Otis Spann – Sessioni soliste 1963-1966

Otis Spann, Good Morning Mr Blues coverOtis Spann, The Blues Is Where It's At cover

Dopo le incisioni soliste del 1960 (v. precedente articolo), Otis Spann continua la consueta attività live e in studio con Muddy Waters, e come sessionman presso Chess per vari artisti. Negli anni 1960 le occasioni variano, non necessariamente sempre con colleghi Chess e non solo nell’ambito della Muddy Waters Blues Band (intesa come band che accompagna altri) o in quello dell’American Folk Blues Festival. Il 26 luglio 1963 al Copa Cabana Club di Chicago per il Folk Festival of the Blues, Chess di nuovo perde l’occasione e Spann suona solo in accompagnamento a Muddy, Howlin’ Wolf e Buddy Guy.
La prima seduta a suo nome dopo il 1960 è segnalata al 21 settembre 1963 per Chess in compagnia di Sonny Boy Williamson, Matt Murphy, Willie Dixon, J.T. Brown e Bill Stepney, per quattro brani rimasti inediti: Skies Are Blue, My Baby Is Gone, Love Is a Miracle e No, No, No, ma nella Otis Spann Career Discography (v. fonti) è riportata con riserva. Alan Balfour annota questa sessione (attribuita la prima volta nella guida di Leadbitter e Slaven del 1968, Blues Records 1943-1966) con i dubbi presenti nella discografia di Williamson in Soul Bag, dove si dice che la fonte non è chiara e che la sessione potrebbe esser stata accreditata erroneamente a Spann, e inoltre che non è rintracciabile nell’archivio di Chess/Checker.

Noto però che, almeno per quanto riguarda i primi due titoli, Spann vi ha qualcosa a che fare. Infatti appena un mese dopo, nella sua bellissima sessione solista a Copenaghen per Storyville di cui sto per dire, uno dei brani registrati è proprio Skies Are Blue, mentre My Baby Is Gone è un brano di Lonnie Johnson accompagnato da Spann nella stessa situazione danese, che vide una sessione solista anche per il chitarrista. Questo è un fatto, e mi pare più di una casualità. Dato che tutti i musicisti indicati sopra (a parte J.T. Brown, credo), compreso Johnson, furono parte del carrozzone AFBF di quell’anno, che di solito partiva in autunno, ho pensato che quelle quattro registrazioni potrebbero esser avvenute durante il festival europeo, magari dal vivo o in un’occasione extra, con qualcuno dei solisti, oltre Spann e Johnson, a eseguire un proprio brano accompagnato dagli altri. La possibile velleità di quelle registrazioni potrebbe spiegare perché sia Spann che Johnson avrebbero, nel caso, rifermato su nastro quei loro brani nuovi (la My Baby’s Gone di Johnson del 1947 è diversa) suonati poco prima, cogliendo l’occasione alla prima vera sessione. La falla in questa mia teoria (oltre alla presenza o meno di J.T. Brown) è che quell’anno la troupe arrivò in Europa, precisamente all’aeroporto di Francoforte, il 24 settembre (ma vista l’incertezza dell’occasione, non è escluso che la data del 21 sett. sia errata).

Portraits in Blues Vol. 3 vinyl cover (Storyville Records)

Prima della seduta danese a suo nome, registra in ottobre per Muddy e S.B. Williamson (ci scappa anche una sua traccia, Had My Fun; cioè Goin’ Down Slow di J. Oden in due alt. take) in varie città tedesche toccate dal festival (Heilbronn, Francoforte, Oberhausen, Bremen, Baden-Baden), oltre al brano del consueto jam session finale con gli altri musicisti AFBF, Memphis Slim alla voce e lui al piano.
Sempre in Europa e in ambito AFBF 1963 ci sono poi due sessioni intestate a lui e Muddy Waters (ma Muddy non appare né alla voce né allo strumento – sono segnalati invece Matt Murphy, Dixon e Stepney) in località ignota (forse in Inghilterra, vista la pubblicazione su JSP negli anni 1980). Cinque tracce di queste oscure registrazioni sono appunto uscite sul vinile JSP 1070 (Rarest Recordings, album già citato nell’articolo precedente perché contenente anche il suo set strumentale al Newport 1960), e quattro sul JSP 1056 (Piano Blues Legends, raccolta con anche Professor Longhair, Lyin’ Joe Holley e Little Brother Montgomery), tracce che non ho mai potuto sentire, e non so se sono state messe su CD.
È quindi in Danimarca, a Copenhagen, che si concretizza la sua seconda estesa opportunità solista (e, finalmente, solistica), il 16 ottobre 1963 live nello studio di Ivar Rosenberg con la produzione di Karl Emil Knudsen, fondatore di Storyville Records. Proprio perché ci sono meno interferenze (e meno brani) in un certo senso il risultato è anche migliore della pur bella prima sessione (Candid), anche se questa è meno nota e scarsamente citata, come spesso succede quando si tratta di sessioni europee.
Undici tracce sono pubblicate nel vol. 3 della serie Portraits in Blues (Storyville Records SLP 157). Le stesse escono poi su un LP di un’etichetta di Los Angeles (Everest Records FS 216) intitolato semplicemente con il suo nome, per conto dell’Archive of Folk Music (fondato nel 1965); non vedo la data di pubblicazione ma è probabile sia 1970, in ogni caso è postumo perché le note di Paul Oliver parlano al passato.

Archive of Folk Music, Otis Spann's LP cover

La sessione è apparsa anche su CD Storyville, Blues Masters Vol. 10 (Storyville STCD 8010, del 1991) con tre titoli in più, in totale quattordici brani che si possono trovare anche su GOOD MORNING MR BLUES (Analogue Productions CAPR 3016, v. copertina in intestazione), CD di un’etichetta di Salina, Kansas, specializzata in ristampe alta fedeltà. Tutti gli episodi sono solitari a eccezione del raffinatissimo Trouble in Mind in cui è accompagnato dalla nobile chitarra di Alonzo ‘Lonnie’ Johnson, a sua volta accompagnato da Spann nello stesso giorno in tutti i brani di una sessione a suo nome (Lonnie Johnson, Portraits in Blues Vol. 6, Storyville SLP 162, e STCD 8004).
Queste registrazioni rendono il carattere strumentale e vocale di Otis Spann, laid-back e profondamente blues, in un ambiente intimo che lascia trapelare i suoi respiri, i brevi sostenuti delle note finali, il battito del piede (1) e ogni piccola sfumatura nello spazio tra lui e il pianoforte; par persino di sentire i suoi pensieri.
Splendide e spiazzanti le prime note di Good Morning Mr Blues, dove la suggestione pianistica senza tempo va a braccetto con l’espressione vocale colloquiale rendendo omaggio con timbro sabbioso al più grande ispiratore, il Signor Blues in persona (Good morning Mr Blues, Blues how do you do? / Good morning Mr Blues, Blues how do you do? / You know I feel alright now, but I come home to worry you), e magari anche a Lead Belly, mentre la dolce Love, Love, Love, l’episodio più “pop”, sembra improvvisata nelle liriche su una melodia che ricorda vagamente Tee Nah Nah, da lui già ripresa come I’m Leaving You nella sua seconda registrazione Chess da solista (1956) allora ancora inedita, e in seguito come T-99 (v. sotto); questa però non solo è più lenta, ma sembra una variazione partita da una piccola cellula, forse un pattern “neorleansiano” occasionale che aveva nelle mani piuttosto che un’altra versione, a differenza delle altre due che invece sono direttamente figlie del brano di Smiley Lewis.
Il lento e riflessivo Riverside Blues potrebbe sembrare autobiografico, ma è attribuito a Sonny Boy Williamson. La sua voce toccante, le parole cariche di amarezza, l’assolo pianistico, e perfino quel “just me and myself alone”, pur da tema ricorrente nel canzoniere americano, sono una congiura poetica, un antidoto verso qualsiasi veleno, mentre l’irresistibile Must Have Been the Devil, il suo potente signature song, qui è un boogie stomp ballabile da barrelhouse più tirato e meno urbano rispetto alla versione Candid.
Esempio fino di double entendre, consegnato con attitudine rilassata e spirito sarcastico e una delle più belle sorprese, è Jelly Roll Baker, preso da Lonnie Johnson – che di flemma sopraffina era maestro. Spann arrangia le stanze a modo suo, ma mantiene una delle quartine più efficaci appropriandosene e ripetendola in finale: (2)

