Otis Spann – Is the Blues & Walking the Blues

Otis Spann Is the Blues CD coverOtis Spann, Walking the Blues CD cover

Otis Spann ha avuto una carriera discografica solista relativamente breve, ma molto di suo è stato messo sul mercato e guardando tra ristampe con aggiunte, riedizioni con strani remix, compilazioni, rarità, introvabili e roba varia, non è facile districarsi. Inoltre più di un’edizione ha adottato titoli che s’assomigliano comprendendo sempre la parola “blues” su pubblicazioni uscite nel giro di pochi anni, creando un po’ di confusione.
Qui prendo in esame la sua prima estesa seduta di registrazione come solista (1960), preceduta da piccole occasioni che rimasero isolate (e dalla sua esibizione a Newport, che di fatto aprì la sua carriera solista), e tutto ciò che è a suo nome fino al 1960. In seguito allargherò la panoramica ripartendo dal 1963 (non ebbe altre occasioni soliste nei due anni precedenti) per approfondire la produzione personale di questo pianista superlativo che, pur non essendo stato un innovatore nel senso comune del termine, occupa una posizione unica nell’universo della musica blues (e della musica americana), rimanendo insostituito.
Non mi soffermerò troppo sulla sua consistente attività di sessionman, anche se la annoterò nella maggior parte dei casi (1) – attività che ha sempre continuato a svolgere e non solo presso Chess, per molti colleghi e per circa sedici anni come parte fondamentale della prima formazione a definire la classica blues band elettrica (chitarre, basso, armonica, pianoforte, batteria), e fucina di talenti, la Muddy Waters Blues Band a Chicago.

Molte biografie danno le stesse, discordanti notizie, e qualcuna reitera ancora una vera consanguineità con Muddy Waters, come half-brother. Dichiarare questa parentela dimostra una non-conoscenza del legame umano e musicale tra i due e, per estensione, una non-conoscenza della band di Muddy.
La pecca non è tanto nel pensare che i due fossero davvero fratellastri, (2) anche se ciò implica ignorare le loro origini, ma è non tenere in conto che quando uno accennava all’altro come a un fratello lo faceva in virtù del rapporto umano oltre che artistico: Spann il bandmate più adattabile, sensibile e duraturo che Muddy abbia mai avuto. Inoltre è uso comune tra gli afroamericani definirsi “fratelli” anche con persone lontane o sconosciute, specie in caso di affinità e condivisione, complice lo stesso destino che nei tempi più duri legava quel popolo. Non aiuta che non esista una vera biografia di Spann e che le ingannevoli, contraddittorie notizie che lo riguardano – per la maggior parte fornite da lui stesso e diverse a seconda delle occasioni – siano sparse in decine di pubblicazioni.
Fin dall’inizio la storia è confusa e persino la nascita a Jackson, MS, il 21 marzo 1930, è incerta, tanto che nel testo della Mississippi Blues Commission sul marker storico dedicato a Spann e Little Johnny Jones in Roach Street a Jackson è riportato che “diversi documenti e molti musicisti suggeriscono che era più vecchio”. (3)
Inoltre, Spann disse a Paul Oliver di provenire da Belzoni, (4) dove da bambino imparò a suonare da Friday Ford, pianista locale che secondo Little ‘Brother’ Montgomery – di casa a Jackson negli anni 1930/1940 e mentore sia di Spann che di Johnnie Jones – ne era il vero padre.

I genitori ufficiali sono però Josephine Erby (o Ervin), chitarrista che, a detta di Otis, registrò con Memphis Minnie (non documentato), prima di rinnegare il blues per la religione, e Frank Houston (o House) Spann, pianista, falegname, predicatore, e i due crescono altri quattro figli.
La concomitanza con Little Johnny Jones (1924/1964) va oltre ‘Brother’ Montgomery. I due, infatti, sono cugini di primo grado e crescono insieme suonando in chiesa a Jackson dov’è pianista la madre di Jones, Mary, mentre il patrigno George Jones fa il camionista, ma si diletta di chitarra e armonica. Spann a volte sembra indirettamente contraddire la sua dichiarazione dell’anno di nascita, ad esempio quando dopo la morte di Jones dice di lui:

My favorite piano player – I hate to say it, he was my first cousin, dead now and gone, we were two sisters’ children – is Johnnie Jones. I wind up teaching him, but he beat me at my own game. (5)

