Lucerne Blues Festival, 16.11.2013

Pat Wilder and Serious Business / Ron Levy’s Wild Kingdom Trio / James Harman’s Bamboo Porch Revue feat. Nathan James & The Rhythm Scratchers and ‘Bonedaddy Tempo’ / Johnny Sansone / Veronica & The Red Wine Serenaders / Smokin’ Joe Kubek & Bnois King

Una rosa di ospiti come sempre molto estesa quella della 19ª edizione del Lucerne Blues comprendente, oltre i sopra elencati (in ordine di apparizione) appartenenti all’ultima serata, altri personaggi come Johnny Rawls, Byther Smith, Bobby Rush, Rick Estrin & The Nighcats, una Chicago Blues Allstars formata da Zora Young, Bob Margolin, Kenny Smith e Bob Stroger, e un supergruppo di recente formazione denominato The Blues Broads supportato dalla Delta Groove, con le cantanti Dorothy Morrison, Tracy Nelson, Angela Strehli e Annie Sampson (1) accompagnate da musicisti noti e meno noti come Steve Ehrmann, Paul Revelli, Gary Vogensen e Mike Emerson.

Totalmente sconosciuta m’appare invece Pat Wilder (Patricia Elaine Wilder), chitarrista dell’area di San Francisco che, accompagnata dalla sua band, ‘Sugar G’ Robinson, tastiera, ‘Peaches’ Thompson, basso, ‘Pockets’ Logwood II, batteria, e dal violino elettrico di Carole Mayedo, ha aperto il primo dei quattro set previsti alla (sempre afosa e acusticamente non ideale) Panoramasaal.
Nonostante alcuni spunti interessanti nella sua scaletta, cito ad esempio Ooh Poo Pah Doo di Jessie Hill e “originali” passabili come Nightmare Night Train, chiaramente ispirato da Smokestack Lightning di Howlin’ Wolf, o lo strumentale Papa John con il violino di Mayedo (se fosse ripulito dagli eccessi e con un arrangiamento più “morbido”), purtroppo le sonorità sono state di grana grossa, dozzinali, con volumi consistenti, riff abusati e reiterati, ed eccessi di note senza personalità, sia negli interventi singoli che di gruppo, con carattere funky-rock scontato e insapore, trito e ritrito. Non meglio risulta il trattamento di brani nobili come I’ll Take You There degli Staple Singers, Sex Machine di James Brown e la sfruttatissima Summertime, materiale reso appena sopra al dilettantismo e con il violino sovente fuori luogo.

Toccano solo la superficie rimandando a data da destinarsi spessore esecutivo e interpretativo, ma è più probabile che proprio non gli importi. Una dieta a base di suono e approccio minimale non gli farebbe male, ma non basterebbe. Una band con un così carente livello espressivo non ha senso d’esistere, sicuramente non quando ci si aspetta consistenza, ma anche solo qualcosa da cogliere con un fine minimo, fosse nient’altro che puro divertimento.
Forse Wilder potrebbe dar meglio con una sostanziale limata alle sue frasi chitarristiche sostituendole con maggiore sensibilità ritmico-melodica (o concentrandosi solo su un aspetto ma facendolo bene, delegando qualcun altro dove non può o non vuole arrivare), e dirottando l’energia verso qualcosa di minimamente efficace invece che nelle ripetute passeggiate avanti e indietro o fuori dal palco suonando in modo insignificante, non di meno indirizzando meglio il suo canto, avendo voce soulful e calda che forse potrebbe sfruttare più di quanto lei stessa possa immaginare.