I was sentenced for murder, in the first degree
Judge's wife called up and says, "Please let Spann goes free
'Cause he's Jellyroll Baker, with the best jelly roll in town
Yes, he's the only man can bake jelly roll, whoa, with his damper down"

chiamando poi Lonnie prima del break strumentale come se dovesse farlo lui, ricordando Big Maceo Merriweather in questo, e concludendo con una risatina d’intesa. E di Merriweather anche qui riprende il drammatico Worried Life Blues, a cui consegna una mitezza tutta sua (tipico looseness spanniano), seguito dal caratteristico T.B. Blues, forse ispirato dall’omonimo vecchio brano di Victoria Spivey da lei suonato proprio durante il festival europeo di quell’anno, e dal tema testuale del dottore impotente di fronte alla malattia, che più avanti riprenderà con Doctor Blues (lo scetticismo afroamericano del “doctor can’t do me no good”, e in particolare dell’amico Oden di Goin’ Down Slow). Nel solo di piano fa un’escursione enfatica sulle note basse e chiede, come a interpretare lo stupore dell’ascoltatore, what happened?, (3) ma ciò che annienta qui sono gli “hum” impagabili spalmati sui primi due versi dell’ultima strofa.
Il breve Spann’s Boogie è inno alla tradizione pianistica, richiamante il Pinetop’s Boogie Woogie di Clarence Smith, e Goin’ Down Slow è il celebre brano di ‘St Louis Jimmy’ Oden, omaggiato anche con Don’t You Know (sarebbe Can’t Stand Your Evil Ways), meno vivace rispetto alla versione Candid (Evil Ways).
Le tre tracce aggiunte sono la cupa The Skies Are Blue, il blues di Sonny Boy Williamson II Keep Your Hand out of My Pocket, incisa qui per la prima volta e ripresa l’anno dopo per Decca, e l’indimenticabile Boots and Shoes, al quale sono affezionata perché in questa versione è uno dei primi blues in assoluto che sentii, in un cofanetto per neofiti europei; (4) m’impressionò molto, dallo stile al timbro vocale, dal ritmo, e forse anche dalla sua insita eternità anche se allora non lo sapevo. Un gioiellino intimo ed espressivo basato su Hey Lawdy Mama, solido come solo una pietra miliare può esserlo, inciso da Buddy Moss nel 1934 e ripreso da molti, da suoi contemporanei come Curley Weaver e Bumble Bee Slim con lo stesso titolo, fino al Meet Me in the Bottom di John Lee Hooker. Spann modella il suo includendo versi presi da varie versioni. Se per Keep Your Hand posso anche ammettere che la versione Decca con la band sia più “accattivante”, è indubbio che la prima e solitaria Boots and Shoes di questo disco sia impareggiabile (il brano sarà rifatto con altri titoli, come vedremo).

Sempre in occasione del tour europeo del 1963, il 22 ottobre a Manchester lui e la sezione ritmica (Murphy, Dixon, Stepney) accompagnano S.B. Williamson e Muddy Waters nella registrazione di un loro brano a testa, e di uno collettivo (c.s., Bye Bye Baby in entrambi i casi) con tutti i protagonisti di quell’anno (L. Johnson, V. Spivey, ecc.), nello studio dell’emittente TV Granada per il programma I Hear The Blues, riprese apparentemente rimaste inedite. Tornato a Chicago, il 17 novembre supporta (insieme all’armonicista Slim Willis e al batterista Robert Whitehead) una sessione di Johnny Young per Testament; otto brani (tra cui un alt. take) andranno sparsi su due LP Testament (T-2203 e T-2226), cinque su un vinile di un’etichetta belga (Rockin’ Blues RB19922) e infine, sempre divisi, sui due CD Testament TCD5003 e TCD5008, tranne Mean Old Train, che si trova nel CD Live the Life intestato “Otis Spann with Muddy Waters and His Band” (v. prossimo articolo).
La settimana successiva all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy (22 nov. 1963), Norman Dayron e Pete Welding registrano a caldo le impressioni di alcuni bluesman a Chicago; Kennedy era amato dagli afroamericani nonostante le origini borghesi, e la morte violenta e inaspettata nutrì la disperazione e il mito. Otis Spann contribuisce con Sad Day in Texas, adattando parole pensate per l’occasione sul tema musicale mezzo improvvisato al Newport 1960, Goodbye Newport Blues (ispirato dal Third Degree di Eddie Boyd). Il vinile di queste registrazioni esce sull’etichetta di Welding con il titolo Can’t Keep from Crying, Topical Blues on the Death of President Kennedy (Testament S-01, 1964), ma nel TCD 5007 ci sono anche i due brani in cui accompagna Johnny Young nella stessa occasione (I Tried Not to Cry e Tribute to J.F.K.).
Nel gennaio 1964 registra a suo nome due tracce per One-Derful, accompagnato da Louis Myers e Willie ‘Big Eyes’ Smith, Lovin’ Girl e The Name of the Blues, ancora inedite.