Qui Spann ritiene d’aver insegnato a Jones e si considera sorpassato da lui, ma è abbastanza improbabile che tra due giovani pianisti di pari talento e formazione sia quello con sei anni d’età e d’esperienza in meno a insegnare all’altro, quindi forse Spann aveva più o meno la stessa età.
Jones arriva a Chicago giovane, ma già formato, nel 1945 o ’46 (almeno un anno prima di Otis), acquisendo ottima reputazione; è nota la sua liason con Elmore James da Sylvio’s e nei Broomdusters, come le sue esperienze con Howlin’ Wolf, Magic Sam e con Muddy prima di Spann.
Entrambi sono influenzati direttamente da Big Maceo Merriweather, ma anche qui Jones arriva prima e, se con lo sguardo di poi è Spann ad aver continuato la tradizione pianistica di Big Maceo e a essersi idealmente sovrapposto alla sua figura, grazie anche all’assonanza vocale, di fatto ai tempi è Little Johnny Jones a prendere il suo posto sul seggiolino vicino a Tampa Red, anche prima della definitiva uscita di scena del grande e sfortunato pianista georgiano, colpito da un infarto pesantemente invalidante.
La famiglia Spann vive in South Roach Street a Jackson, e da ragazzino Otis vince una gara di talenti sponsorizzata da un politico locale all’Alamo Theatre. S’esibisce in (da prendere con beneficio d’inventario) Backwater Blues di Bessie Smith e Four O’Clock Blues di Coot Davis (6) aggiudicandosi i venticinque dollari del premio, e nella vincita è compreso ciò che il pianista riferisce a Peter Guralnick: «Mr Alamo mi faceva suonare negli spettacoli di vaudeville. Ragazzi, avevo un piccolo smoking e un cappello, davvero niente male», (7) dopodiché a quattordici anni comincia a esibirsi con una band nella zona di Jackson. Tra le influenze del periodo rientrano anche Leroy Carr e Sunnyland Slim, ma dalle registrazioni soliste è evidente che in lui c’è la tradizione pianistica blues nel suo insieme e nessuno in particolare, salvo ciò che lo riporta inevitabilmente a Merriweather.

I played my own style. People were wondering at first, because I have short fingers. They figured I couldn’t physically play that much piano. But you can make an instrument do what you want it to do. (8)

Di nuovo sul marker si legge che si sposa nel 1945 e vive a “Plain” (dov’è?), e nelle altre fonti tutto ciò che segue fino all’inizio delle registrazioni a Chicago è poco credibile.
Spann, infatti, ha dichiarato d’essersi arruolato nell’Esercito a sedici anni, rimanendoci ben cinque anni, sette mesi e undici giorni, per la maggior parte passati in Giappone e per poco in Germania, uscendone con il grado di second lieutenant; nelle note di Neil Slaven al vinile inglese The Blues of Otis Spann si riportano perfino le sigle dei campi militari. Dal certificato di morte però risulta che ha servito in Corea, “dettaglio” forse suggerito da un parente; in ogni caso negli archivi U.S. Army non c’è alcuna traccia della sua lunga attività militare, come riferisce Alan Balfour nella ricerca citata nelle fonti.
Se tutto ciò fosse vero, ci sarebbe allora da chiedersi dove collocare le sue dichiarate attività di giocatore “semi-professionista” di football e quella “professionista” di pugile (il grado di professionismo cambia da intervista a intervista), aumentate da un contemporaneo piano di studi per diventare medico, al Jackson’s Campbell College.

Little Johnny Jones, Otis Spann, Mojo Buford in Chicago in the 1950s
Little Johnny Jones, Otis Spann, George ‘Mojo’ Buford (Chicago, anni 1950), da Living Blues 42 (1979), p. 24 (Courtesy Letha Jones)

Le note di Neil Slaven (9) specificano che per un breve periodo gioca professionalmente per il Bells Football Team, dopo esser stato quarterback per i Jackson Pioneers e i The Bees, e per quanto riguarda il pugilato afferma che anche in questo campo riesce bene, “rimanendo imbattuto per ventuno combattimenti, ma uscendone con entrambe le mani rotte”.
Durante gli stessi cinque-sei anni di militare/atleta/aspirante medico (tripla proiezione dell’americano di successo di allora?) lo troviamo però anche a Chicago, dato che un’altra sua dichiarazione afferma di esservi arrivato nel 1947, raggiungendo il padre e una zia che già vivevano là dopo la morte di sua madre, e la sua presenza nella Windy City è confermata da colleghi musicisti.
A Chicago è stuccatore di giorno e pianista e gran bevitore nei club del West Side di notte, e «verso la fine degli anni Quaranta ottenne un ingaggio regolare al Tick Tock Lounge, all’angolo tra la 37ª e State Street, alla guida di una grande band che comprendeva una sezione fiati», (10) come confermato da Billy Boy Arnold che ha ricordato d’averlo visto suonare “in piedi come Little Richard” e d’esserne rimasto molto impressionato, e quindi per niente sorpreso quando “pochi mesi dopo” entrò nella band di Muddy Waters. (11)

