Etta James – Tell Mama, The Complete Muscle Shoals Sessions

Tell Mama, The Muscle Shoals Sessions CD cover

Se penso a At Last come il prototipo delle incisioni che Etta James fece per Chess, ancor più riconosco in Tell Mama la canzone simbolo delle registrazioni Muscle Shoals.
Ponendo come esempio questi due capolavori, rappresentanti due diverse produzioni applicate con successo sulla stessa soul diva, in teoria si potrebbe riassumere l’essenza dell’artista, quella da conoscere in primis, se del caso quella da preferire o addirittura l’unica da considerare; due facce della stessa medaglia: l’indiscussa, potente balladeuse, e la verace interprete di soul e rhythm and blues.
Ho sempre creduto che Tell Mama fosse Etta James in persona, il suo nucleo, la parte più carnale, quella che meglio la rappresenta, lo stesso tessuto che ha dato origine alle sue confezioni migliori; ma forse è solo quella che io preferisco. Se però intendiamo Tell Mama non solo come canzone, ma appunto come simbolo di un intero universo, pur finito, cioè le registrazioni fine anni 1960 presso gli studi FAME di Muscle Shoals, allora l’affermazione di migliore può esser largamente condivisa. Difficile mettere in dubbio che questo disco sia non solo la vetta più soddisfacente raggiunta dalla cantante, ma anche uno dei migliori della sweet soul music.
Non a caso pure l’album di debutto Chess, uscito nel 1960 sulla sussidiaria Argo, guardando oltre le motivazioni commerciali, prendeva come titolo At Last!, simbolo di un romanticismo adatto più alle platee bianche che a quelle nere, che però Etta rendeva graffiante, realista, popolare.

Etta James & Sugar Pie DeSanto, In The Basement, 45 rpm record label

Da un lato è vero che gran parte dell’arte di Etta negli studi Chess si traspone in struggenti ballate, torch songs, down-tempo agghindati da orchestrazioni mainstream e da sviolinate alla Mantovani ammorbidenti canzoni che nel loro spirito sono, o sarebbero, profondamente soul, ma è altrettanto evidente che le stesse riescono comunque a far risaltare, nonostante gli arrangiamenti ariosi e l’ammiccamento al mercato pop, la loro natura di valenti prove d’autore, grazie anche alla devozione della cantante, al suo contralto roccioso, leggermente mascolino, e al fatto che si tratta di una signora produzione, anche se spesso e volentieri coercitiva.
E poi là non ci sono state solo le (comunque meravigliose) romanticherie di All I Could Do Was Cry, (1) torch-song che emozionò i presenti in studio, At Last, Trust in Me, My Dearest Darling, Sunday Kind of Love (richiesta di un amore rilassato e tranquillo come la domenica), Stormy Weather, Fool That I Am, These Foolish Things e così via, ma anche esaltanti, nude preghiere R&B tinte di boogie e rock ‘n’ roll prese a prestito dai gospel e dai giubilei, come la declamatoria, gioiosa Something’s Got a Hold on Me, in cui alla devozione per il divino si sostituisce quella per un uomo terreno, e la corale In the Basement in coppia con la tutto-pepe Sugar Pie DeSanto, oltre a piccanti composizioni dixoniane come le torride I Just Want to Make Love to You, sempre con l’orchestra di Riley Hampton, e Spoonful, duetto con Harvey Fuqua, voce dei Moonglows e suo boy-friend.

Ottimi, sempre da Chess, anche il vigoroso R&B ad alto potenziale Seven Day Fool, di Billy Davis (che bomba sarebbe stato con un organo al posto dei violini), lo stile Dinah Washington di One for My Baby (and One More for the Road), di due rimarchevoli compositori di Tin Pan Alley, Harold Arlen e Johnny Mercer (se dev’essere mainstream che sia del migliore), e il soul stile Stax I Prefer You.
Inoltre nell’album Rocks the House, live dei suoi anni Chess, la total singer si è potuta esprimere in libertà, e lo fa con irruenza e controllo, perfino quando in Baby What You Want Me to Do imita con la voce l’armonica; il solo neo è la registrazione un po’ cupa, non abbastanza però da coprire il fuoco di Etta e della band che l’accompagna. La calorosa performance si tenne al New Era Club di Nashville nel settembre del 1963, e l’atmosfera ricorda il Live at the Apollo di James Brown, soprattutto per l’incredibile partecipazione del pubblico che diventa ulteriore strumento e stimolo per la cantante.