Vinyl cover of The Blues of Otis Spann, Decca Records

Torna in Inghilterra nella primavera 1964 per l’American Folk, Blues and Gospel Caravan promosso da Harold Davidson, e Mike Vernon organizza una sessione a nome del pianista negli studi Decca a West Hampstead, Londra, il 4 maggio, con il bassista Ransom Knowling, il batterista Willie Smith e Muddy Waters (accreditato come “Brother” a causa del contratto Chess).
Lateralmente partecipa anche Memphis Slim, in due brani improvvisati con Muddy (Mojo Rock ‘n’ Roll e You’re Gonna Need My Help); nel secondo Slim usa un piano verticale truccato con puntine da disegno nei martelletti. Purtroppo anche Spann usa il piano preparato dall’effetto honky-tonk, in cinque episodi (tre in questo disco); per anni molti sono convinti che sia una clavietta elettrica o un harpsichord, ma nel 1997 Vernon ha smentito. Intervengono inoltre Eric Clapton (Stirs Me Up, Pretty Girls Everywhere) e Jimmy Page (alt. take di Keep Your Hand out of My Pocket, Stirs Me Up).
In quell’unico giorno nascono ben ventiquattro tracce (tre sono alt. take), e dodici di queste prendono posto nel vinile uscito nello stesso anno, THE BLUES OF OTIS SPANN (Decca LK4615), selezionate tra quelle con solo Muddy e la sezione ritmica; le rimanenti usciranno sparpagliate su altri vinili e CD. (5)
Spann, che sfoggia una voce tra le più “pulite” della sua discografia, rifà alcuni brani della sessione precedente, come Meet Me in the Bottom (Boots and Shoes AKA Mr Highway Man, come abbiamo visto ispirato da Hey Lawdy Mama di Buddy Moss), storia di un uomo in fuga su un robusto jump con la voce e il pianoforte a far tutto, tanto che la ritmica di Willie Smith e Ransom Knowling non sembra in più solo perché ben fatta, Keep Your Hand out of My Pocket (Williamson), bel Chicago blues in cui i quattro procedono come uno solo (qui fratello Muddy mostra come suonare con Spann), e allo stesso tempo vicino al ragtime sia per la timbrica che per lo stile stride (c’è però un sospetto suono metallico sulle note di Spann, e questo vale un po’ ovunque al di là di quando effettivamente suona un prep. piano), e Spann’s Boogie, breve e virtuoso strumentale ricco di brio sostenuto dal solo ‘Big Eyes’ Smith che dà esempio del suo perfettissimo shuffle.

Tra le “novità” ci sono la compatta Rock Me Mama di Crudup, quasi uno swamp blues alla Slim Harpo solo più marcato (sembra d’individuare la mano del produttore, come sul “metallo” – tutto un altro mondo rispetto alla dolce sessione danese), la brillante I Came from Clarksdale, in cui Muddy, anche come ispirazione, è fondamentale (Otis lo chiama per il solo, watch out, brother!), e con il profondissimo passo di Ransom Knowling simil-basso tuba, e Sarah Street, bellissimo down tempo con lavoro fino di Knowling, Smith, che in tutto il disco usa spazzole e rullante, e Muddy, insinuato con naturalezza tra il pianismo e la vocalità di Spann e sempre sulla stessa lunghezza d’onda.
Due tra i brani con il pianoforte preparato sono boogie perché è chiaro che quel timbro gaio non si confà ai lenti. Uno è un jump blues a tempo medio, The Blues Don’t Like Nobody, l’altro è Jangle Boogie, strumentale alla Meade Lux Lewis mostrante la confidenza di Spann, con Muddy ad ammorbidire un po’ nel suo piccolo solo il timbro metallico altrimenti freddo e piatto.
Nelle note Neil Slaven dice che T-99 si riferisce a (al blues di) Jimmy ‘T-99’ Nelson, ma non c’entra dato che si sente chiaramente il Tee Nah Nah di Smiley Lewis, il titolo dato per assonanza. Aveva già ripreso il tema nella sua seconda registrazione da solista alla Chess nel 1956 con I’m Leaving You (v. il prec. articolo). T-99 è il terzo “esperimento” di piano con le puntine; il quarto, Nobody Knows, andrà su LP Black Magic 9004. Il pianoforte normale si può sentire ancora in due bei lenti, la parabola blues della pecorella smarrita Lost Sheep in the Fold, accompagnato da batteria e contrabbasso minimali, in apparenza ispirato dalla melodia di Midnight Hour Blues di Leroy Carr, ma con versi propri, e Natural Days (molto simile a Sarah Street), con l’aggiunta del tocco altrettanto minimalista di Muddy, mentre I Got a Feeling è la prima versione del moderato che farà nella sessione di The Blues Never Die, qui più blues ballad.

I brani esclusi escono su altre pubblicazioni Decca (vinili LK4681, TAB21, SPA387, gli ultimi due di E. Clapton), Ace of Clubs (LP Raw Blues), See For Miles (LP SEE54) e nel 1984 su un lato dell’olandese Black Magic (LP 9004), Take Me Back Home, citato nel primo articolo perché dall’altra parte ha sei rimanenze della sessione Candid. Nel 1980 Black Magic, quando si chiamava ancora Black Cat, pubblica Half Ain’t Been Told (LP 001), una riedizione di The Blues Of con l’aggiunta di due brani (My Home Is in the Delta e You’re Gonna Need My Help. Il primo fu intitolato sbagliato alla sessione come My Home in the Desert e continuerà così in altre edizioni Decca/Deram; è stato corretto in questo vinile BC). Risparmio altre minuzie.
Nel 1993 esce la versione digitale, THE BLUES OF OTIS SPANN… plus (See For Miles Records, CD 389, con la stessa copertina tolto il marchio Decca e aggiunto “… plus”), contenente i dodici del vinile più quattro degli esclusi, a partire da Country Boy di Muddy, il quale qui è riconoscibile (non lo è nei brani sopra) dal suono e dallo stile fin dall’intro, forse motivo per escludere il titolo dal vinile originale dato che il chitarrista era in incognito; Spann lo aveva già registrato (diverso) nel 1960 nella sessione Candid con Lockwood (v. art. prec.), e poco prima di allora uno simile per Conversation with the Blues di P. Oliver (in generale si potrebbe parlare più giustamente di varianti, più che di altre versioni).
Tutto in Pretty Girls Everywhere (successo anni 1950 per Eugene Church) è più che degno di nota, dal canto splendido con eco sulla voce del nostro al notevole accompagnamento di Eric Clapton (che in quel periodo era negli Yardbirds, e fremeva per fare blues), fino alla bella ritmica latina di Big Eyes che non fa rimpiangere l’originale del grande Earl Palmer; peccato solo per la sfumatura: una traccia così meritava un finale, e l’inserimento nell’LP. Anche per Pretty Girls, di cui però non ho mai incontrato altre versioni, è valsa la stessa emozionante sorpresa provocata da Boots and Shoes, essendomi rimasta impressa molti anni prima grazie a un’altra raccolta per neofiti: (6) un suono, una vocalità e un’atmosfera impareggiabili e indimenticabili, ed è oggettivamente così al di là dell’esperienza personale. Roba per forgiare giovani menti.
You’re Gonna Need My Help è uno dei due episodi improvvisati (solo nell’esecuzione, si tratta infatti di uno dei primi dischi Chess di Muddy) citati sopra, e anche qui è subito identificabile la slide di Muddy, che perde ogni remora e lo si sente pure cantare fuori microfono in botta e risposta con Otis; Spann poi incita anche il collega pianista (Watch out brother Slim, Memphis Slim!), che interviene con moderazione sul piano truccato. Di Stirs Me Up invece se ne poteva ben fare a meno, perché oltre al prepared piano e agli altri strumenti suonati in studio, tra cui la chitarra di Clapton, Jimmy Page sovra-incide armonica, chitarra e basso (e si sente pure un tamburello), con un caotico risultato finale a base di suoni rimbombanti e distorti.