Non mi interessa investigare sulle libertà che Otis Spann s’è preso nel rispondere alle domande, perché tutto ciò non aggiunge e non toglie nulla alla sua arte. Annaspo più volentieri nella materia musicale, ma per completare il quadro devo dire che è confuso anche come e quando Otis incontra e/o comincia a lavorare con Muddy. Qualcuno dice dopo un’audizione nel 1947, altri dicono più tardi perché Spann in quel periodo è nella band del chitarrista Morris Pejoe, lasciata quando Pejoe abbandona la carriera, oppure Muddy a un certo punto gli chiede di suonare occasionalmente in qualche data, finendo poi per rimanere a partire dal 1952/1953. Quest’ultima teoria forse deriva dal fatto che le registrazioni di Spann insieme a Muddy – e le sue prime in assoluto – cominciano nel 1953, esattamente il 24 settembre all’Universal Recording Studios: esce il disco Chess 1550 di Muddy Waters Blow Wind Blow / Mad Love (I Want You to Love Me) con Little Walter, Jimmy Rogers ed Elga Edmonds. (12)
Neil Slaven riporta le parole di Muddy, il quale interrogato sulla questione risponde che quando seppe che Otis era “tornato” in città lo andò a sentire al “Lounge” e gli offrì di lavorare con la band, lasciando intendere che lo conosceva perché avevano suonato insieme in Mississippi, aggiungendo: «Non lo darei via per tutto l’oro del mondo, ma se un giorno vorrà andarsene per conto suo gli auguro tutta la fortuna possibile, perché è uno dei pianisti blues più grandi del pianeta – e dico sul serio».
Un’altra fonte è Jimmy Rogers, il quale vuole inserire un pianista nella band nonostante il capo non sia interessato. Rogers dice che è Little Johnny Jones (13) a parlargli di Spann, e quando finalmente Otis ottiene un’audizione poi è preso. Robert Gordon in Hoochie Coochie Man fa risalire l’evento al 1951, e riporta che in quel periodo Spann è senza band e se la passa male, dormendo in macchina. Se poi trascorrono due anni prima che il pianista metta piede in uno studio accompagnando Muddy (in quel periodo quasi tutte le registrazioni Chess avvengono ai suddetti Universal Studios) è forse solo perché Leonard Chess non ha intenzione di rischiare con un suono nuovo. Dai tempi di Aristocrat sta vendendo ancora bene quei dischi al sapor di Delta con, oltre a Muddy, solo armonica acustica (Little Walter), basso (Ernest ‘Big’ Crawford) e/o batteria (Elga Edmonds), e dalla fine del 1951 anche con la chitarra di Jimmy Rogers. Comunque, una volta che il pianista è dentro e impara a supportare Muddy, quest’ultimo s’accorge che il suo contributo è diventato irrinunciabile:

C’è stata una grande differenza dopo che lui è entrato nel gruppo, la nostra musica è diventata più corposa. Quel suono di pianoforte ha veramente sistemato ogni cosa. Vedete, i miei blues non sono così semplici da suonare come pensa molta gente. Faccio i miei blues in misure diverse, a volte tredici, quindici, quattordici battute: come mi viene. Spann, ecco com’era. Non gli importava sapere che tempo tenevi, lui riusciva sempre a tenerlo con te. (14)

Nella band di Muddy, Spann è molto più che semplice membro. A parte ciò che fa strumentalmente legando insieme i suoni di tutti con discrezione e sapienza, dietro le quinte svolge funzioni extra. Accoglie e istruisce i nuovi ingressi, mette insieme i pezzi e spiega come accompagnare l’anarchico leader, conoscendo a menadito i suoi brani e il suo modo di eseguirli; è come un direttore artistico, mentre Jimmy Rogers è colui che fa rispettare la disciplina e, come Muddy, tiene un atteggiamento piuttosto distaccato con gli altri musicisti. James Cotton ha ricordato che «(Muddy, ndr) Doveva imparare le canzoni e io e Spann gliele cantavamo. Spann era quello che le componeva, ma i crediti li prendeva Muddy. A Spann non importava. Spann era un pianista innamorato del whisky. Gli interessava solo suonare». (15)
Preferisce non esser leader per evitare responsabilità e per poter bere liberamente: ciò non influisce sul suo rendimento, ma se avesse fatto il capo avrebbe dovuto rimanere sobrio. Da Chess in studio accompagnerà non solo Muddy (dal 1953 sempre, con pochissime eccezioni, fino alle sessioni di Fathers & Sons comprese [1969], e non solo presso Chess; tutto coincide con la sua presenza nella band), ma anche Jimmy Rogers, Howlin’ Wolf, Little Walter, Lowell Fulson, S.B. Williamson, Buddy Guy, Bo Diddley. (16)
Bill Rowe nell’introduzione alla sua “Otis Spann Career Discography”, (17) gentilmente inviatami da Alan Balfour, mette in dubbio la presenza di Spann nella sessione Chess di Chuck Berry del 20 dicembre 1955, tuttavia la include perché la maggioranza delle fonti, a parte Berry, dice così.

78 rpm record "It Must Have Been the Devil"