Molto diversa la proposta del set tutto strumentale di Ron Levy all’Hammond B-3, organista noto come accompagnatore sul palco per grandi nomi, in primis Albert King e B.B. King, e per essere apparso in decine di dischi altrui, sia come musicista che come produttore, ma anche per aver pubblicato, dai tempi in cui era nei Roomful of Blues, una nutrita discografia solista.
A comporre il suo Wild Kingdom ci sono Jeffrey W. Lockhart alla chitarra e Julian E. Vaughn alla batteria, musicisti d’attitudine più jazz, funky, nu-soul, pop, che blues, devianti il più tradizionale stile e repertorio di Levy verso sonorità fusion, con acidità generale ed effetti chitarristici invadenti, a volte vanificando il groove che l’Hammond può fornire. Il risultato è apparso piuttosto cervellotico, e complice il fatto di essere tutto strumentale molti spettatori l’hanno ritenuto un po’ pesante, tanto che metà sala s’è vuotata.
Avendo il pur talentuoso Lockhart giusto davanti a me non ho potuto fare a meno di osservarlo e ascoltarlo bene e, anche se non mi sarebbe piaciuto comunque, inevitabilmente ho pensato a quanto sarebbe stato meglio senza quella pedaliera che, citando un mio amico, avrebbe dovuto letteralmente “volare fuori dalla finestra” (in questo caso dalla porta non essendoci finestre).
Ho apprezzato comunque composizioni come Duke It Out, dedicata al maestro Duke Ellington, e Funky Fiesta, che ricorda la blaxploitation degli anni Settanta. Più apprezzabile al mio orecchio Blues for B.B., bel lento con venature gospel in omaggio a uno dei suoi mentori, King appunto. Ricordo anche una versione di Summertime – in questo caso non uno schema reiterato – e Sons of Abraham, che riporta in chiusura di set le atmosfere tra psichedelia e rock-fusion di quegli anni là.

James Harman e il suo Bamboo Porch Revue sono il motivo per cui questa serata non poteva essere persa, rivelandosi uno dei migliori concerti di blues che abbia mai visto e senza dubbio il migliore degli ultimi anni. Supportato dal chitarrista Nathan James, dal vecchio amico James Michael Temple aka ‘Bonedaddy Tempo’ alle percussioni, e dalla ritmica dei Rhythm Scratchers, cioè Marty Dodson, batteria e voce, e Troy Sandow, contrabbasso, basso elettrico e armonica, il grande Icepick James dall’Alabama, con arguzia e presenza scenica, oltre a una buona dose di coolness, ha dato magistrale lezione sotto tutti gli aspetti, conducendo un set carico di personalità ed efficace per qualità musicale, dinamica, interplay, comunicativa, intensità, volumi, divertimento.
Puro piacere sonoro, armonia di forma e contenuti di rilievo, coinvolgente da subito per un inaspettato, potente inizio a cappella con il suo bellissimo timbro vocale, prima di inserire l’armonica e le sonorità degli altri in un crescendo sempre più travolgente.

Il Bamboo Porch Revue offre un set elastico, dinamico, che può partire come un solo e diventare duo, trio, quartetto, e a piena formazione con cinque elementi, concretizzandosi mediante sonorità essenziali e originali tra blues del profondo sud e blues urbano della miglior scuola, potentemente innervate dall’armonica e dal controllo del leader, dai suoi devastanti guaiti e recitativi nonché dalle pause, e colorate d’esotico dalle creative e caratteristiche percussioni di Tempo. Tutto ciò espresso con gusto raro, senza eccedenze o inutilità: ogni piccolo suono è un colpo ben assestato così pieno di senso che potrebbe vivere anche da solo.
Non è una band di solo accompagnatori, lo dimostra per primo l’ottimo Nathan James in trio con Dodson e Sandow (Nathan James & The Rhythm Scratchers appunto, consiglio il disco What You Make of It) con la sua Get to the Country, blues moderno che s’ispira al passato, tra Papa George Lightfoot e Piedmont blues.
Nathan James suona una chitarra custom-made, (2) una sua creazione chiamata Wash-Tar Git-Board (washboard guitar, poi ne userà un’altra chiamata Tri-Tar), e conosce Harman da quando aveva diciannove anni. Agli inizi tra un tour e l’altro lavoravano come duo, da ciò che scrive Harman stesso nelle note del bellissimo ultimo disco (3) uscito l’anno scorso dopo otto anni di assenza discografica.
Nathan era già con Ben Hernandez e il nostro s’aggiungeva occasionalmente al canto e all’armonica, in quei frangenti Hernandez passava al washtub bass. Quando s’unì il percussionista della James Harman’s Band, J. Michael Tempo, il gruppo divenne The Bamboo Porch, mentre i Rhythm Scratchers si formarono in seno alla band di Harman, con Troy Sandow che prese il posto dello scomparso bassista Buddy Clark, e Marty Dodson quello di Stephen Hodges, oggi batterista di Mavis Staples.

