non solo fra bianchi e neri, ma anche interne a entrambe le società, in quella nera con separazioni già presenti in epoca schiavista tra “negro dei campi” e “negro di casa”, tra creoli, mulatti, neri, schiavi, affrancati, Downtown e Uptown a New Orleans, poi tra cittadino e campagnolo, tra il borghese educato desideroso di frequentare gli stessi luoghi e perseguire gli stessi obiettivi dei bianchi e l’operaio analfabeta frequentatore dei rent party.
Se ci fu una sorta di comprensione e “riconoscimento culturale” da parte dei bianchi e degli stessi neri borghesi, e una spinta all’emancipazione, fu proprio grazie agli sviluppi della sottocultura attraverso le sue forme musicali più genuine ed espressive, nonostante il rifiuto di esse da una parte (borghesia nera) e l’imitazione dall’altra (bianchi americani), involontariamente riuscendo in quell’intento di integrazione da sempre perseguito dalla borghesia nera (scimmiottante la cultura mainstream), anche se questo riconoscimento rimase solo teorico, dato che, nell’epoca del boom del jazz e dello swing (anni 1920/1940, appena cioè i colleghi bianchi appresero la lezione), per i lavori fissi o meglio pagati i musicisti bianchi erano preferiti ai neri.
Il blues che più s’ispirava alla tradizione, invece, compresa la variante urbana e quello suonato dalle big band del South West con i grandi shouter, rimase underground e quindi fondamentalmente nero e senza concorrenza bianca; ciò permise un’autentica continuità, un’esclusività, grazie soprattutto alla diffusione dei dischi (4) e della radio: chi faceva quella musica viveva nel ghetto come il suo pubblico. Le grandi case discografiche, disinteressate al blues, dopo la guerra persero il controllo del settore race e quindi nacquero tante indie, altro fattore che determinò il continuum del blues.

Il libro scandaglia in modo appropriato il punto di vista sociologico, meno il punto di vista strettamente musicale – del resto il titolo richiama proprio alla “gente” – lasciando poi fuori, forse anche a causa dell’epoca in cui è stato scritto, i modelli sudisti di integrazione artistica come quelli avvenuti a Memphis, e che successivamente avrebbero meritato il punto di vista dell’autore.
Il blues quindi è trattato come tramite, come aspetto imprescindibile della musica nera e componente essenziale della creazione significativa, in senso omni-comprensivo, non come genere musicale, in finale focalizzandosi piuttosto sulla musica di cui l’autore è appassionato, il jazz, in particolare il bebop.
Baraka lega insieme le contraddizioni e le utopie, i sogni e le speranze, gli elementi storico/sociali e le vicende umane e artistiche, e per ogni nuova evoluzione musicale nera rende il substrato che ne vide lo sviluppo e il successo, dando una visione realistica del vissuto culturale e umano del “popolo del blues”, visione in apparenza impercettibile e sottile, ma in realtà forte e chiaramente scritta nelle testimonianze musicali del popolo afroamericano.


  1. Nel testo, scritto nel 1963, Baraka usa il termine “nero americano”. Attualmente negli Stati Uniti la definizione ritenuta più corretta è “africano americano”.[]
  2. “Lo spirito non discenderà senza canti” è un detto africano che fu del tutto incorporato nel culto afro-cristiano.[]
  3. Il classic blues scandisce la nascita dell’esecutore di blues professionista con Bessie Smith.[]
  4. Dischi che non mostravano più la dicitura “race record” – collana spezzata dalla II Guerra ed etichetta non più gradita dai principali acquirenti, i neri – ma “rhythm & blues”.[]
Scritto da Sugarbluz // 2 Agosto 2010
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