Viceversa il suo potenziale solista alla Chess non è molto considerato.
Il suo primo singolo, It Must Have Been the Devil accoppiato allo strumentale Five Spot sulla sussidiaria Checker, nasce il 25 ottobre 1954 con la particolarità della presenza di B.B. King. Il suo canto, qui più da shouter, ha poco a che vedere con quello di poi (ed esce distorto) e il chitarrismo è preminente, ma i brani sono originali. Sanno di rock ‘n’ roll memphiano. La discografia di Rowe indica George Smith all’armonica, Willie Dixon al contrabbasso, Earl Philips alla batteria e ben altri due chitarristi: Jody Williams e Hubert Sumlin, ma io distinguo solo due chitarre (probabilmente è Sumlin il mancante).
Nel 1956 ne registra altri due per Chess, I’m in Love with You Baby e I’m Leaving You (con Big Walter Horton, Robert Jr Lockwood, Dixon e Fred Below), che però rimangono sugli scaffali e sono pubblicati solo nel 1984 dalla giapponese P-Vine in una compilazione (Various, Chicago Piano-ology, PLP-6022).
Qui la voce è migliore, ma gli episodi non sono molto “spanniani” nell’esecuzione (il primo ricorda Little Walter), come nel tema e nel carattere (il secondo pare prendere dal Tee Nah Nah di Smiley Lewis). Potrebbe sorprendere un po’ che da Chicago guardassero a New Orleans, ma quel brano fu un hit per Lewis su Imperial, e guarda caso vendette bene anche a Chicago. La conferma a questa impressione è nella seduta Decca di The Blues Of, dove Spann l’ha ripreso in modo più evidente e con il titolo dalla pronuncia simile, T-99 (v. pross. articolo). Dopo non ci saranno altre sessioni Chess a suo nome conclamate (di quella ipotetica Checker del sett. 1963, inedita, ne parlerò nel prossimo articolo). Forse, se non fosse stato per ciò che mostrò al Newport Jazz Festival il 3 luglio 1960 a una platea differente e soprattutto agli addetti ai lavori, non ce ne sarebbero mai state altre, data anche la sua mancanza di ambizione.

Otis Spann, "Rarest Recordings" feat. Muddy Waters & James Cotton vinyl cover

La storia è nota. Dopo i disordini causati da migliaia di giovani alticci e agguerriti all’esterno dell’area concerti, gli organizzatori decidono di chiudere il festival in anticipo annullando la programmazione dei due giorni successivi, mantenendo però le esibizioni della domenica pomeriggio dedicate al blues, con la partecipazione in veste di emcee del poeta Langston Hughes, poiché c’è già un accordo stipulato per delle registrazioni video.
A fine giornata tutti gli artisti salgono sul palco per un medley di classici, alternandosi alla voce. Hughes, colpito dalle parole di Willis Conover annuncianti la chiusura del festival, presagita come definitiva (ma il festival tornò dopo due anni), commosso da tutte quelle personalità riunite e pensando che una situazione simile non si sarebbe più vista, compone una poesia estemporanea, Goodbye Newport Blues, “sul retro di un modulo per telegrammi della Western Union” (18) e la dà a Spann perché Muddy non sa leggere.
Otis “thought for a while, then played a brief introduction and began to sing”, (19) mettendo in luce il suo canto caldo ed espressivo dal timbro piacevolmente granoso, seguito da una formazione allargata (oltre ai compagni della MWBB, cioè James Cotton, Pat Hare, Andrew Stephens [AKA Stevenson o Stephenson] e Francis Clay, ci sono anche ‘Butch’ Cage al violino e Willie Thomas alla chitarra, che però non si sentono, e Lafayette Thomas, presente al festival come membro del Sammy Price Trio) i cui strumenti entrano in lenta successione, ma rimanendo leggeri adattandosi al delicato e drammatico requiem del pianista.
In un altro imprecisato momento durante quel lungo pomeriggio a Newport, prima o dopo il set con Muddy e la band (che, tra l’altro, accompagna anche J.L. Hooker), Spann è ancora solista con quattro episodi strumentali (insieme a Cotton, Hare, Stephens, Clay) classificati come “piano demonstrations”, presentati e commentati da Hughes.

Muddy Waters & Otis Spann Live at Newport

Chess, nel far uscire l’album Muddy Waters at Newport 1960 (con nove brani compreso Goodbye Newport Blues) omette questo omogeneo set di Spann che, sebbene dal vivo sia stato probabilmente impostato come una dimostrazione di piano blues e quindi vissuto più come momento “didattico”, con titoli generici a indicarne la tipologia, di fatto comunque presenta tracce a sé stanti brevi ma compiute, senza cioè interventi parlati, che su disco sarebbero potute apparire come qualsiasi altro brano.
Boogie Woogie, Slow Blues, Jump Blues e St Louis Blues sono brillanti, con ottimo audio e aderente accompagnamento dei bandmate a esaltare il pianismo spanniano, dal vivace e fiorito boogie su tipica polifonia chicagoana a tempo medio, all’intarsiato, poetico lento riversante pioggia e dramma (alla cui fine si sente un distinto “beautiful”, forse di Hughes), dal jump in cui il suono grasso di Cotton plana sullo shuffle di Clay e le corse sulla tastiera di Spann, alla jazzy, elegante versione del classico di Handy, alternante ritmo di tangana e portamento swing.
Il gruppetto sarà pubblicato in Inghilterra solo nel 1984 sul vinile OTIS SPANN feat. MUDDY WATERS & JAMES COTTON, RAREST RECORDINGS (JSP 1070), insieme a un brano di Muddy omesso dal disco Chess, Catfish Blues, e a cinque tracce intestate a Spann provenienti da un’occasione di cui non si conoscono dettagli in seno al tour europeo American Folk Blues Festival del 1963 (v. pross. articolo), accompagnato da Dixon e il batterista Bill Stepney (Everything Gonna Be Alright, Love Me or Leave Me, Spann Boogie, Why Did She Have to Go e Why Should I Cry). Dal 1994 il set è rintracciabile su CD in una riedizione dell’inglese Charly, unito ai brani come nel disco originale del Live at Newport 1960 e a Catfish Blues, intitolata MUDDY WATERS & OTIS SPANN – LIVE AT NEWPORT (CDRB 6).

