Lucerne Blues Festival, 14.11.2014

Kara Grainger Band / Jimmy Johnson and Sam Burckhardt with The Dave Specter Band / Otis Clay with special guest Johnny Rawls / The 44’s feat. Kirk Fletcher / Bonny B. / Sugaray Rayford & Band feat. Bob Corritore

Comincio forse in modo un po’ crudo il racconto della serata di venerdì di questo ventesimo Lucerne Blues Festival, considerando il set della pur onesta Kara Grainger Band come un insignificante antipasto occorso prima delle due uniche portate saporite che sono seguite, e si può già capire quali guardando il programma sopra riportato in ordine cronologico. Devo però anche aggiungere che, rispetto invece al “dolce” e al caffè finali, l’antipasto è stato comunque più digeribile, sia per la quasi totale mancanza di aspettativa che ha permesso di masticarlo a cuor leggero, sia perché la giovane cantante, chitarrista e autrice australiana mostra i suoi limiti interpretativi e compositivi con una certa grazia, motivo per cui vien spontaneo sperare che tutta quella “insostenibile leggerezza” un giorno possa essere sostanza.

Con una band composta da un tastierista/organista, John Thomas, un bassista, Spencer Wright, un batterista, Matty Alger, e mancante del fratello della titolare, il chitarrista/armonicista Mitch Grainger con cui ha esordito sui palcoscenici australiani molti anni fa, Kara ha iniziato con un classico soul/blues, Breaking up Somebody’s Home, evidenziando una voce abbastanza potente e graffiante, pur non particolare e un po’ nasale.
Ancora con chitarra elettrica, You’re the One mina la voglia di approfondire il suo songwriting, mentre più interessante si rivela Dreamed I Was the Devil di Charlie Terrell, ma lo spessore s’alza solo un po’ con l’omaggio a Jimmy Johnson So Many Roads (di Otis Rush, ma nel repertorio di JJ), che però soffre di una chitarra pressoché muta. Anche l’autografo Shut Down scorre con anonimia, come il pallido funky-soul Voodoo Woman, cresce invece l’approccio a Whipping Post, ma stiamo parlando di un pezzo di storia dei fratelli Allmann che sta in piedi anche da solo.
All’acustica amplificata e slide esegue almeno altri tre episodi autografi, Little Pack of Lies e il lento Holding On, che m’è parso il migliore anche come esecuzione, in medley con Sky Is Falling, altro momento che alza un po’ la media, mostrando un lato e un suono più espressivi e incisivi. Per l’encore esce il compagno di etichetta (Delta Groove) Kirk Fletcher, ospite nell’ultimo disco di Grainger, Shiver & Sigh, ad accompagnarla su Help Me, concludendo questo set che ha riservato poche emozioni e nessuna sorpresa.

The Dave Specter Band, formata dal chitarrista veterano di Chicago e artista Delmark Dave Specter, dal bassista Harlan Terson, dal batterista Marty Binder, e con ospite Sam Burckhardt, sassofonista svizzero naturalizzato a Chicago, apre con un paio di strumentali molto godibili, tra cui New West Side Stroll dall’ultimo lavoro di Specter, Message in Blue, disco di livello rispettabile e in linea con la sua discografia che l’ha sempre visto ospitare artisti solisti, in quest’ultimo caso Otis Clay e Brother John Kattke. Chitarrista dalle molte influenze e dal discreto gusto, nei suoi dieci dischi non ha mai cantato, ma s’è avvalso appunto della collaborazione di molti cantanti, non solo della scena blues e soul di Chicago, ai quali ha sempre offerto buone produzioni.

Specter è tornato la terza volta a Lucerna per accompagnare Jimmy Johnson (James Earl Thompson), mississippiano emigrato a Chicago nel 1950 ma avvicinatosi tardivamente alla chitarra e alle registrazioni, le prime blues uscite su LP a suo nome alla fine degli anni 1970 per MCM dei coniugi Morgantini, dopo un pugno di singoli negli anni Sessanta di funky/soul. È bene ricordare che a metà anni Settanta fu il chitarrista ritmico di Jimmy Dawkins e Otis Rush, e che è parte di una famiglia di talenti essendo fratello maggiore del cantante soul Syl Johnson e di Mack Thompson, bassista di Magic Sam che ha lasciato esemplari ricordi visivi nei filmati dell’American Folk Blues Festival.
Una scaletta con pochi titoli date le ottantasei primavere, ma tutti soddisfacenti e almeno un paio diluiti con sapienza dentro una situazione e una dinamica, quella live, da sempre conveniente a Johnson, potendo parlare di ambiente a lui ideale. Little by Little apre al tocco sciolto, raffinato e leggero sull’inseparabile Paul Reed Smith, e a un canto ancora tonico e vibrante, tutto di nuovo più evidente nel rendimento senza sbavature, e pure pressante, di Feel so Bad, già di Little Milton: buone vibrazioni che paiono portar con sé la stessa saggezza ottuagenaria di chi le emana.
Ma non è niente ancora, perché per il classico di Jessie Mae Robinson Cold, Cold Feeling si può addirittura gridare al miracolo sentendo come condisce blues, soul, gospel, e come si destreggia con garbo tra voce e chitarra in questo lungo episodio che concede spazio anche ai solismi di Burckhardt e Specter, entrambi piuttosto bollenti. Del resto quel sentimento di “ghiaccio attorno al cuore” non può che scottare.
Peccato che invece Specter, in generale, remi contro. Il suo volume eccessivo e una certa spinta rigida in avanti sono in antitesi con il suono elegante e la rilassatezza di Johnson; abbastanza incomprensibile data l’esperienza di Specter come accompagnatore.