L’operazione overdub purtroppo non s’esaurisce con Page. Vernon, non nuovo a recuperi di questo tipo, quattro anni dopo ha la malsana idea di un rimissaggio generale e sovra incide qua e là due sassofoni (Bud Beadle e Steve Gregory), una tromba (Rod M. Lee) e una chitarra (Spit James). Rinomina poi i dieci remix, cosa che disorienta non poco, con titoli più beatnick (7) e li pubblica nel 1969 in un LP (Deram 1036) denominato Cracked Spanner Head, con copertina pseudo-psichedelica in cui campeggia un surfista: tutto ciò a nome di Otis Spann. Siete avvertiti.
Invece di sparire nel vuoto cosmico, questo assurdo artefatto è stato ripubblicato nel 2005 su CD con quattro bonus track in una confezione doppia (THE BLUES OF OTIS SPANN / CRACKED SPANNER HEAD) associato al disco originale il che, se non salva l’operazione, anzi la palesa ancor più inutile e ridicola, almeno rende evidente che è lo stesso disco e uno è solo la brutta copia dell’altro, con non so quanta soddisfazione dell’acquirente.

78 rpm record "The Bible Don't Lie"

Di nuovo a Manchester, Spann in maggio partecipa ad altre registrazioni per Granada TV, accompagnando Muddy e Sister Rosetta Tharpe nell’ambito del programma The Blues and Gospel Train. Di questo evento, girato dal vivo all’aperto in una stazione dei treni in disuso e comprendente anche altri artisti, esiste in rete un filmato in b/n di circa 40 minuti assolutamente da vedere, anche se l’audio non è granché e Spann non lo si riconosce né musicalmente né visivamente. Ne ho parlato nella recensione di The American Folk Blues Festival, The British Tours 1963-1966, perché quattro bonus track tratti da quel filmato sono visibili alla fine del DVD.
Le registrazioni europee di maggio proseguono per Muddy (Hoochie Coochie Man, LRC CDC 9050) non si sa dove, e per Spann a suo nome con Knowling e Smith alla Maison de la Radio a Parigi per tre tracce (Meet Me in the Bottom, Chicago Blues, Spann’s Boogie) poi uscite su una compilazione Armando Curcio Editore (84 – La grande storia del rock) stranamente accoppiate con alcune del duo di New Orleans Shirley & Lee. Nella stessa situazione parigina accompagna Sister Rosetta Tharpe. Tornato a Chicago è di nuovo in una sessione (maggio 1964) di Johnny Young con Slim Willis e Robert Whitehead presso il Sutherland Lounge (senza pubblico), per il produttore Olle Helander e Swedish Broadcasting Corporation (cinque titoli in “I Blueskvarter Chicago 1964, Volume One”).
C’è poi una strana sessione forse del 1964 per J.O.B., etichetta di Joe Brown e ‘St Louis Jimmy’ Oden, accompagnato dal sassofonista J.T. Brown e altri non definiti, in sei brani di cui quattro pubblicati su due singoli: The Bible Don’t Lie / Los Angeles Midnite Groove [strum.] (Job 1110), e T-99 / Love [strum.] (Job 1111); gli inediti sono I’m a Lonely Man e Somebody Is Knocking on My Door. Di questi ho sentito solo il 1111, e dato l’audio inaccettabile forse si spiega perché ci furono inediti, mentre quelli che uscirono lo fecero molto tardi, nel 1971 o 1972, dopo la scomparsa di Otis. La strumentazione è piano/basso/batteria, ma in Love si aggiunge J.T. Brown al clarinetto. L’audio è come quello di una registrazione dal vivo con un apparecchio casalingo dei tempi, tuttavia non si sentono rumori estranei vicini o lontani. Otis canta in T-99; il brano è sfumato sia all’inizio che alla fine.

CD cover of "The Blues Never Die" (Prestige Records)

A fine anno realizza un’altra sessione a suo nome, ma condivisa con James Cotton, pubblicata nei primi mesi del 1965 con il titolo THE BLUES NEVER DIE! su Prestige (LP PR7391, note di Pete Welding).
Da ciò che annota Sam Charters su The Bluesville Years Vol. 2, Feeling down on the South Side, s’evince che quest’occasione, la sua seconda americana da (quasi) solista a più di quattro anni dalla prima, è del tutto casuale. Infatti accadde che, dopo un concerto al Carnegie Hall, nessuno della Muddy Waters Band fu in grado di pagarsi il viaggio di ritorno, così Charters sostenne le spese per conto di Bluesville (sussidiaria di Prestige), che si rifarà con questa sessione di scambio il 21 novembre 1964 a Chicago.
Sono undici episodi regolarmente ristampati nel tempo, dalla tedesca Bellaphon, dalle inglesi Stateside e Ace, e da Prestige nel 1972, fino all’edizione del 1990 su dischetto Original Blues Classics (OBCCD-530-2), masterizzato da Phil De Lancie negli studi Fantasy a Berkeley (Fantasy è proprietaria dei marchi Prestige e Bluesville). Le parti vocali sono a metà tra Spann e James Cotton, armonicista della band dal 1956 circa, strumentalmente è un lavoro d’insieme soprattutto su tempi medi chicagoani; un’instantanea non posata della band di Muddy del periodo, con la ritmica del bassista Milton Rector e del batterista S.P. Leary. Anche qui Muddy è in incognito (Dirty Rivers), ma molto meno presente rispetto alla sessione inglese ed è la chitarra di James ‘Pee Wee’ Madison (nel posto lasciato vacante da Pat Hare) a suonare in tutte le tracce.

Spann riprende molto bene I Got a Feeling e invece con poca energia Must Have Been the Devil, ma anche questa reticenza ha il suo fascino. La sua novità più bella è The Blues Never Die, suggestiva e tipicamente spanniana con eccellente lavoro di Cotton all’armonica, mentre la più atipica per lui è After Awhile, mississippiana ad andatura swing alla Howlin’ Wolf e canto sui versi liberi del finale alla John Lee Hooker; è anche l’unica in cui si sente la chitarra di Muddy. Come On invece è più ordinaria, ma la band non lo è: un insieme spinto dalle stesse motivazioni e dall’equivalente attitudine.
Tra le cose portate da Cotton spicca il passo funereo di One More Mile to Go (Been a hard bitter journey, and I don’t have to cry no more / Baby keep your light up burnin’, so your man will know the score / One more mile, one more mile to go / There’s been a hard bitter journey baby, and I don’t have to cry no more), perla maggiorata dal coro della band (anche Muddy), e non da meno è l’uptempo Feelin’ Good con ritmica esemplare, dal repertorio di Junior Parker.
Dust My Broom è naturalmente il classico di Robert Johnson via Elmore James, e I’m Ready è il classico di Dixon via Muddy, nato anni prima da una risposta dell’armonicista Little Willie Foster (cugino di ‘Baby Face’ Leroy Foster) alla domanda se fosse pronto per andare: I’m ready, ready as anybody can be. Più tipici di Cotton sono invece Straighten up, Baby, da lui inciso dieci anni prima per Sun Records, e Lightnin’, strumentale di gruppo in cui si rileva la sua prima influenza, Sonny Boy Williamson II.
Un tassello da avere in quanto opera di musicisti all’apice della “catena alimentare” di Chicago, ma non molto rappresentativo di Spann nella prospettiva solista (e la cui voce risulta a volte un po’ bassa nel mix).

