Hubert Sumlin @ Circuito dei Club, Terni

I ain’t through yet! È la frase che Hubert Sumlin ama ripetere, stampata anche su una maglietta, come si vede nel video di Lightning in a Bottle. In effetti il chitarrista, classe 1931, è sopravvissuto a molte cose. L’ha scampata nel profondo sud e con successo a Chicago, l’ha scampata con Howlin’ Wolf, Muddy Waters, con l’asportazione di un polmone, e ha vinto con il blues.
Lui sa che il suo compito nella storia è concluso, che ha già versato nei solchi dei dischi e sui palcoscenici la sua inventiva in vent’anni assieme a Wolf, che è diventato leggenda e che l’equilibrio è raggiunto, ma sa anche d’essere un musicista con il compito di testimoniare, esser d’esempio, insegnare a tutti quelli che hanno la fortuna d’incontrarlo.
Dopo la scomparsa di Wolf era rimasto comprensibilmente spiazzato, ma poi è risorto. Ha ricominciato a suonare in giro, ha inciso dischi solisti e ora più che mai è richiesto ovunque, soprattutto dopo che il gotha della musica popolare americana gli ha formalmente riconosciuto il contributo nell’evoluzione del blues di Chicago, avendo posto negli anni 1950/1960 il suo marchio personale in composizioni oggi pietre miliari con uno stile sferzante alla base di un suono fibroso, energico, veloce e pulito ottenuto con il finger-picking, e influenzando una stirpe di chitarristi che, come Jimmy Page e Keith Richards, hanno sfruttato quelle frasi fino all’osso.

Una testimonianza di come affronta il blues, a volte anche solo con due dita ma con tanto cuore, l’ha fornita fin dal pomeriggio, quando s’è presentato per il soundcheck nell’Auditorium di Palazzo Primavera a Terni vestito di tutto punto, con cappello Fedora, scarpe lucide bianche e nere, cravatta con disegno di chitarra.
Rilassato e bonario, soddisfatto per la centratura offerta dalla band italiana, pare divertirsi nel sentire come suona ancora bene un classico come Hidden Charms dopo tanti anni a migliaia di chilometri di distanza, e a come gli scivola casuale dalle dita quasi involontariamente.
S’evidenzia da subito disponibilità con il prossimo, tanto quanto si riconoscono i suoi indimenticabili e calzanti riff; termine comodo, ma forse limitato se si pensa alle melodie e alle frasi caratterizzanti il blues viscerale di Wolf inventate dal chitarrista, instillate in modo adatto a rapportarsi con la grandeur del personaggio.
Wolf cambiò molto il modo di suonare di Hubert Sumlin da quando quest’ultimo arrivò a Chicago e s’unì alla sua band. Nella seconda parte dell’intervista video di Guitar Center’s King of the Blues, Sumlin racconta di come, davanti a un pubblico di settecento persone, Wolf lo mandò via a causa del plettro. Testualmente: Put that shit down, ripetendo in modo più ortodosso per farsi capire: Put that pick down, e consigliandogli di tornare solo quando avesse imparato a suonare usando solo le dita. Dapprima offeso e contrariato, Sumlin poi s’applicò alla tecnica e Wolf lo riprese; il resto è ancora storia.

Alla sera, cambiato il completo, tolto il cappello e infilate le pantofole del nonno, attende di salire sul palco, mentre Rocky Lawrence, chitarrista che usufruisce dell’amicizia e dell’esperienza di Hubert Sumlin, e già apprezzato dal pubblico locale per le sue sanguigne, acustiche riproposte di Robert Johnson, sta aprendo assieme alla rodata band ternana Fred Duna & The Full Optional (Michele Zacaglioni, voce e armonica, Riccardo Diomedi, chitarre, Alessandro Deflorio, piano, Daniele Ponteggia, contrabbasso, Tiziano Tetro, batteria) con la robusta Oh, Baby di Little Walter, seguita dalla lenta Early in the Morning, interpretate dalla bella voce di Zacaglioni.
Sullo strumentale Side Pocket di Fred Kaplan arriva Sumlin indossando la Stratocaster e unendosi nel portare a termine il brano, cominciando poi il suo set con una delicata e poetica Sittin’ on Top of the World, classico dei Mississippi Sheiks che anche Wolf amava.
La scaletta è improvvisata da Sumlin, lui inizia e gli altri lo seguono, non c’è nulla di preparato e alcuni brani non sono tra quelli più conosciuti. Il carattere estemporaneo s’accompagna al sapore della musica, della dolcezza e della gioia espresse da Hubert Sumlin: la comunicazione con il pubblico è instaurata e gli accompagnatori forniscono supporto alle sue stoccate metalliche, anche nel brano seguente, già suonato nelle sue esibizioni dal vivo negli anni 1990, ma non so se mai inciso. La parte strumentale sembra familiare, mentre la parte cantata è difficile da identificare; Sumlin non è propriamente un cantante (con Howlin’ Wolf non c’era certo bisogno di cantare) e preferisce dedicarsi alla parte suonata.
Canterà comunque (da programma avrebbe dovuto affiancarlo il chitarrista/cantante Buddy Flett, trattenuto in USA da problemi di salute), ma tagliando o modificando i testi.