Una decina di giorni dopo è nel progetto di interviste e registrazioni sul campo di Paul Oliver sfociato in Conversation with the Blues (libro e disco) lasciando un paio di brani solo voce e piano preceduti da brevi introduzioni parlate dello stesso Spann, alle quali è stato dato un titolo come episodi a sé: la prima è When She Come Back, storiella romanzata su come sua madre scoprì che suonava blues.
Otis racconta che il padre, una volta convinto che il figlio intendeva suonare il blues, gli comprò un pianoforte e glielo portò a casa un venerdì sera, all’insaputa della madre, che era religiosa e non voleva che il figlio suonasse musica mondana. Il giorno dopo, sabato mattina, i genitori uscirono per recarsi in città e Otis si chiuse dentro a chiave per poter suonare indisturbato, ma la madre, avendo dimenticato il suo taccuino, tornò indietro e lo scoprì.
Il padre di Otis la convinse a lasciarlo fare, e lo tenne sveglio “for three nights playin’ the blues!”; il tipo di blues che gli piaceva sentire era, conclude Otis, “a real old number”: Poor Country Boy. La voce è bellissima e vibrante, mentre il pattern pianistico, il battito del piede e l’acustica ricordano le registrazioni Storyville (v. pross. articolo). Ha alcuni elementi in comune con il Country Boy che farà, più articolato e con audio maestoso, nella seguente sessione Candid, ed è una delle prime prove solistiche a mostrare chiaramente l’uso del make-up testuale da parte di Spann, il quale sembra spesso improvvisare cogliendo dalla memoria frasi o voci da un repertorio blues non casuale. Ad esempio qui mi ha incuriosito il rimando preciso a una “Mr Rudolph’s farm”; immaginando non si trattasse di un cenno biografico, ho cercato chi altri prima di lui poteva aver citato quel nome e ho trovato che in Big Apple Blues (1941) John Lee ‘Sonny Boy’ Williamson dice: I know you got some good apples / right down on Mr Rudolph’s farm.

Conversation with the Blues by Paul Oliver, Book and CD

In Only Places They Can Go invece il discorso è più confuso e, pur trovandoci un senso finale, è chiaro che è un tramite per presentare altri nodi testuali ricorrenti nel blues: la sfortuna, il gioco d’azzardo, l’abbandono e, anche qui, situazioni possibili nella vita di un bluesman (la sua o quella di qualcun altro, l’individuale a valenza universale).
Infatti, dopo aver detto che in città come Belzoni, Mississippi, gli unici posti in cui i neri potevano andare erano gli honky tonk durante i fine settimana, Spann definisce ciò che chiama “barrelhousin'” (20) in un modo pressoché intraducibile dicendo che “barrelhousin'” significa “store-porchin'” (stare sul portico di un negozio, in riferimento ai musicisti che suonavano davanti all’ingresso per le mance) e “storeporchin'” significa che “qualcuno suona il piano”, e lo suona perché ha perso tutti i soldi al tavolo da gioco, oppure non ne ha abbastanza per poter giocare, e «questo è ciò che io intendo per barrelhousin’… E così quando non ha più denaro e nessuno gli permette di giocare, si siede al piano e comincia a suonare…» cose come People Calls Me Lucky, anche questo un lento, ma molto breve come durata (sembra sfumato).
I brani furono missati nello studio Decca di West Hampstead a Londra e uscirono nella compilazione vinilica CONVERSATION WITH THE BLUES, A Documentary of Field Recordings by Paul Oliver (artisti vari, Decca LK 4664, 1965), ma dal 1997 sono disponibili sul CD allegato alla riedizione del libro revisionato (Cambridge Univ. Press).

Poco più di un mese dopo, il 23 agosto 1960, ai Fine Recording Studios di New York si realizza la sua prima estesa sessione solista per la neonata Candid Records affiancato da Robert Jr Lockwood e James ‘St Louis Jimmy’ Oden, con il tecnico del suono George Piros. L’etichetta nasce allo scopo di registrare jazz (ma vivrà solo due anni), e il suo direttore e produttore Nat Hentoff, noto attivista e scrittore di musica, è quindi il primo discografico a cogliere le potenzialità soliste di Spann, quasi sicuramente stimolato dalla recente esposizione del pianista a Newport e più interessato a rivolgersi a un pubblico jazzofilo, cosa che in fondo è in linea con la scelta del chitarrista a cui accostarlo, Lockwood appunto.
Purtroppo Spann di questa florida sessione di ben trentaquattro tracce (compreso qualche alt. take) vedrà venirne fuori solo poco meno di un terzo, frazione quasi equamente divisa con Lockwood che su dieci brani ne presenta quattro suoi, in OTIS SPANN IS THE BLUES.
Quarantadue minuti da ascoltare di seguito, fin dai primi, originali battiti di The Hard Way con le loro personali impronte: la chiara introduzione in chiave blues di Spann, il primo singulto della chitarra di Lockwood, e a seguire un profondo scambio di emozioni. Un ruscello vitale che scorre seguendo un percorso naturale a zig-zag, e il canto irresistibile di Otis che con la sua bellissima voce non ancora troppo impastata di Seagram’s dice con dignitosa amarezza