Vinyl cover of "Otis Spann's Chicago Blues" (Testament Records)

Il 22 novembre 1965 Otis accompagna Johnny Young (ai Sound Studios di Chicago) insieme a James Cotton, Jimmy Lee Morris e S.P. Leary per Arhoolie, prodotti da Chris Strachwitz e Pete Welding, con il tecnico del suono Stu Black. Il risultato si trova nel bellissimo JOHNNY YOUNG, CHICAGO BLUES (CD-325, ne ho parlato nello scritto dedicato a Big Walter Horton). Da segnalare quattro duetti di Young (voce e mandolino) accompagnato dal solo Spann: I’m Doing All Right (sul pattern di Sittin’ on Top of the World), Keep Your Nose out of My Business, Moaning and Groaning e Stealin’.
Nello stesso periodo Pete Welding lo registra come solista a Chicago per la sua Testament Records, e un album esce nel 1966 con quattordici tracce, OTIS SPANN’S CHICAGO BLUES (T-2211, esistono almeno due vinili con copertine diverse, una è questa qui sopra e l’altra è simile a quella di The Blues Never Die perché è una foto presa nella stessa occasione, ma è in b/n sulla busta a sfondo bianco). Lo stesso vinile è pubblicato in Inghilterra nel 1967 con il titolo NOBODY KNOWS MY TROUBLES su Bounty (BY 6037, qui sotto).
Nel 1994 è uscito il CD (Testament TCD 5005, cop. con la stessa foto qui sopra ma con sfondo rosso) con una traccia in più, G.B. Blues, strumentale da una sessione di Johnny Shines del giugno 1966, con Big Walter Horton, Lee Jackson al basso e Fred Below, a cura di Norman Dayron ai One-derful Studios in Michigan Ave; qui Horton oppone un registro molto acuto a uno dei suoi soliti, cioè vibrante e dal tono caldo.
Le quattordici come da disco originale non sembrano registrate in un’unica sessione (e infatti le note del CD dicono “made in 1965 and ’66”), non solo perché una parte sono con il solo Spann e un’altra con l’accompagnamento degli stessi sideman di Muddy che insieme a Spann partecipano al disco di Johnny Young sopra detto (Chicago Blues), cioè Cotton, Morris, Leary, più lo stesso Young, ma anche perché ci sono differenze audio tra i due gruppetti. In Vicksburg Blues invece, il noto brano di Little Brother Montgomery, Otis è accompagnato solo dall’essenziale scansione di Robert Whitehead, e sembra un salto nel suo passato da quanto mette a nudo la tradizione pianistica in cui è cresciuto. Non solo si rifà a uno dei suo mentori, ma lo si può immaginare in una bettola di Vicksburg, Jackson o Detroit qualche decina di anni prima, con uno stile mai così vicino a Maceo Merriweather e una chiara indicazione, anche nella conservazione del titolo originale, che è ispirato da quella di Montgomery, non da quella che in molti hanno ripreso come 44 Blues basandosi sulla versione di Roosevelt Sykes.

Cover of vinyl "Nobody Knows My Troubles", Otis Spann's Chicago Blues

I cinque brani con la band non hanno una buona qualità audio, e se la voce bassa e uniforme di Otis potrebbe imputarsi a una disfonia temporanea – difficile giudicare in quel riverbero – il resto non si giustifica.
Peccato, perché a parte le riprese di Get Your Hands out of My Pocket, con Cotton in forma come nelle precedenti registrazioni Prestige, e Sarah Street, (8) ci sono novità come Jack-Knife, strumentale in cui Otis è all’organo e Leary come al solito è fondamentale, ma il suono generale è impastato (e personalmente non apprezzo molto Spann su organo o prepared piano, a parte qualche eccezione nel primo caso), Lovin’ You, medio-lento più classico in cui è ancora all’organo, ma rimane in sottofondo ritmico e sarebbe bello senza il problema dell’impasto e della distorsione, e Who’s out There?, uptempo in cui purtroppo ancora Johnny Young non si sente granché, come negli altri episodi; l’unico che risalta ovunque è Cotton.
Molto meglio gli otto brani da solo, sia come sonoro che come ispirazione e presenza. Ritroviamo la quieta afflizione di Nobody Knows My Troubles (del pianista di St Louis Walter Davis), già come Nobody Knows nelle registrazioni Decca di Vernon di cui sopra (ma non tra quelle uscite sul disco originale), poi anche in The Bottom of the Blues (v. pross. articolo), e Spann’s Boogie Woogie, altra versione esemplare del suo complesso taglio boogie in esaltazione della tradizione pianistica del sud e del basso Midwest.
Motivate e convincenti anche What’s on Your Worried Mind (che nel 1997 andrà nel CD Live the Life in, mi pare, questa stessa versione, cosa che faccio notare perché quel disco è dato come di inediti – e lo è, tranne in questo caso), e la sciolta You Can’t Hide, improvvisazione sulla scala pentatonica spinta da un walkin’ bass attorno a un detto comune (you can run, but you can’t hide), che ancora sembra provenire da un’altra epoca. Worried Life Blues qui è più contratta (concentrata) rispetto ad altre versioni, ma il messaggio, nella stessa lingua naturale di baritono che fu di Big Maceo, ugualmente a destinazione, prima del traditional See See Rider personalizzato ed enfatizzato nel suo stile, del bellissimo One-Room Country Shack di Mercy Dee Walton, anche questo adattato al suo sentire mantenendo solo i versi topici, e del superbo quadretto di Lonnie Johnson Mr Jelly-Roll Baker inaugurato nella sessione Storyville, a ricordarci perché amiamo Spann.
Sei di questi brani (tre con la band e tre da solo) si trovano anche nella raccolta I Wanna Go Home di Hightone Records (2003), insieme ad altri sei Testament del 1968/1969, parte di ciò che contiene il disco suddetto (TCD 6001) del 1997 che raccoglie inediti (la maggior parte dal vivo), Live the Life.

Muddy Waters and Otis Spann
Muddy Waters e Otis Spann

Dal 27 al 29 gennaio 1966 è a Toronto, sia come membro della band di Muddy che come solista, in una trasmissione televisiva della rete CBC sponsorizzata dalla compagnia telefonica.
Queste belle esibizioni, che comprendono anche altri artisti, sono uscite in un DVD chiamato (Colin James Presents) The Blues Masters (9) e Spann nei suoi episodi è su di giri, complice forse, oltre al liquor, la fama che in quel periodo la compagine di Muddy ha presso i giovani rocker. Se non avete il DVD (Rhino) ammirate cosa fa in ‘Tain’t Nobody Business e in Blues Don’t Like Nobody.
Tornato a Chicago, oltre al consueto lavoro con Muddy accompagna in studio Magic Sam (Out of Bad Luck), Shakey Jake (Respect Me Baby, A Hard Road) e, in giugno ai One-derful Studios, Floyd Jones ed Eddie Taylor (Testament T2214 / TCD5001, Masters of Modern Blues), e Johnny Shines e Big Walter Horton (Testament T2212 / T2217 / TCD5015, Johnny Shines with Big Walter Horton, e parte in Hightone HCD8153, Skull & Crossbones Blues — è la sessione da cui è tratto il G.B. Blues visto sopra). Poco tempo prima (aprile 1966), di passaggio con la Muddy Waters Band a San Francisco, accompagna insieme a loro Big Mama Thornton ai Coast Recorders per Arhoolie (v. recensione al link). Il 20 agosto invece supportano John Lee Hooker al Café Au Go Go al Greenwich Village per un disco (John Lee Hooker, Live at Café Au-Go-Go) prodotto da Bob Thiele per Bluesway, sussidiaria ABC-Paramount. (10)