Momento speciale è la ballata soul End of the Rainbow di McKinley Mitchell, punto focale di un crescendo che accompagna verso il finale del set ruotando attorno al canto sincero carico di soul e al picking frizzante e imprevedibile, e con a sua volta un epilogo coinvolgente sulla ripetizione di I’m going, going, going back home (mi sarebbe piaciuto sentir reiterare questa frase dalle coriste di Otis Clay), mentre par di vederlo lasciarsi alle spalle l’illusorio arcobaleno alla base del quale non c’è nessun tesoro.
Altri due episodi grandiosi, purtroppo gli ultimi, arrivano con You Don’t Know What Love Is di Fenton Robinson, con bel lavoro del fido Burckhardt e aggiunta di un organista (credo lo stesso di Kara Grainger, ma dalla mia parte non lo vedevo bene) in questo trionfo di soul e blues dal piacevole tocco funky e tono croccante di chitarra, fino alla lunga, splendida escursione di Chicken Head dal carattere funky/rap e dall’anima soul/blues, meraviglia irresistibile per tono e ritmo di un maestro del genere, Bobby Rush: bel tuffo negli anni Settanta.
Il ritorno per il bis è più banale con la celeberrima Dust My Broom, inno chicagoano per eccellenza lasciato soprattutto nelle mani dei suoi accompagnatori. Un set soddisfacente condotto con flessuosità dall’originale “bar room preacher” in persona, non ancora pronto ad attaccare la chitarra al chiodo.

Prima di avviare la discografia solista alla fine degli anni Novanta (e purtroppo proprio con sonorità anni Novanta) come cantante e chitarrista, Johnny Rawls ha lavorato dietro molti artisti soul-blues, e soprattutto dirigendo la band di O.V. Wright dalla metà degli anni Settanta e oltre la scomparsa del grande soulman (1980) per altri tredici anni.
Esordisce da solo, band già schierata, con Red Cadillac, inno alla Memphis dei bei tempi, ma è con la divertente Yes che cattura il pubblico, tanto che siamo tutti con lui a dire “yes! yes! yes! yes!”, la risposta che riserva a ogni desiderio della sua baby. Sulla chitarra un adesivo con esplicito divieto di Mustang Sally mi conferma l’impressione che ebbi negli States come di una canzone molto eseguita dal vivo dopo che la sentii per la terza volta in quindici giorni in tre diverse città (Dallas, Port Arthur e New Orleans).
Il clima è quindi a buon livello quando parte un classico di Bobby Bland, la luminosa Turn on Your Lovelight, che per la prima volta sento dal vivo e con l’approccio soul anni Sessanta, anticipante l’entrata di Otis Clay (1) con due coriste, Diana Simon e Theresa Davis, quest’ultima da anni con il cantante. Così ora dietro ai due soul brothers l’ottima e tutta-nera band (molto meglio di quella nel disco Soul Brothers) arriva a otto elementi, con una sezione fiati formata da Daryl Thompson, Earnest Thomas e Orville Leon McFarland, rispettivamente tromba, sax tenore e trombone, Dedrick Blanchard, Hammond, Joseph Pratt, basso e Mark Clay, batteria.

Otis Clay, naturalizzato a Chicago nella radicata comunità gospel, ma stilisticamente appartenente al soul di Memphis come artista della Hi Records di Willie Mitchell negli anni Settanta, esordisce con una lenta ballata soul, I Know I’m over You, cesellata dal suo ancor potente baritono e dall’armonia femminile in crescendo, e poi I’m Still in Love with You. Non episodi memorabili, ma eseguiti con tutta la cura del caso, mentre con Walk a Mile in My Shoes il nostro mostra il suo piano superiore, equivalente a preghiera ed emozione, con finale carico di enfasi.
Da programma Johnny Rawls avrebbe dovuto figurare solo al canto ed esserci un altro chitarrista nella band, ma al di là dei motivi del disguido, e pensando all’incognita, meglio così perché Rawls ha offerto una ritmica adatta per tono e volume, nella miglior tradizione southern soul.
Della seguente Clay dice di averla registrata a Lucerna nel 2003, e si tratta di I Can Take You to Heaven Tonight (si riferisce al disco Respect Yourself, registrato dal vivo al festival), lungo excursus passionale insieme agli eccellenti fiati e alla ritmica: è qui che mi rendo conto di quanto il lavoro di Rawls sia apprezzabile, auspicando che ispiri qualche chitarrista tra il pubblico. Purtroppo la fase è funestata dall’improvviso crollo a terra del sassofonista, a cui forse gli ultimi due solo, letteralmente fumanti, hanno contribuito a giocargli un brutto scherzo; è soccorso dal personale ancora prima che Clay se ne accorga, e poi tutti, compreso Clay, cercano di non far notare troppo la loro preoccupazione portando a termine il brano con qualche giustificatissima esitazione. C’è spazio per il ritorno di Specter sul palco, in virtù del recente disco insieme a Clay nominato sopra, solo per la riuscita versione di un brano del Bobby Bland immediatamente post-Duke, il blues This Time I’m Gone for Good, ma l’apice è di nuovo riservato a un finale travolgente con il bel funky-soul Momma Didn’t Raise No Fool dal recente Soul Brothers, con ancora un grande Rawls, anche in partecipazione vocale, e la bellissima I Can’t Take It attaccata alla sempreverde Take Me to the River, che purtroppo segna anche la fine del divertimento.