Nata Jamesetta Hawkins il 25 gennaio 1938 a Los Angeles da una madre afroamericana appena quattordicenne, Dorothy Hawkins, e da un padre mai dichiaratosi tale, il venticinquenne emigrato italiano Rudolf Wanderone, non fu mai riconosciuta da quest’ultimo per una buona dose di menefreghismo mista a timor di discriminazione nell’America dei tempi che mal vedeva le coppie miste. Il padre diventa giocatore professionista di biliardo e adotta il nome di ruolo Minnesota Fats dopo il celebre film del 1961 Lo Spaccone, convinto che l’autore della novella si sia ispirato a lui per il personaggio dello sfidante di Paul Newman, e finanzia la madre di Etta a condizione che lei tenga nascosta la paternità.
Basta vedere qualche fotografia di Wanderone per rendersi conto dell’origine dell’incarnato chiaro della cantante, il fisico ben piantato e i tratti somatici non molto africani. Un’esistenza partita male quella di Jamesetta, con una madre troppo giovane che non si occupa di lei e un padre che l’abbandona.

Passa l’infanzia tra il coro gospel della St Paul Baptist Church della sua città, cominciando gli studi a solo cinque anni con il Prof. James Earle Hines, tutore musicale e reverendo noto nell’ambiente, e la vita di strada di cui Central Avenue è il polo mondano, tra sfruttatori, spacciatori, genitori adottivi e riformatorio.
A quattordici anni si rifugia a cantare i successi del momento e altri più datati in un coro formato con due sue compagne di scuola, le sorelle Mitchell (facendosi chiamare The Creolettes), e sognando i suoi idoli, soprattutto maschili, come Nat King Cole, e di lì a poco Little Richard, che agli inizi del 1955 stava esplodendo nel sud, anche se non ancora a livello nazionale.
Nell’autunno del 1954 a San Francisco (dove vive dal 1950 avendo raggiunto la madre naturale dopo la morte di quella adottiva, Mama Lu) la sedicenne Jamesetta, lead vocal nel trio con le sue amichette, canta a un provino chiesto a Johnny Otis, in città per un concerto al Fillmore. Il bandleader e talent-scout d’origine greca è impressionato dalla cantante, forse anche dalla sua sfrontatezza, e si sente pronto a cambiarle il nome e a lanciarla sul mercato con i capelli ossigenati.

Etta James promotional portrait, Modern Records, 1955
L.A., 1955. Ritratto promozionale Modern Records
(Photo by Michael Ochs Archives / Getty Images)

La canzone che Otis ascolta è un potenziale hit: un answer song al successo del re del doo-wop e rock ‘n’ roll Hank Ballard, l’ambiguo Work with Me, Annie, che le ragazze confezionano chiamandolo ancor più allusivamente Roll with Me Henry. Otis, a quei tempi in rotta con il boss di Duke/Peacock, Don ‘Deadric Malone’ Robey, non aspetta che Etta compi diciassette anni e, con le Mitchell al seguito (Abbye e Jean), la riporta nella nativa L.A. contro il parere della madre (Etta falsifica la firma sul permesso) in casa Bihari, Modern Records, per registrare. È il 25 novembre 1954, e la cantante non può ancora immaginare che sarebbe rimasta in carriera più di cinquant’anni e che sarebbe entrata nel Rock and Roll Hall of Fame.
Su questo asciutto R&B-rock si basa il suo debutto, con i musicisti di Otis a supportarla e il controcanto di Richard Berry, personaggio doo-wop famoso localmente che salva la canzone, casualmente passando da lì e vedendo che le cose non vanno, senza poi avere i crediti sul disco.
Il singolo (2) esce sul mercato natalizio intestato a Etta James & The Peaches e in febbraio raggiunge il primo posto delle classifiche R&B di Billboard rimanendoci per quasi cinque mesi, ma con titolo diverso, The Wallflower, perché i Bihari temono che i DJ possano rifiutarsi di annunciarla con il titolo originale, anche se poi il ritornello è quello; in seguito è rifatta più veloce come Dance with Me, Henry.
Il successo le porta un tour con Little Richard, ma anche esperienze troppo forti per una minorenne, pur biondo platino: soprattutto le instilla l’abitudine all’eroina. Va in tour anche con Clifton Chenier e Johnny ‘Guitar’ Watson, e quest’ultimo l’influenza profondamente: abbiamo materiale sufficiente per sospettare quanto Etta James cercasse, come guida ispirante, una figura maschile, e nella droga il riempitivo di un’attenzione familiare carente. Lavora anche con Little Willie John, Bill Doggett, Bo Diddley.
È però impossibile pensare che non avesse punti di riferimento femminili, soprattutto in un periodo in cui supreme interpreti come Billie Holiday, Sister Rosetta Tharpe e Dinah Washington scalano le classifiche imponendosi come modelli, molto diversi tra loro, ad adolescenti che come lei puntano al professionismo. È evidente già nel periodo Modern, in cui rifà due canzoni di Rosetta Tharpe, e più avanti con il disco Mistery Lady in cui interpreta canzoni della Holiday.