Ancor più improvvisato è un guasto elettrico che mette fuori uso strumenti e microfoni. Questo che sembra un evento totalmente spiacevole diventa occasione per un diversivo apprezzabile, e fornisce il pretesto a Rocky Lawrence per un intermezzo acustico. Si siede a bordo palco e rievoca gli spiriti del pre-war blues eseguendo da solo con tono forte e screziato classici di RJ come Me & the Devil Blues, dove fa letteralmente bussare il diavolo alla porta con colpi sulla cassa della chitarra, e Phonograph Blues, materiale che Rocky tratta con dimestichezza, coerenza e approccio personale volto anche a considerare gli aspetti meno seri e sacri della musica di Johnson aggiungendo un pizzico d’ironia, componente presente nella musica del mito del blues, ma spesso sacrificata dagli interpreti moderni.
Hubert Sumlin continua a sorridere, rimane seduto in centro palco e non è disturbato perché, dice, “una volta in Mississippi si suonava sempre così”. Non lascia la chitarra elettrica, anzi a tratti ci “strimpella” sopra lo stesso. È incredibile come il suono della sua chitarra spenta non cada su se stesso, ma rotoli fin giù, mentre è circondato dalla band che s’unisce a Rocky con strumenti acustici (pianoforte, armonica, contrabbasso, chitarra e spazzole sul tamburo), per eseguire una ritmata e conviviale Last Time I Fool around with You di Muddy Waters, dove l’armonicista, nell’eseguire un solo, si lascia andare istintivamente a un battito di piedi tipo flamenco che ci sta a puntino, e Baby What You Want Me to Do di Jimmy Reed, dall’andamento pacato e old-style; Sumlin apprezza e si diverte.

Riparato il guasto il concerto riparte elettrico con le sonorità spigolose di Killin’ Floor, seguito da un breve strumentale dalla ritmica ancheggiante simile a Got the Blues, poi un lungo lento chicagoano (sembra You Can’t Change Me dal disco con Billy Branch) in cui trovano posto un convincente solo alla cromatica di Zacaglioni, uno carico di blues feeling dalla chitarra di Diomedi e uno dal piano di Deflorio altrettanto circostanziato e ben eseguito.
In questa fase Hubert Sumlin sta fermo a guardare come un padre orgoglioso dei suoi figli lontani, fino al finale quando, sollecitato da Rocky, s’alza ed esegue un solo a bordo palco, espressivo ed efficace come sempre, anche con poche note: è blues.
Musicalmente è difficile dire dove inizia Sumlin e finisce Wolf, essendosi i due influenzati a vicenda, inoltre sopravvive il gusto per una scansione ritmica latina, ma testualmente è ben evidente il lascito di Wolf. Avendogli il Lupo, infatti, cantato a fianco per tanti anni, gli ha passato espressioni, concetti, semplici interiezioni ricorrenti diventati parte del vocabolario di Sumlin.

Uno strumentale alla Chunky in cui Sumlin percuote e fa “chiocciare” le corde, le classiche dodici battute di Goodbye, un up-tempo sullo stile di Look Don’t Touch e un lento non identificato sono altri meno noti ma piacevoli episodi che conducono a due classici dixoniani dell’era Chess, The Little Red Rooster e 300 Pounds of Joy: la leggenda non solo è vivente, ma è una presenza vivace e palpabile, instancabile e corroborante per tutti.
Solo molto più tardi, dopo cena, verso le tre del mattino, comincerà a dare segni di stanchezza, a tratti ritirandosi e reclinando il capo, puntualmente destato dalle nostre (fastidiose) domande, a cui peraltro risponderà sempre gentilmente ed esaurientemente, peccato aver perso qualche passaggio.
Chiude con un boogie strumentale, When I Feel Better, presentato da Sumlin come il primo brano fatto sulla sua prima chitarra, acquistata dalla madre sacrificando la paga settimanale di otto dollari: aveva solo sei anni. L’episodio fu poi parte di una storica registrazione effettuata nel 1964 di là dalla cortina di ferro quando lui, Sunnyland Slim, Willie Dixon e Clifton James furono i primi musicisti blues a suonare nella Germania dell’Est (Berlino), trovandosi in Europa per l’American Folk Blues Festival, sessione che documenta anche la prima volta di Sumlin al canto.
Se ne va mentre la band conclude con uno shuffle strumentale ispirato a Juke, ma prima lancia un monito al pubblico: “Non sottovalutate le vostre band!”, concedendosi poi cordialmente ad autografi, foto e chiacchiere. Sarà anche stata una serata fuori copione, ma dentro al blues e a uno dei suoi miti.

Scritto da Sugarbluz // 14 Maggio 2010
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3 risposte

  1. Michele Zacaglioni ha detto:

    Grazie per la bellissima recensione e le foto. Rivedere questi momenti, descritti così bene, rende meno pesante una dura quotidianità, ma si sa i bluesman ogni tanto devono anche scarrozzare cotone!
    Grazie di nuovo!

  2. Sugarbluz ha detto:

    Hubert Sumlin se n’è andato domenica 4 dicembre 2011 in un ospedale del New Jersey.
    Spero che i tuoi amici in paradiso ti accolgano con una grande festa.

  3. Rocky Lawrence ha detto:

    What a fun night! I miss those guys in Terni, especially Riccardo Diomedi, great guitar player!

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