Avendo sottomano Spann e la band di Muddy al completo (Samuel Lawhorn, Luther ‘Snake’ Johnson [AKA ‘Georgia Boy’], Mac Arnold e Francis Clay), più George ‘Harmonica’ Smith che in quei mesi ha un breve reunion con Muddy, (11) Thiele ne approfitta (e bene farà, al contrario di ciò che otterrà a L.A. nel 1969 accostando il pianista a musicisti estranei in Sweet Giant of the Blues) e dieci giorni dopo, sempre a New York, ferma su nastro Spann come titolare di nove brani che andranno su THE BLUES IS WHERE IT’S AT (LP Bluesway BLS 6003, 1966, e BGO CD 221, 1994; v. intestazione articolo). Thiele vuole riprodurre il clima delle registrazioni Hooker e organizza un live in studio con un piccolo pubblico. Robert Gordon nel libro citato nelle fonti dice che anche il disco di Spann fu registrato al locale, e che comunque le tracce di Hooker potrebbero essere state rifatte successivamente.
Comunque sia è ben registrato (da Bob Arnold), e ne torna un’atmosfera genuina e una risonanza vivida. L’unica svista (oltre agli applausi troppo alti) forse è stata far suonare George Smith in acustico: chiunque abbia presente il suono che Smith otteneva dall’amplificazione non può che sentirne la mancanza. D’altra parte però il maestro non si smentisce, e alla fine in qualsiasi modo suoni tutto ciò che fa è eccellente. Infine, è un disco più di chitarre che di pianoforte, ma queste fanno interventi tagliati su misura e hanno un suono superlativo, mentre il canto ambrato ed espressivo di Spann, che da solo compie metà della magia, ha il primo piano che gli spetta.
Anche dove Otis riprende, l’approccio e il suono rappresentano comunque unicità, come nel suo classico slow Down on Sarah Street, ben innervato dalle chitarre e in cui George Smith immette una vena romantica e nostalgica, e nel T’Ain’t Nobody’s Business If I Do (si sente una voce femminile che lo chiede, o l’annuncia), tirato fuori con grinta e realismo pochi mesi prima a Toronto e qua impreziosito da quel poeta alla chitarra che era Sammy Lawhorn, dalla struggente linea (simil-sassofono) tirata dolcemente da Smith nell’intro e sotto la voce del pianista, e quest’ultimo che alla fine sostituisce le parole con un humming potenzialmente in grado di sciogliere un iceberg. Non aveva bisogno di lanciarsi in peripezie canore: andava a segno anche a bocca chiusa.
My Home Is in the Delta (qui chiamato My Home Is on the Delta) è uno dei due in cui si sente la chitarra di Muddy, il brano è suo (le precedenti versioni sono su Walking the Blues e nella sessione di The Blues Of). Sono novità il double entendre attribuito a Muddy Popcorn Man (equivalente del garbage man, dell’ice-cream man, ecc., e naturalmente dell’hoochie coochie man), e l’inaspettata Brand New House, di Woody Harris e Bobby Darin (sì, quello di Beyond the Sea, parte di una lunga stirpe di cantanti italoamericani), mantenente solo un paio di strofe e trasformata da canzone pop a rovente slow blues dedicato alla futura brand new bride, Mahalia Lucille Jenkins.
Nuovi anche due classici Chicago shuffle a tempo medio che sembrano avere i titoli scambiati fra loro (o perlomeno uno è sbagliato). Infatti Nobody Knows Chicago like I Do (Party Blues) a mio avviso dovrebbe chiamarsi solo Party Blues (12) dato l’argomento unico e inequivocabile del brano, probabilmente estemporaneo, glorificante appunto un party (o forse la sessione stessa, come detto svolta tra un pubblico di amici) a cui hanno partecipato i musicisti presenti alla sessione elencati da Spann, e Bo Diddley (una specie di Wang Dang Doodle insomma), e niente qui rimanda al fatto di “conoscere Chicago”, a differenza del robusto Chicago Blues, co-accreditato a un certo G. Spink, il cui incipit dichiara: “Nobody knows Chicago, people, like I do”. È una frase che è presente solo qua, e potrebbe allinearsi con il possibile testo originale (che probabilmente Spann ha cambiato; i versi successivi sono slegati dalla dichiarazione iniziale), visto che George Spink, ai tempi uno studente universitario (bianco) di Chicago, dal 1964 al 1966 lavorò al Big John’s (1638 North Wells, noto blues club nel quartiere Old Town che chiuse proprio nel 1966), oltre a impegnarsi in altre attività legate alla musica cittadina.
Completano Steel Mill Blues, generosa versione di Five Long Years di Eddie Boyd dalle formidabili, solleticanti chitarre (Lawhorn e ‘Georgia Boy’ Johnson), e il lento strumentale Spann Blues che parla attraverso i solo (chiamati da Otis) di Lawhorn, ‘Harmonica’ Smith e ‘Georgia Boy’, prima del suo originale autografo finale che sigilla questa ottima sessione.

Tain't Nobody's Business What I Do (Spivey Records)

Il 9 ottobre 1966, mentre è in tour a L.A. con Muddy, subisce un infarto: è il primo grave segnale di una salute vacillante; dopo qualche giorno torna a Chicago e riceve ulteriori cure.
Il 25 novembre è ancora a New York e registra per l’etichetta di Victoria Spivey, (13) che lo sostiene sulle pagine di Record Research e lo cattura diverse volte nella seconda metà degli anni 1960. Nei dischi Spivey Spann si trova come accompagnatore e solista in vari LP (1008, 1010 e 1013 [v. sotto], 1031 [v. pross. articolo], e nel 1017 [Spivey’s Blues Showcase] con solo una traccia solista, If I Could Hear My Mother).
Di questi ho sentito solo i primi due vinili, LP 1008 del 1966, ‘TAIN’T NOBODY’S BUSINESS WHAT I DO, e LP 1010 del 1968, THEY DONE IT AGAIN!, entrambi collettivi e intestati a “The Bluesmen of the Muddy Waters Chicago Blues Band”, presentati da Spivey a inizio disco.
Il primo volume ha dodici brani suddivisi tra Spann (2), George ‘Harmonica’ Smith (2), Luther ‘Snake-Georgia Boy’ Johnson (2, grande chitarrista con voce simil-Muddy, purtroppo scomparso troppo presto), Victoria Spivey (3), e tre strumentali della band. Il batterista è Francis Clay, e tra i crediti figura “Main Stream”, nome in codice di Muddy Waters che suona poco e non è riconoscibile per motivi contrattuali (tendenzialmente è dove si riesce a sentire una seconda chitarra). C’è un basso elettrico, ma non è accreditato; nelle note dicono suonato da Luther Johnson (nei crediti però c’è solo “voce e chitarra”), tranne nei suoi due brani solisti dove è Samuel Lawhorn a imbracciarlo, per il resto quest’ultimo splende ovunque offrendo contributi eccellenti alla lead guitar (ad es. nel solo di Take Webster’s Word for It di Victoria, ma non solo), in un disco di Chicago blues ancora classico immerso in un mare di dosato riverbero. Purtroppo George Smith, sempre pregevole e attento a non sopravanzare nessuno, è anche qui in acustico, compensando in parte con la sua risonante voce cantante (e fischiettando e facendo scat).
Nei suoi due da solista, You Done Lost Your Good Thing Now e Ain’t Nobody’s Business What I Do, Otis s’accompagna all’organo, per il resto usa il piano. Il primo è un lento ben stemperato dall’organo chiesastico in sottofondo, dalla sua voce pastosa e dalla chitarra satura di Lawhorn, grande stilista; il titolo alternativo potrebbe essere Hey Baby (l’incipit), come sarà in Sweet Giant of the Blues su un motivo simile ma con parole diverse (e in cui invece dice “Hello Baby”). Il secondo, ormai un suo cavallo di battaglia, si fa ben notare anche in questa versione e ha ancora buoni motivi di diversità con il contributo dell’eccentrica e unica Victoria e la chitarra jazzy di Lawhorn. Nel 2008 è uscita una versione CD del disco su P-Vine, con due bonus di Luther Johnson.