Infatti, non ho nulla di bello da dire su ciò che è avvenuto a partire da The 44’s, maggiorati dalla presenza di Kirk Fletcher, purtroppo da un po’ di tempo ridotto a fare la comparsa per chiunque attraversi la sua strada. (2) Johnny Main, chitarra e voce, Mike Hightower, basso, Jason Lozano, batteria, sono il nucleo di questa formazione californiana a cui s’aggiunge l’armonicista Jacob Huffman, band che vanta l’uso di strumenti vintage, come se bastasse quello, e una presunta diretta discendenza da quella creativa scena californiana che ha prodotto i Red Devils di Lester Butler, o un signore come James Harman.
Non che ci fossero molte speranze sentendo i loro due unici dischi (il primo co-prodotto da Kid Ramos, che con Butler fu nei “13”) né belli né brutti, artefatti sui consueti canovacci del rock-blues texano-californiano; ma a volte può succedere che dal vivo, in un’auspicabile dimensione meno tirata a lucido e meno commerciale, esca fuori un approccio più espressivo e personale, se non autentico.
Non è successo, e non credo possa avvenire nel contesto di Lucerna. Assenza di dinamiche, suono piatto e sempre uguale, volume al massimo, espressività zero ed emozioni negate, tanto che ho abbandonato la postazione dopo solo tre brani, tra cui Slip Slidn’ Thang e Take It Easy, quest’ultimo rifacimento dell’Easy Baby di Magic Sam — postazione neppure riconquistata pienamente dopo il break e quindi senza neppure la motivazione fotografica data la non completa visuale. Così ho continuato ad ascoltarli come meritano, distrattamente da lontano, bevendo e chiacchierando, proprio come in un “bar americano di quart’ordine”, luogo in cui, secondo un amico arguto, tale band sta a pennello.

Non posso dir niente di Bonny B., armonicista cambogiano naturalizzato svizzero che s’è presentato con un trio, dato che s’è sovrapposto ai set raccontati sopra e quando sono capitata al Casineum era già concluso.
Su Sugaray Rayford & Band feat. Bob Corritore invece è meglio stendere l’ormai consunto velo pietoso. Tempo dell’introduzione con solo la band (di cui nemmeno val la pena elencare i nomi), dell’annuncio dell’imminente uscita di Sugaray da parte di uno di loro, annuncio eccessivamente pomposo e fuori luogo (ricordo appellativi come Godfather e così via, un affronto dato che il Godfather è uno e unico e tutti sappiamo che si chiama James Brown), e infine della sua comparsa in persona… ed eravamo già tutti fuori. Il nostro piccolo gruppo intendo, non la massa di svizzeri tedeschi ubriachi che, anzi, arrivavano a fiotti, attirati dalla cacofonia e dall’approccio mtviano.
Non so perché uno come lui, dotato vocalmente e sotto contratto con Delta Groove, e con un ultimo disco farcito dalla crema dei musicisti di L.A., debba montare uno spettacolo così estremo e inconsistente, idem non so come inquadrare il ruolo e il senso di Bob Corritore e della sua armonica (3) dentro quella massa di suoni distorta e stridente arrivata come una sciagura a partire dall’una e mezza di notte.
Non proprio l’afterhours ideale.


  1. Aggiornamento: Otis Clay è scomparso per un attacco di cuore la sera dell’8 Gennaio 2016.[]
  2. Uno dei casi più eclatanti il ripugnante e ignorante Eros Ramazzotti che, dal profondo del suo squallore, lo ha trattato come il pagliaccio della piantagione con trovate tipo “e sa anche cantare!” o “dai, fammi un blues!” davanti a migliaia di decerebrati (i suoi fan) ridenti e plaudenti. Che tristezza senza fine; che almeno questi orrori del panorama nostrano se ne stessero nei propri lidi, senza coinvolgere gente che non gli compete e una storia che non conoscono.[]
  3. Senso musicale non ne ha: il ruolo è quello di “supporto”, benché inutile, a un compagno di etichetta dato che anche Corritore pubblica con Delta Groove; il Lucerne Blues Festival prende i pacchetti delle case discografiche così come sono.[]
Scritto da Sugarbluz // 24 Novembre 2014
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