I came up the hard way / I just about raised myself
I've been in and out of trouble / But I've never begged no one for help
I don't speak educated / 'Cause my people they all have none
But I've done just about good as people / People who have some

prima di trascinare in piccoli vortici caldi di suoni intrecciati con quelli avvolgenti di Lockwood, che qui mi piace particolarmente, fino a una cascatella di note capricciose e piene di personalità provenienti da lontano. Colpisce ciò che sarà sempre una bellezza di Spann: l’armoniosa gestione del tempo musicale.
“Un’esperienza misteriosa sentire tutta quella passione martellata fuori dal buio”, dice Hentoff a proposito di Otis in the Dark – infatti per questo solo strumentale mid-tempo Spann vuole le luci spente, magari per tuffarsi in pieno in un’epoca senza corrente elettrica. Sommerso in un’eco naturale srotola note boogie blues complesse e piene che scivolano dalle dita alla tastiera, caricandole e facendole roteare con enfasi e ritmi alternati. Il lento Country Boy dovrebbe essere di Muddy, ma ora è di Spann e ogni volta è diverso (lui non si ripete mai), da quello appena precedente (v. sopra) a quello che farà nella sessione di The Blues Of. Bene fa Lockwood qui a limitarsi a “condizionare” l’ambiente e a servire sui bassi: è Spann a dargli spazio per non farlo sembrare di troppo, altrimenti non ne avrebbe proprio bisogno.
Anche Beat-Up Team racconta di origini contadine, ma con un senso d’orgoglio e di superiorità nei confronti del cittadino. Il suo canto arrochito apre epigrafico: You know, the blues ain’t nothing but a botheration of your mind, e continua efficace nel sussurro come nel “grido” in compagnia delle corde di Lockwood. È uno dei testi più complessi che abbia mai sentito da Spann, e particolare a partire dal titolo. E a proposito di titolo, questo è il primo brano che incontro di un mucchietto che porta titoli diversi nelle varie edizioni con alcuni episodi della sessione, ma in questo caso non si tratta di uno stesso brano con due o più titoli differenti, piuttosto di due brani ben distinti con lo stesso titolo. Infatti, nella raccolta completa di Mosaic (The Complete Candid Otis Spann / Lightnin’ Hopkins Sessions) ciò che è intitolato Beat-Up Team (first version) non è una prima versione del brano appena descritto, ma un altro del tutto, Woman Leave Me Alone.

Lo strumentale Great Northern Stomp (lo studio era al Great Northern Hotel di Manhattan, bellissimo albergo d’epoca) (21) è quello giusto nel CD Candid 9001 del 1989 e nella raccolta completa suddetta di Mosaic, mentre in altre edizioni (anche Candid) il Great Northern Stomp è in realtà il Cow Cow Blues. Il vero Great Northern Stomp è un duetto strumentale su veloce base boogie pianistica in cui Lockwood innesta ritmica jazzy e offre un bellissimo piccolo solo, ma a tratti è un po’ rigido e pare frammentare la corsa fluida e fluente di Spann, fino a che in finale cambia sonorità “galoppando” su un registro basso. A complicare la questione dei titoli, Spann and Bob (non su Is the Blues, ma su Mosaic; in altre edizioni si chiama Instrumental Boogie) pare una variazione, o un continuo, del Great Northern Stomp. Cow Cow Blues (anche questo non su Is the Blues, ma Mosaic) è invece a tutti gli effetti una ripresa solistica di Spann di Cow Cow Blues inciso per Brunswick nel 1928 da ‘Cow Cow’ Davenport. Travolgente e lussureggiante, è un fiume di note in piena controllata sceso dalla notte dei tempi, tra foxtrot e stride su un robusto boogie-woogie implacabile ed elastico.
Nella sua prima occasione estesa non poteva mancare il tributo a Big Maceo Merriweather, ai tempi scomparso da sette anni, con il suo signature song Worried Life Blues svolto in un continuo fiorire, e naturalmente personalizzato. L’audio è bilanciato e brillante, mentre il rollio ficcante e ricco di Otis è corroborato dalle note calde e rotonde di Lockwood dal suono pulito, vicino. Spann, come sempre, già di suo è intenso e vibrante e non avrebbe bisogno di divagazioni, ma l’atmosfera trasuda intimità e l’integrità del pianista non è sopravanzata dall’accento carismatico e personale del chitarrista.
Quest’ultimo splende nelle sue tracce, accompagnato con accortezza da Spann, e se il disco finisce con l’omaggio di Otis al suo ispiratore, il contributo di Lockwood inizia con la sua Take a Little Walk with Me, personalizzazione della celeberrima Sweet Home Chicago del mentore Robert Johnson. Robert Junior canta con il suo tono declamatorio e graffiante, determinando ritmo e umore della camminata, mentre Otis colora il divenire scarno traghettando il Delta in una dimensione urbana.
D’assoluto rilievo l’adattamento di Lockwood di un vecchio nursery rhyme, Little Boy Blue, filastrocca inglese di almeno due secoli prima, in cui la sua anima vocale e strumentale risalta netta e ineguagliabile, come nella drammatica My Daily Wish, dove la tessitura tra i due s’approfondisce e Lockwood trascina Spann nel suo mondo. Infine, su un ritmo medio pulsante e risonante torna lo spirito di RJ con I Got Rambling on My Mind #2 (Ramblin’ on My Mind su Mosaic), simbolo del senso d’impermanenza che il blues traduce così bene.