La storia presso Modern prosegue con l’inevitabile richiesta del seguito della saga di Henry. È messa allora sotto le ali del sassofonista direttore dell’orchestra di casa, Maxwell Davis, che come prima cosa fa sparire le Mitchell alias Peaches, insieme a molti dei musicisti presenti nella sessione di Otis sostituendoli con i suoi, mentre Richard Berry ricompare, stavolta con il nome sull’etichetta, portandosi le sue coriste, Dreamers, con il compito d’intonare qualche a-uh a-uh nel seguito, Hey Henry, stavolta innocente come una canzone Tin Pan Alley, scritta da un certo Frank Gallo.
La connessione con i Bihari e l’orchestra swing di Davis prosegue per tutto il decennio, ma solo sulla carta e con strascichi di registrazioni recuperate, perché di fatto dura solo quattro anni, senza più successi eclatanti a parte l’azzeccato jump Good Rockin’ Daddy di Richard Berry, con la dignità di un classico e credo il migliore con la casa losangelena, che continua a produrla sui nuovi marchi Crown e Kent Records.
Quello è il secondo top ten hit nel suo primo anno di carriera discografica, con le Dreamers a fare il loro dovere e Berry che, dopo qualche altro tentativo nell’ormai mitologica figura di Henry, torna a cantare con il suo gruppo vocale, continuando a scrivere canzoni per il marchio. Richard Berry entrerà poi negli annali rock ‘n’ roll per la paternità e l’incisione nel 1957 (Flip Records) di uno dei più famosi party song, quel Louie Louie diventato noto nella versione anni 1960 dei Kingsmen, calypso-rock ispirato ai ritmi jamaicani e cubani riproposto puntualmente come inno festaiolo in ogni angolo d’America, dai matrimoni ai balli studenteschi, come ben rappresentato nel memorabile Animal House, fatto uscire da un juke-box, intonato e ballato dai membri della scalcinata confraternita Delta.

Per Etta James è un susseguirsi di brani tra il discreto e il mediocre, stomp, jump, swing, rock ‘n’ roll, boogie, novelty, doo-wop, di cui un paio firmati dalla madre, da sempre appassionata di musica; abbozzi di un’epoca non destinati a rimanere nella memoria collettiva, piacevoli ma nulla più oggi, se non per il collezionista e il biografo.
Escono dal coro: Crazy Feeling, rappresentante quell’aspetto delle registrazioni Modern sfruttante la melodia gospel in ambito mondano e orchestrale, impiegato anche su altri artisti della Casa, così come Good Lookin’ rappresenta il ballo su ritmi jump, Shortnin’ Bread Rock, puro rock ‘n’ roll, Tough Lover, umido e veloce boogie rock (credo faccia parte del gruppo registrato a New Orleans), Market Place, jungle beat alternato allo swing, il buon gusto leggero di Come What May, che sfortunatamente per lei raggiunge la classifica solo nella versione quasi identica di Clyde McPhatter per Atlantic nell’estate 1958, How Big a Fool, anche in una versione a due voci, credo sempre la sua (l’ha riproposta Marcia Ball nel brillante Let Me Play with Your Poodle), You Know What I Mean, blues che non vuole sembrare blues, e il rifacimento boogie-swing di That’s All, di Rosetta Tharpe come Strange Things Happening, con le sembianze di un jubilee con finale blues.