Harman riprende la voce e l’armonica con Green Snakeskin Shoes, downhome blues semiacustico al quale si aggiungono le percussioni di Tempo, mentre con Crapshoot si assiste al pieno regime del vaporetto, come a dire mai troppo veloce o insopportabilmente rumoroso: il blues non è un jumbo jet.
Una chicca Jimmy’s Pink Alligator, in cui Icepick conferma la sua originalità compositiva (ce ne fosse ancora bisogno) e Nathan la sua adeguatezza alle atmosfere harmaniane, mentre sull’impianto ritmico “di base” Tempo aggiunge il suo apporto su pelli che paiono parlare. È un piacere vedere il percussionista lavorare sui tamburi con attenzione al dettaglio e alle sfumature o con piccoli colpi ben calibrati ricchi di colore, a volte sembrando in trance, ed è un valore aggiunto che rientra a pennello nel senso musicale totale. A un certo punto giocherà con i fischietti appesi al collo – ricordando i suoni esotici di New Orleans e dei Neville Brothers – suonandoli uno a uno mentre Harman fa da spalla, come quando s’alza dalla sua postazione percuotendo un tamburo (pardon, non conosco il nome preciso) o un grande campanaccio. Non pensiate sia qualcosa di inutile o eccedente; dà un tocco primitivo calzante con la musica e il tono vocale del leader, un suono che sa di misterioso Bayou.
Nello svolgersi del meraviglioso lento I Got to Call My Baby l’impressione è che, dopo aver visto e sentito belle cose lungo il cammino, si giunga a destinazione per rimanerci. Icepick s’esprime divinamente, la sua voce riempie di personalità ogni spazio e Nathan James sa come interpretare i suoi silenzi.

Con Harman al canto in You Worry Me, Troy Sandow convince all’armonica, sorprendente per tono e vena, e molto gustoso anche un altro contributo del trio, Nathan e i Rhythm Scratchers, con un paio di brani rurali tra cui Black Snakin’ Jiver di Blind Boy Fuller insaporito ritmicamente dal washtar, in assolo a base ragtime con gli sberleffi del kazoo (a tal proposito dice di non essere l’unico a suonarlo quella sera, facendo riferimento al gruppo al piano di sopra – infatti Veronica & The Red Wine Serenaders hanno già cominciato al club del Casinò).
Quando il “rompighiaccio” torna travolge con il jump blues uptempo All Night Boogie, divertimento schietto con drive sostenuto incanalato dal batterista Marty Dodson, mentre è esemplare, pur non facendo niente di particolare, il sostegno del leader a Bob Margolin (come tra l’altro ai membri della band per tutto il tempo), uscito a sorpresa con la sua Brown Liquor, interpretata con inusuale spessore scenico ed espressivo (sarà un “effetto Harman”?).
Pare una magia, e penso alla sua immagine su Lonesome Moon Trance, mago ululante alla luna piena, proprio come sembra fare qui anche da muto, compiendo alle spalle di Margolin e davanti a tutti noi un sortilegio. Bisogna vederlo per crederci.
Bellissimo anche il finale con una Convenience Store Party Bag ricca di tono, ritmo e colore (potete vederlo qua). Con una grande esperienza di vita musicale dai primi anni 1960, nettamente palpabile da come si muove anche a set finito, Harman riesce a creare complicità e a riempire di significato la sua presenza.
Negli anni Settanta ha suonato per i più grandi bluesman dell’epoca e negli ultimi quarant’anni ha tenuto con sé i migliori chitarristi della scena losangelena e non solo, contando una trentina di dischi riusciti. È tra i principali maestri ad aver portato fino ai nostri tempi l’hard drive espressivo della scuola afroamericana, e tra quelli che dobbiamo ringraziare per aver tenuto accesa la luce del blues nei tempi bui; oggi bisogna ritenerlo un bene ancora prezioso nel panorama rinsecchito del blues odierno.
A bordo palco vedo un foglio per terra e gli chiedo se è la sua scaletta, e lui: “No non è mia, io non la uso, faccio a mente”.