Otis Spann at the piano

È un disco delicato e potente, consistente antipasto di un’altra portata nutriente che sarebbe stata servita su un secondo volume nel 1962 se Candid non fosse fallita, e che invece è pubblicata dieci anni dopo, quando Otis se n’è già andato, su WALKING THE BLUES.
L’apertura con l’evoluzione di It Must Have Been the Devil (il brano che ha inaugurato la sua discografia solista) mi stende ogni volta, e non c’è nulla qui che possa evitarlo anche se l’apporto di Lockwood è monotono, riscattato solo nel breve, bellissimo break, prima di tornare a marcare in modo superfluo la strada dell’altro, viceversa lanciato in un irresistibile shouting vigoroso con una potenza espressiva vocale e strumentale pari a un fuoco incrociato, al suo apice: bisogna però cercare d’isolarlo. Per me è la versione più potente di questo brano, anche nonostante Lockwood (forse sarebbe bastato tenerlo più basso nel missaggio).
Qui non ci sono brani di Lockwood e il suo contributo come accompagnatore è ridotto, ma appare James ‘St Louis Jimmy’ Oden, (22) pianista e songwriter più anziano che ai tempi, dopo un incidente stradale, aveva accantonato la carriera solista, continuando a scrivere per altri. Il fatto che Spann lo voglia in studio è esempio della grandezza anche umana di questi personaggi, pronti ad aiutare i colleghi in difficoltà.

La sua sommessa grandeur continua quando appoggia le dita sulla tastiera e lascia che si muovano come spinte da una forza misteriosa che convoglia tutta la storia in quel momento attraverso solo strumentali immacolati e rigogliosi. Come gli esemplari Otis Blues (Otis’ Blues su Mosaic), barrelhouse boogie con corse veloci e abbellimenti, This Is the Blues, che dalle primissime note sembra un gospel ma è invece un impetuoso impromptu in stile stride a stupendo effetto piano roll, e Walking the Blues, evocativo e intricato walkin’ blues che lascia udire il battito del piede (solo nell’idea di base forse ispirato dall’omonimo brano di Champion Jack Dupree), compendio di vari lick e riff che gli fioriscono tra le dita, tra cui quello del Worried Life Blues.
Come nei filmati dell’American Folk Blues Festival, lo immagino sorridente o intenso, comunque sempre rilassato e senza apparente sforzo, come tutti i migliori rimanendo naturale e a proprio agio: è anche dall’atteggiamento e dalla postura che si evidenzia il valore di un musicista. Mi vengono in mentre altri grandi pianisti carismatici che a guardarli seduti sul seggiolino facevano sembrare il pianoforte un prolungamento della loro persona da quanto erano tutt’uno con lo strumento e con la materia, come Fats Waller, Ray Charles, Allen Toussaint, o sovrumani come Art Tatum. Come i dimenticati, disinvolti talenti fuori dal comune di Hazel Scott e Martha Davis. Come Willie ‘The Lion’ Smith e Roosevelt Sykes, con cappello in testa e grandi sigari in bocca, eleganti e spettacolari all’udito come alla vista senza muovere nessun muscolo oltre i necessari, al massimo alzando un sopracciglio o accennando un sorriso beffardo, o guardando più spesso il pubblico che la tastiera.