Non valgono molto, almeno per la classifica, nemmeno i due viaggi organizzati nel 1956 e 1957 nello studio di Cosimo Matassa a New Orleans, dove Etta registra con l’apporto del raffinato baritono di Fuqua, artista Chess, anche se il cambio d’atmosfera, più impastata e calda di quella californiana, si sente e s’apprezza, con musicisti del calibro di Lee Allen e Earl Palmer; in alcuni di questi brani la coppia prende il nome di Betty & Dupree.
In ogni caso nel 2005 ci ha pensato la volenterosa Ace a mettere ordine in quello che sembrava un confuso buco temporale, infilando in due dischetti tutto il materiale californiano: quarantadue brani presentati cronologicamente, tra cui otto alt. take inediti, e un booklet di Tony Rounce (fonte biografica per questo testo). Strano inserimento è Be My Lovey Dovey, forse un demo, ma non cantato da lei, piuttosto da un’imitatrice con voce più sottile, forse una corista.

Etta James at Chess Records in Chicago between Phil Chess and Ralph Bass, 1960
Chicago 1960, studio Chess
Phil Chess, Etta James e Ralph Bass
(Photo by Michael Ochs Archives / Getty Images)

Spinta da Fuqua Etta entra in Chess nel 1959, firmando un primo contratto sulla sussidiaria Argo, per rimanerci ben diciassette anni con alti e bassi, privati e professionali. Per qualche anno va forte a Chicago, con il primo bel disco e vari successi (alcuni citati a inizio articolo) che la consacrano come regina crossover capace di soddisfare il lato commerciale senza scadere in qualità.
Dopo un periodo infruttuoso tra incoscienza, relazioni sbagliate e un arresto per assegni emessi su un conto svuotato dalla droga, Etta parcheggia con Leonard Chess davanti agli studi FAME nella sperduta Muscle Shoals, Alabama, pronta ad affidarsi al produttore Rick Hall nell’avamposto rurale di un mondo musicale tutto da scoprire. È l’agosto 1967, non ha ancora trent’anni ma non è più una novellina, ed è il luogo e il momento giusto per tentare un soul autentico per adulti, basta solo che tutto vada bene.

Per sapere cos’erano gli studi di Muscle Shoals e cosa hanno prodotto rimando, oltre al link su FAME, alla lettura dei capitoli dedicati da Peter Guralnick nel suo libro Sweet Soul Music; qui preferisco dire delle sessioni di Etta James (nel testo di Guralnick non se ne parla). Chess sa cos’hanno combinato con Aretha Franklin (gennaio 1967), anche se solo con un brano purtroppo più uno non finito, e spera che il “miracolo del sud” possa ripetersi con la sua cantante.
Riferendosi alle house band di organismi come Muscle Shoals e Stax si parla spesso di sezioni ritmiche, nonostante il contributo sia ben più che solo ritmico o accompagnatorio. In realtà questi organici – e nel soul sudista di quegli anni c’è il paradosso che le migliori backing band degli artisti neri sono di pelle bianca – hanno lo scopo di far risaltare il solista al massimo, privilegiando la ritmica e con il volume degli amplificatori costantemente basso. Sezioni compatte e malleabili all’unisono (v. fiati), nessun musicista a primeggiare se non l’artista per il quale forniscono la base, sempre pronte a ciò che è necessario e, nel caso non sappiano esattamente cosa, a cercare finché non lo trovano. C’è poi il fatto fondamentale che quei luoghi erano laboratori creativi capaci di fornire un prodotto finito, perché i musicisti in studio non erano solo strumentisti ma anche autori, arrangiatori e produttori.