They Done It Again! (Spivey Records)

Le altre sessioni Spivey avvengono dopo il 1966 ma le accenno qua per comodità.
Il secondo volume sopracitato (LP 1010) contiene sei brani registrati nel 1967 e quattro nel 1968, sempre a Brooklyn nell’appartamento di Victoria Spivey. Qui appaiono – oltre a Spann e Sammy Lawhorn presenti in tutte le tracce, e al piccolo inserimento vocale della padrona di casa in due occasioni – i chitarristi Luther Johnson (1967) e ‘Pee Wee’ Madison (1968), il bassista Little Sonny (Lawrence) Wimberly e il batterista S.P. Leary nella sessione del 1967, l’armonicista Paul Oscher e il batterista Willie Smith in quella del 1968. Partecipa inoltre con un brano Lucille Spann, che dal 1967 comincia a duettare con il marito.
Spann accompagna tra piano e organo, e in quattro c’è la sua voce, ma tre sono duetti (o quasi): Wonder Why (sarà ripreso nell’ultimo disco del pianista, Last Call, v. pross. articolo), portato da Lucille, mentre Spann risponde in parlato, accompagnati dalla lead e dal solo di Sammy Lawhorn, e da Luther Johnson, Wimberly, Leary, Diving Mama, breve improvvisazione con Victoria sulla falsariga di Ain’t Nobody Business, Lawhorn lirico a intrecciarsi con l’organo del nostro e con ‘Pee Wee’ Madison sul tempo lento scandito da Willie Smith – qui è Otis a cantare e Victoria interviene in semi-parlato, e che differenza rispetto ai duetti con Lucille che farà in seguito: questo è solo un episodio buttato lì, ma è evidente come Spivey sia della sua stessa stirpe e che intenda il duetto come un dialogo, non come un “canto-un-po’-io-e-canti-un-po’-te” – e infine il lungo, “sessantottino” e altrettanto estemporaneo Mother and Son, Spann in piena confidenza all’organo con suoni grevi sulla pedaliera e particolare enfasi vocale (si senta l’intro, spinto da quell’“Oh” [di “Oh Lord”] così accentuato), sempre più a suo agio in veste di leader. Si rivolge direttamente alla “Queen”, che entra solo verso il finale lasciando la scena a Otis, all’apprezzabile solismo di Lawhorn (sollecitato dal pianista a continuare), agli accenni wah wah di ‘Pee Wee’ Madison e al caldissimo solo di Oscher (incitato da Spann più volte), il primo armonicista bianco a entrare nella band di Muddy; peccato solo per la qualità audio non ideale.
She’s My Baby è più tradizionale con il pianoforte, ma la voce di Otis è bassa nel mix, un po’ coperta dal suono alto e metallico di Lawhorn, con ritmica di Luther Johnson, Wimberly e Leary.
Completano gli strumentali collettivi Blues Trot e Blues for Spivey, il primo vetrina per l’acrobatico solismo di Lawhorn, il secondo più articolato, con piano e solismi delle chitarre, quella di Lawhorn in un registro alto, quella di Johnson in uno basso (come dicono le colorite note dei dischi Spivey), Been Hurt, intenso momento solista di Luther Johnson, che con il suo canto blues aspro e il suo suono saturo sembra sempre suonare dal vivo in un juke joint, l’incalzante Funky Broadway portata dal bassista Sonny Wimberly alla sua prima registrazione vocale, tutta ritmo funky sostenuto dai due chitarristi e con S.P. Leary concedente due assolo, la struggente Last Night, dedica di ‘Pee Wee’ Madison all’appena scomparso Little Walter, Oscher a impreziosire e Spann sia al piano che all’organo, dai suoni però piuttosto impastati, e How Much More, Sammy Lawhorn anche lui al debutto solista in un tipico brano di J.B. Lenoir, accompagnato dall’organo, da Madison e da Oscher. Rispetto al disco precedente ci sono accenti più moderni e sonorità distorte, forse più accidentali che volute, e un’altalenante qualità audio, mediamente bassa, che impasta i suoni bassi e rende gracchianti quelli alti. La riedizione in CD di P-Vine del 2009 aggiunge quattro bonus: Yes Sir! Boss (strum.) e Take Webster’s Word For it (V. Spivey, alt. take di quella nel disco precedente), dalla sessione del 25 nov. 1966, e I’m A Bad Boy e Going Back Home, dalla sess. del 1969 edita sull’LP 1013.

The Everlasting Blues vs Otis Spann (Spivey Records)

Il vinile 1013, THE EVERLASTING BLUES versus OTIS SPANN, nonostante il titolo non è un disco solista di Spann (forse dedicatogli perché dev’esser uscito appena dopo la sua scomparsa dato che le note di copertina lo coniugano al passato), ma ancora un collettivo di solisti chicagoani che si dividono le parti, con Johnny Young (mand.), Luther Johnson, S.P. Leary e il giovane chitarrista bianco Peter Malick. (14)
Contiene otto registrazioni effettuate, secondo le note di copertina, durante la settimana di Spann al Cafe Au Go Go di New York nell’aprile 1969 con Johnny Young e la band sopracitata, ma il sito Wirz’ American Music dice che solo le tracce di Young sono dal locale, e Peter Malick racconta (15) come arrivò a suonare con loro al Go Go, ma parla di tracce registrate al Nola Penthouse Studios di New York, come appare nella discografia di B. Rowe nelle fonti. Spann è solista in I’m a Bad Boy e You’re Going to Miss Me When I’m Gone, e ne hanno due a testa anche Johnny Young e Luther Johnson, più una attribuita a Spann e Johnson come “comedy sketch”, Where Is My Wife?, e un duetto Spivey-Spann, Going Back Home. Dell’LP 1031 invece, UP IN THE QUEEN’S PAD, registrato nel 1969 e uscito a suo nome, ne parlo nel prossimo articolo (anche se come detto questi ultimi due non li ho sentiti).

Chicago/The Blues/Today!