Nell’attesa di Johnny Sansone in veste solista accompagnato da John Fohl (chitarrista di Dr John visto a Houston), J. Lee Bridges al basso e Robert Lee alla batteria, mi trasferisco nella più respirabile aria del Casineum Club per sentire un po’ di Veronica & The Red Wine Serenaders, ma il loro primo set è appena finito. In compenso riesco a salutare James Harman e Bob Margolin, mentre di Sansone ho poco di bello da dire e poco in generale perché al mio ritorno nella sala, pur non aspettandomi niente di buono avendo saltuariamente ascoltato la sua discografia solista, sono rimasta talmente allucinata da abbandonare quasi subito. Ne avevo bel ricordo come componente (fisarmonica e armonica) del supergruppo di Tab Benoit visto a New Orleans, ma qui in veste di solista ho colto note mute, canto insignificante e brutta musica a volume insopportabile.

Torno così nel Club per il secondo set di Veronica & The Red Wine Serenaders, del cui nucleo (Veronica Sbergia e Max De Bernardi) ho già parlato qui anni fa, e del gruppo più esteso recentemente in occasione del disco che ben identifica il carattere e il repertorio che portano in giro per l’Europa con successo; rimando quindi a quelle letture per altri dettagli (v. anche altro link più sopra).
Non mi rimane che confermare la validità di questo ensemble, qui in trio con la contrabbassista Alessandra Cecala (anche cantante in When I Was a Cowboy [leggi Cowgirl] di Lead Belly) e con sonorità acustiche di chitarra resofonica, washboard, ukulele, mandolino e kazoo.
Rags, country blues, classic blues, ma anche tradizione bianca, musica affascinante risalente ai primi decenni del secolo scorso trattata con rispetto, suonata con competenza e approccio brioso (sperando che non diventi mai pretenzioso). Un set quindi molto godibile dalle corde di Max De Bernardi e dal canto di Veronica Sbergia accompagnato da vari strumentini ritmici, e dalla crescita della Cecala sia in relazione al gruppo che individualmente. Il pubblico pare aver gradito molto, tanto che di riflesso, essendo italiana, parlando con un paio di “colleghi” di lingua tedesca ho ricevuto per conto loro i complimenti.

Personalmente ritengo impossibile che una stessa persona possa apprezzare sonorità tipo quelle del suddetto gruppo e insieme quelle aggressive e insapori di Smokin’ Joe Kubek & Bnois King, ma evidentemente non è così per tutti. Il pubblico generalista è la maggior parte e gli organizzatori del festival a quello si rivolgono nel proporre un cartellone così eterogeneo.
Sullo stesso palco del Casineum, insieme a Kubek e King una sezione ritmica con Eric Smith alla batteria e Shiela Klinefelter al basso, alla quale si aggiunge Ron Levy alla tastiera. Pur essendo la proposta nel complesso superiore al set di Sansone o di Pat Wilder, non sono riuscita a seguirla tutta con attenzione per scarso interesse (complice la stanchezza: s’inizia alle sette di sera e si finisce dopo le tre di notte, e si sta praticamente sempre in piedi, al caldo), ma anche perché ho avuto occasione di conoscere il bassista e il batterista di Harman, persone squisite, come Nathan James e gli altri musicisti incontrati nel backstage.
Intanto sul palco vedevo Smokin’ Joe, davanti a un paio di grossi ventilatori che gli facevano volare i capelli e vibrare gli indumenti, ben piazzato a terra infierire ripetitive e banali schitarrate difettanti di gusto e senso. È quel tipo di chitarrista rock mediocre che starebbe bene in un film di Jack Black a rovinare brani di musica classica.