FAME Studios, Muscle Shoals, Alabama

Probabilmente quando Etta vede i ragazzi campagnoli e stralunati con cui deve lavorare, bianchi amanti della musica nera, lei che è sempre vissuta nelle metropoli, capisce che può, o deve, abbandonare il fraseggio jazz usato a Chicago per lasciarsi andare a uno più spesso, più bluesy.
La seconda sezione ritmica di Muscle Shoals (detta “The Swampers”), la più nota, sta per mettersi in proprio inaugurando uno studio concorrente sempre nella stessa zona, a Sheffield, Alabama, il Muscle Shoals Sound, con un finanziamento di Jerry Wexler, vicecapo Atlantic non più in affari con Rick Hall, il quale allora tratta un accordo appunto con Leonard Chess che nel giro di un anno gli manda anche Irma Thomas e Laura Lee, ma tutto si ferma con la scomparsa di Chess nel 1969.
Qui però troviamo ancora i chitarristi Jimmy Johnson e Albert Jr Lowe, il batterista Roger Hawkins, il tastierista Dewey Lindon ‘Spooner’ Oldham, il bassista David Hood, il trombettista Gene ‘Bowlegs’ Miller a produrre, in un primo periodo di tre giorni, un soul intenso e coeso.
Sono inoltre presenti un coro femminile favoloso e una sezione di sassofoni che fornisce il retrogusto a tanti artisti FAME: Charles Chalmers, Aaron Varnell, James Mitchell, Floyd Newman (baritono). S’alternano poi George Davis alle tastiere, il pianista Marvell Thomas (figlio di Rufus, fratello di Carla), e gli organisti Carl Banks e Barry Beckett.
Tornano a registrare agli studi di Muscle Shoals altre due volte (dopo un paio Chess non va più, fidandosi di Rick Hall), e poi nel gennaio 1968 per completare l’album, dal quale sono estratti singoli che raggiungono le classifiche R&B rinnovando la carriera di Etta. Il vinile esce su Cadet nel 1968 con dodici canzoni dal suono più realistico di quello su questo CD, però la digitalizzazione dei master, uscita nel 2001, è completata da ben dieci bonus track tutt’altro che trascurabili, coprenti le quattro sessioni tra il 1967 e il 1968.

Etta James at Muscle Shoals studio, Al, 1967 ca
Muscle Shoals, Al., 1967 ca.
Etta James registra agli studi FAME
(Photo by House Of Fame LLC/Michael Ochs Archive/Getty Images)

Il disco parte al massimo con Tell Mama, visione femminile di Tell Daddy, già incisa dal grande soulman e artista Muscle Shoals Clarence Carter. La versione di Etta non è molto diversa e anche quella di Carter, dal baritono catramoso, è notevole, ma qua c’è più potenza; Rick Hall voleva che somigliasse a Save Me di Aretha. Approccio grintoso, superbo, totalmente ritmico, e offerta diretta: quello che canta lo sta dicendo davvero.
Suscita attenzione, e la band centra il punto con un basso intrusivo risalente a guizzi (forse Junior Lowe), mentre il bassista David Hood è al trombone; il brano è così famoso che è quasi superfluo parlarne, ma un po’ di stupore arriva ogni volta.
Fu inciso il 24 agosto 1967 e su 45 giri uscì in novembre, raggiungendo subito le classifiche R&B e pop.
Cantante forse meno profonda di Aretha Franklin, Etta James, ma versata al canto dinamico come le aveva insegnato il prof. Hines, fino a farlo diventare un suono vivo, come staccato da lei; meno carismatica e timbrica meno particolare, ma con un growl da paura, capace di salire alto e potente come un’onda marina e subito dopo sfaldarsi in tante piccole, distinte gocce, come contro uno scoglio.

Se Tell Mama è come un (benevolo) pugno nello stomaco, quello che era il suo B side, I’d Rather Go Blind, chiede solo di lasciarsi andare. Scritta da Bill Foster e Ellington ‘Fuggie’ Jordan, è la ballata primaria di Etta, bell’esempio di quel church soul sudista di cui Sam Cooke fu maestro, e spesso riuscito in compagini come quella di Muscle Shoals, che la registrò il 23 agosto.
La voce è ferma e potrebbe arrivare chissà dove, ma è scossa da un’emozione sommessa e quando arriva il topos (I would rather, I would rather go blind, boy / Than to see you walk away from me, child), pur non essendoci nessun distacco d’altezza o ritmico, ci si rende conto che il fulcro, il succo è tutto lì, che si ruota attorno a quell’idea, ed è davvero tanto dato che le si crede fino in fondo. I suoni di chitarra sono splendidi e tuttavia di primo acchito non ci si bada. Nonostante non sia accreditata anche alla cantante, pare che Etta partecipò alla scrittura insieme all’amico Ellington Jordan, mentre questi si trovava in prigione. Anche qui sembra non arrivare a stadi profondissimi, rimanendo leggermente distaccata, galleggiante, rassegnata. Diventerà uno standard ripreso da molti; tra quelle maschili bella è la versione di Clarence Carter che, tra l’altro, era davvero cieco, tra le femminili eccellente quella di Marcia Ball la quale, nonostante basi il suo stile pianistico sulla ritmica, è anche ottima interprete di ballate strappabrividi grazie al suo timbro fumoso (sto pensando al nobile rendimento della bellissima Louisiana 1927 di Randy Newman).
Peccato solo per la brevità di questi brani, ben sotto i tre minuti per motivi discografici: sul finale sono tutti sfumati. Sono schizzi senza sbavature attorno a un nucleo corposo su cui poi altri interpreti si dilungheranno senza però mai aggiungere niente di ugualmente significativo.