Questo intenso periodo lo chiudo con le sue prime registrazioni Vanguard, avvenute alla fine del 1965 (quindi antecedenti a quelle Spivey e a quelle di The Blues Is Where It’s At) e uscite nel 1966, oggi rintracciabili nel CD (VMD 79216) CHICAGO / THE BLUES / TODAY! (Vol. 1). Nelle note l’autore Sam Charters, produttore della sessione, tratteggia un ritratto romantico del South Side di Chicago, dei suoi locali e musicisti, ma non dà nessuna indicazione sulla data e il luogo precisi. Tuttavia nella discografia di Bill Rowe si riporta che è avvenuta nel dicembre 1965 agli studi RCA, 445 N Lake Shore Drive. Nella stessa situazione Spann accompagna le registrazioni del Jimmy (James) Cotton Blues Quartet.
Nei tre volumi Vanguard, Charters cattura una fetta della scena chicagoana; Otis Rush, James Cotton, Homesick James, Johnny Shines, Johnny Young, Big Walter Horton, tutti con band di notabili, e in questo primo volume oltre ai cinque bellissimi brani di Spann, intitolati Otis Spann’s South Side Piano, ce ne sono altrettanti di Junior Wells (con Buddy Guy, Jack Myers e Fred Below) e di J.B. Hutto & His Hawks.
La sua preziosa voce purtroppo è danneggiata, forse una raucedine temporanea; come si vede in molte foto, Otis è un forte fumatore e infatti, come detto, da lì a qualche mese avrà un infarto. A ogni modo le capacità e la comunicativa sono integre, e il pianismo appare all’apice espressionista, con frizzanti corse sui tasti: nella sua vena artistica scorre ancora purissimo sangue, a differenza delle vene nel suo corpo.
È accompagnato solo dal batterista S.P. Leary: i due si leggono nelle intenzioni perfettamente, e alternativamente fanno anche ciò che farebbe un contrabbassista.
La qualità audio è brillante e i brani cantati sono solo due, Burning Fire, dramma in cui la voce bruciata non fa altro che aumentarne il fascino, e Sometime I Wonder, ancor più intrusivo, liquido denso che penetra goccia a goccia. Anche gli strumentali sono eccellenti; forse solo Leary e Muddy Waters sapevano accompagnarlo così (beh, anche Sammy Lawhorn e ‘Snake-Georgia Boy’ Johnson…). Marie, shuffle impetuoso come una ventata benefica spalancante una finestra chiusa, il meraviglioso S.P. Blues, un 44 Blues (Montgomery, Sykes) ispirato dalla versione Howlin’ Wolf, e il tiratissimo boogie Spann’s Stomp: se tutto ciò può arrivare da un uomo malato, allora qualcosa non quadra. Alla prossima e ultima puntata.

Muddy & Band in Memphis
Otis Spann, Hubert Sumlin, Muddy Waters, James ‘Killer’ Triplet
@Jones Hotel, Memphis, 1956
(Photo Courtesy of Mud Morganfield and Bob Corritore)

(Fonti: Robert Gordon, Hoochie Coochie Man, La vita e i tempi di Muddy Waters, Fazi Editore s.r.l., Arcana Libri, Roma, 2005; Otis Spann Discography at Discogs; The Complete Muddy Waters Discography compiled by Phil Wight and Fred Rothwell; Documento di Alan Balfour su Otis Spann, luglio 2000; Testament Records Discography sul sito Wirz’ American Music; Bill Rowe, The Half Ain’t Been Told, An Otis Spann Career Discography [rivista e aggiornata da Chris Smith e Howard Rye, gentilmente inviatami da A. Balfour], Micrography, 2000; About George Spink).


  1. Da qualche parte nel web si legge che c’è Willie Smith (Willie ‘Big Eyes’ Smith), ma si sente solo un battito a tenere il tempo, evidentemente del pianista stesso.[]
  2. Nel finale dell’originale c’è un’altra altrettanto efficace strofa in cui Johnson cita il Maxwell House coffee, bevanda in voga negli anni 1950.[]
  3. Mi viene in mente anche il magistrale accompagnamento in minore di Spann a Buddy Guy in One Room Country Shack (da A Man and the Blues), dove durante il suo solo sta su un registro basso in un trionfo di reticenza e sottigliezza.[]
  4. Various, Les Rois Du Blues, Score – SCO 8614, 1981, 3 vinili.[]
  5. Tre rimangono inedite, ma poco male: due alt. take e una che se non l’hanno fatta uscire devono aver avuto un buon motivo visto che hanno sfruttato queste registrazioni fino all’osso.[]
  6. Various, Black & White Blues, The Little Red Rooster – Chess, 1981, 2 vinili.[]
  7. Sono rinominati in questo modo: Keep Your Hands out of My PocketCrack Your Head, JangleboogieIced Nehi, Rock Me MamaWagon Wheel, Natural DaysNo Sense in Worrying, The Blues Don’t Like NobodyDollar Twenty Five, I Got a FeelingEverything’s Gonna Be Alright, T-99Lucky so and So, I Came from ClarksdaleSometimes I Wonder, Meet Me in the BottomMr Highway Man, Lost Sheep in the FoldWhat Will Become of Me.[]
  8. In questa versione di Sarah Street Spann nomina la prima moglie, Olga Marie o Ola Marie, in due strofe. In una dice: Sweet Marie, know that woman she’s good to me, nell’altra: Ola Marie, know the girl she’s good to me. Sicuramente anche Marie in Chicago/The blues/Today! è dedicato a lei.[]
  9. Colin James è un musicista canadese aggiunto nell’edizione DVD come presentatore. La sua presenza, anche se virtuale, è abbastanza invadente; addirittura suona inserito sul set originale con un montaggio. La trasmissione d’origine si chiamava Bell Telephone Presents the Blues.[]
  10. La band di Muddy è ingaggiata al Café Au Go Go anche in maggio e settembre.[]
  11. Più o meno dall’estate alla fine del 1966[]
  12. Al contrario di ciò che dice la discografia di B. Rowe[]
  13. Spivey Records, presso la sua residenza al 65 Grand Ave a Brooklyn, fondata da Victoria Spivey e il suo compagno, Leonard R. (Len) Kunstadt, editore di Record Research. Spivey registrò anche un giovane Bob Dylan insieme a Big Joe Williams.[]
  14. Malick, anche autore e produttore, visse a Chicago insieme alla famiglia Spann, al 4311 Greenwood nel South Side, e sarà nella band di Spann post-Muddy.[]
  15. Aggiornamento 2023: link rimosso perché non più esistente.[]
Scritto da Sugarbluz // 16 Febbraio 2014
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3 risposte

  1. fred ha detto:

    When you’re in trouble,
    blues is a man’s (girl’s) best friend.
    When you’re in trouble,
    blues is a man’s (girl’s) best friend.
    Blues is on the way you’re going
    and the blues don’t care where you’ve been.

    The blues never die, and the blues will never leave you babe.
    Happy Birthday Sugar.

  2. Sugarbluz ha detto:

    Thanks so much and belated Happy Birthday to you too.
    But I must correct you. 🙂
    Blues ain’t gonna ask you where you’re going
    And the blues don’t care where you’ve been

  3. fred ha detto:

    Abbandono l’idioma aglosassone per utilizzare quello latino, notando che ci siamo scambiati gli auguri nella data di mezzo, invoco all’uopo la comune locuzione “in media stat virtus” o se preferisce cito Ovidio “medio tutissimus ibis”. D’altronde, lupus mutat pilum, non mentem. 😉
    Scherzi a parte, oltre Otis Spann (che installerei tipo Matrix su ogni pianista che vuole anche solamente provare a sfiorare i tasti e dire oggi ho cercato di suonare blues) sinceramente penso che Cotton all’armonica su The Blues Never Die è letteralmente devastante. Come al solito ottimo lavoro Sugar!

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