Ciò che fa Kubek si sovrappone – non si unisce – a quello che suona Bnois King, sovrastandolo non tanto o non solo con il volume, ma anche non avendoci niente a che fare; è quasi come se suonasse per i fatti suoi sopra una base registrata.
Dapprima ho pensato che forse era perché stavo a lato del palco proprio dalla sua parte e dietro di lui, sentendo solo il suono della sua chitarra e quasi niente di King, ma la situazione non è migliorata andando dal lato opposto, o davanti a King; il suono monotono e coprente di Kubek ha continuato a ronzare con insistenza.
Mi è dunque oscuro il motivo per cui Bnois King, che è anche buon cantante e che potrebbe inserirsi in contesti più creativi con altri, migliori bandmate, e che ha uno stile molto diverso e una tecnica più fine, si sia rifugiato da anni in questa incomprensibile unione, facendo tutto ciò che fa un frontman mentre colui che risalta è l’altro, che non fa niente se non rovinare il suo lavoro. Mah!
Intanto s’è fatto tardi, hanno finito il primo set, c’è stato un intervallo e hanno ripreso a suonare, ma rimango nel retro fino a quando la musica finisce, la cucina chiude e praticamente ci sbattono fuori, verso le quattro di mattina. Non mi resta che rassicurarmi con le certezze: James Harman e il suo Bamboo Porch, in attesa di sapere chi chiameranno l’anno prossimo, il ventesimo anniversario del festival.


  1. Annie Sampson ha un passato hippie con il gruppo di Sal Valentino, Stoneground.[]
  2. A una mia domanda a proposito ha risposto che non ama le “chitarre precostruite”.[]
  3. James Harman’s Bamboo Porch, Live at Little Village Vol. 1, assaggio di ciò che può essere un loro set.[]
Scritto da Sugarbluz // 25 Novembre 2013
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5 risposte

  1. elio ha detto:

    Fantastica recensione che rispecchia in pieno la serata del sabato al Lucerna Blues Festival…sono felice che il mio video con il tuo link sia servito a dare un’idea del set di James Harman e band anche se era solo il pezzo finale…non abbiamo avuto modo di parlare (ero lì con Marco Gisfredi e Juke Ingala) ma la tua conoscenza e la tua cultura blues sono straordinari…imparo sempre molto dalle tue recensioni…Grande davvero!!!
    Elio.

  2. Sugarbluz ha detto:

    Ciao Elio, grazie per il commento e il filmato ricordino! Sai che ero quasi convinta l’avesse fatto Egidio?
    Non ci hanno presentato quei bastardi!
    Sarà per la prossima 🙂

  3. marco78blues ha detto:

    i musicisti sono notoriamente dei maleducati, la prossima volta faremo una presentazione formale! ma siamo stati tutti distratti dal concerto di Harman, qui descritto alla perfezione.
    Credo che il Bamboo Porch Revue abbia avuto ben poche recensioni di questo livello anche nei siti americani, svizzeri o giapponesi!

  4. riccardo ha detto:

    Io AMO James Harman !! Grazie per aver tributato il giusto riconoscimento a questo mostro sacro. Ciao Tiziana, great meeting u. Riccardo

  5. Sugarbluz ha detto:

    Piacere mio. Speriamo di assistere presto ad altri concerti belli come questo di Harman o come quello dei fratelli Alvin a Vicenza.

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