La tiratissima Watch Dog di Don Covay, altro artista M.S., è funky-soul della miglior specie. Rimbalza letteralmente, con organo ritmico e breve appunto di chitarra come di un illuminato rocker extraterrestre, mentre la lenta The Love of My Man che Ed Townsend scrisse per Theola Kilgore, cantante gospel californiana, è quasi blues ballad, e ancora lo spirito di Etta s’innalza, isolata dal mondo. Che voce, e che canto! Riadattata da quella dei Soul Stirrers, che però proclamavano The Love of God.
Non da meno I’m Gonna Take What He’s Got, riportante al tema e all’umore della I Never Loved a Man forgiata negli stessi studi dall’inarrivabile Aretha. Ancora di Don Covay, ha organo chiesastico di Oldham, chitarra, groove di basso, fiati celestiali ad accompagnare questo sublime, maturo canto d’angelo rifiutato dal paradiso e sceso in terra.
Il soul in stile Stax The Same Rope è accreditato a Leonard Caston, e benché Jr non sia specificato si tratta con tutta probabilità del figlio di ‘Baby Doo’, cantante gospel-soul e membro del gruppo vocale The Radiants. Notevole il nòcciolo soul della band, a cui basta un andamento costante e qualche riff ben piazzato per dare corpo e carattere come la cosa più naturale al mondo, e centrate anche le voci maschili in controcanto.
Security, uscito in altra versione come lato A di I’m Gonna Take What He’s Got, è un energico, elastico rendimento di Otis Redding. Registrato lo stesso giorno di I’d Rather Go Blind nella sessione di agosto, è pubblicato in marzo come secondo singolo tratto dal disco, e raggiunge la posizione n. 11 della classifica R&B.
Andiamo di nuovo sul lusso senza sfarzo, sulla ricchezza concentrata in poche note con Steal Away, ancora in stato di grazia tonante, incisivo e convincente, rendendo l’implorante, urgente richiesta con la band a servire gli appunti su un piatto d’argento. È del cantante gospel Jimmy Hughes, e nella sua versione fu il primo hit prodotto da FAME (per Atlantic), fissando il modello slow, e il secondo successo R&B di Muscle Shoals; il primo You Better Move On di Arthur Alexander, che permise a Rick Hall di costruire il nuovo studio.

Etta James at Muscle Shoals Studio, Al, 1967 ca
Muscle Shoals, Al (1967 ca), Marvell Thomas, Etta James e David Hood nello studio FAME (Photo by House of Fame LLC / Michael Ochs Archive / Getty Images)

My Mother in Law, pur essendo di portata minore (ricalca il ritmo R&B tipico della Casa senza apportarvi nulla di nuovo), mantiene la tensione del filo a cui l’ascoltatore è legato fin dal principio. Credo si trovi solo qui, cioè che non sia mai stata inserita in nessun’altra compilazione.
È lava che cola Don’t Lose Your Good Thing: più s’ascolta e più diventa bella. Attribuita solo a Rick Hall, ma anche dei non accreditati Bob Killen e Spooner Oldham, è una preghiera fremente in un tempio profano a due passi dal Tennessee River; la voce è scura, spessa, sicura, musica e coro come sempre aderenti, incisa poi anche da Jimmy Hughes.
It Hurts Me so Much è attribuita al sassofonista Charles Chalmers ed è un’altra decorosa ballata, infusa da uno spirito più drammatico, mentre Just a Little Bit, la canzone di Rosco Gordon e Jimmy McCracklin, ha un profondo funky groove minimalista che va a concludere benissimo il ciclo degli originali dell’album.
La qualità di queste sessioni si vede anche dai brani messi da parte.
Incipit d’organo e poi i versi di Do Right Woman, Do Right Man, vanto della coppia Dan Penn / Chips Moman; Aretha Franklin avrebbe dovuto fissarla in quegli studi e invece con Wexler la portò a New York, sotto forma di demo inciso da Dan Penn, per registrarla su Atlantic dopo che il marito litigò con Rick Hall alla fine di una giornata tempestosa. Sono suggestive entrambe le versioni, più grintosa questa di Etta.
You Took It è ancora uno schietto soul pulsante, tipicamente sull’asse Memphis / Macon / Muscle Shoals, I Worship the Ground You Walk On (continua con: Oh baby, don’t you walk on me!), equivalente del nostro “dovresti baciare dove cammino” senza condizionale e con inversione del soggetto, è un voluttuoso lento di Penn e Oldham, incontro piacevolissimo tra country e blues, nello stesso modo in cui l’incalzante I Got You Babe è l’eccellente cover della canzone di Sonny Bono.

È stupefacente la presenza al 101%, e la vicinanza della cantante a tutti i brani, calzati con una dizione chiara che rende l’ascoltatore più partecipe.
You Got It di Don Covay continua l’alternanza tra veloci e lenti, i due ritmi sui quali lo studio costruì il suo suono, e di nuovo abbiamo poteri soul, funk, R&B concentrati in un intento comune (che ritmica!), poi I’ve Gone Too Far, to turn around continua Etta, a rendere ancora avvincente l’ennesima ballata del cuore spezzato grazie al suo realismo pregnante, e il sinuoso sfondo della band.
Misty, classico del jazz vocale alla Ella Fitzgerald, di Erroll Garner e Johnny Burke, è l’anomala del gruppo, diversa dal soul pressante e compatto del resto del disco, ma la band non ha problemi neppure con le atmosfere rarefatte e lo swing, mentre Etta non ne ha a entrare nella parte di crooner fino a quando il suo growlin’ brunito, il suo ruggito da shouter, prende il sopravvento, con finale blues “come Ray Charles canterebbe”.
Si va in territorio country con Almost Persuaded, classico di Billy Sherrill e Glenn Sutton. È una ballata politically correct, ma riescono a essere dolci senza essere stucchevoli; da ascoltare e riascoltare. Si torna sul soul-R&B spinto e intrusivo con Fire, da Willie Dixon per Koko Taylor e qui stravolto a fin di bene; Etta si conferma autentica soul woman delle radici, dando insieme ai ragazzi una del tutto nuova veste al brano.
Queste registrazioni sono il sunto di una visione musicale ancorata a una vecchia esperienza, ma tramutata in qualcosa di nuovo, rivoluzionario, epocale, in altre parole eterno.

Negli anni a seguire Etta proseguì su una strada tortuosa e discontinua, spesso proponendo soul annacquato, rock commerciale, jazz di maniera, pop anni Ottanta, ma ogni tanto anche qualche altra interpretazione carnosa, come la insospettabilmente interessante Only Women Bleed di Alice Cooper, e due bei dischi dal vivo con i sassofoni di Eddie ‘Cleanhead’ Vinson e Red Holloway, l’Hammond di Jack McDuff e la chitarra del figlio di Johnny Otis, Shuggie, registrati nella sua California nel maggio 1986 al Marla’s Memory Lane Supper Club di Los Angeles. A eguagliare però il livello dei suoi tempi migliori c’è I’ve Been Lovin’ You Too Long, di Otis Redding e Jerry Butler, con il piano di Cedar Walton, interpretata con matura disillusione.
Come dice Tony Rounce (3) «Etta, a 68 anni [nel 2005, ndr] sta ancora facendo tournée e registrando dischi» dopo più di cinquant’anni d’attività, quando «la maggior parte di noi considera come massima fatica, dopo una giornata di lavoro, passeggiare fino al pub, giocare a freccette, bere un paio di birre».
Il passatempo è da inglese medio, ma non ha torto: Etta è della stessa stoffa di Ray Charles, B.B. King, Aretha, Tina Turner. Mentre scorre l’ultima, alternativa di Do Right Woman, Do Right Man, penso che questo disco è da considerare come un massimo piacere dopo una giornata qualsiasi. Una piccola ma non trascurabile porzione di felicità.

Aggiornamento: Da anni malata di leucemia, Etta James è scomparsa il 20 gennaio 2012 in un ospedale di Riverside, California.


  1. Suo primo successo Chess e primo ritorno in classifica R&B dopo il periodo Modern, a pochi mesi dall’assunzione in Argo, finendo per la prima volta anche in quella pop.[]
  2. Il retro era la melensa Hold Me, Squeeze Me.[]
  3. Nel libretto di Miss Etta James, The Complete Modern and Kent Recordings, Ace Records.[]
Scritto da Sugarbluz // 25 Giugno 2010
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2 risposte

  1. davide bruno ha detto:

    lavoro molto accurato
    complimenti
    Davide

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