La voce di James Oden entra con il suo famoso signature song, che tutti sembrano aver ripreso, Going Down Slow, e il suo passo laconico è stemperato con classe da Spann e Lockwood mediante onde di suono elastiche, mentre in Monkey Woman (Monkey Face Blues su Mosaic, come da originale di Oden, lato A del disco con Goin’ Down Slow) il cantato di ‘St Louis Jimmy’ è ancor più staccato, ma carico di impassibile umore blues parodistico in cui contrappone alla donna fittizia dalla bellezza prodigiosa (una tipicità, spesso decantata con similitudini, che il blues ha in comune con il dolce stil novo, naturalmente con tutt’altri accenti) una donna con doti altrettanto iperboliche, ma contrarie. Anche in Come Day Go Day l’accompagnamento Spann-Lockwood rimesta un terreno lasco e nostalgico diluendo l’asciuttezza di Oden, mentre si possono ben cogliere le parole, come nel recitato di Bad Condition, variazione di Going Down Slow.
I’m gonna take my trouble, take my trouble to the Lord. Spann torna protagonista con Half Ain’t Been Told ed è ancora meraviglia. Rovescia pioggia ominosa con ciò che di meglio ha: note vive, piene e vibranti sul pianoforte e voce emozionante, calda e melodiosa, una voce che chiunque vorrebbe sentire, e tutti vorrebbero avere. Il tema sembra ripreso dall’improvvisato Goodbye Newport Blues (direi ispirato dal Third Degree di Eddie Boyd), qui pienamente sviluppato e magnificamente sussultante. Con Lockwood, dallo stesso umore e con suono più basso rispetto al solito, Otis esegue per Oden la sua Evil Ways (l’originale è Can’t Stand Your Evil Ways, e così è intitolata su Mosaic, presente in due take), blues classico mid-tempo trillante e carico d’eco, prima di concludere con la minimale quanto splendida My Home Is in the Delta, di Muddy.
Spann è così ricco e risonante che tutto il resto sembra in più, ma la sessione è comunque tra le migliori, insieme a quella Storyville, che ha avuto possibilità di fare, e stupisce che tutto ciò sia nato in un solo giorno, soprattutto se si pensa che i musicisti e gli studi di oggi nello stesso tempo a malapena riescono a registrare un brano.

Otis Spann "Take Me Back Home" vinyl cover

IS THE BLUES è ripubblicato tale e quale nel novembre 1970, WALKING THE BLUES è pubblicato la prima volta nel giugno 1972, dopo la scomparsa di Otis, entrambi su Barnaby Records fondata da Andy Williams, acquirente dell’intero catalogo Cadence, etichetta liquidata nel 1964 e di cui Candid era sussidiaria, poi entrambi su CD nel 1989 (Candid CCD 9001 e Candid CCD 79025). Sei tracce inedite della sessione, credo per la prima volta, sono invece piazzate nel 1984 sul lato B di un vinile, TAKE ME BACK HOME, di un’etichetta olandese (Black Magic Records). Sul lato A altri inediti di Spann dalla sessione Decca del maggio 1964 (quella di The Blues of Otis Spann, v. pross. articolo).
Pezzi già editi della sessione sono stati trasferiti anche su altri CD, come ad esempio nel volume MY HOME IN THE DELTA della mediocre serie inglese The Blues Collection edita in Italia da De Agostini, che contiene solo dodici brani, scelti non so con quale criterio dato che non predilige quelli da solista.
Nel 1992 l’intera sessione (compresi alt. take) è pubblicata sul cofanetto di Mosaic Records THE COMPLETE CANDID OTIS SPANN / LIGHTNIN’ HOPKINS SESSIONS, che su uno dei tre dischetti ha la sessione di Lightnin’ Hopkins del 1960 per la stessa firma.
Le tracce inedite rispetto a quelle già viste sopra sono sette, ma non aggiungono granché. La prima che s’incontra e la migliore tra queste è Woman Leave Me Alone che, come detto, è nominata erroneamente Beat-Up Team (first version) all’inizio del primo CD della raccolta completa; si tratta di un brillante (come esecuzione) e fosco (come umore) “duetto” in cui Lockwood ancora sembra contrastare a tratti le tonalità minori di Spann, creando effetti altalenanti tra la voce straziata, quasi piangente del pianista (anche di fatto, piangente: poco oltre la metà Otis singhiozza letteralmente, espediente non così raro nella musica afroamericana [lo ha fatto anche Lloyd Price, ad es., e molti altri], in linea con la tradizione di una rappresentazione teatrale, enfatica, spesso autoironica).

One Doggone Reason, Strange Woman Blues e The Girl I Love sono del gruppetto di e con James Oden alla voce, sempre originale nei suoi testi per la scelta delle parole, accurata come la sua scansione vocale. Tuttavia non stupisce che siano state lasciate indietro data appunto la sua vocalità sempre uguale e assente di melodia, e di conseguenza molto simili tra loro come arrangiamento, imbastito come meglio non si può da Spann e Lockwood, impegnati costantemente su melodia e armonia; il secondo e il terzo titolo hanno brevi interventi solistici di Lockwood.
It Hurts Me Too (When Things Go Wrong su altre edizioni), successo per Tampa Red poi più noto nella versione di Elmore James, è portata dal pianista che la canta molto rilassato con la novità dell’armonia vocale degli altri due, come nei due take di Baby Child, vocalmente più irruenti e tesi da parte di Spann, e in stile chicagoano. Talkin’ the Blues è, appunto, un talkin’ blues tra Oden e Spann su sottofondo di piano e chitarra in cui Otis torna sulla storia raccontata a Oliver (When She Come Back in “Conversation”, v. sopra) variandola (qua è la madre ad acquistargli un piano, un grand-piano!) e allargandola; in un’altra versione il dialogo inizia ancora tra Jimmy e Otis, poi Lockwood interviene. Spann, sempre più animato, sollecita Oden su Goin’ Down Slow e Lockwood su Take a Little Walk with Me, e sul finale implora: “Take me back home, please!”, forse dando appiglio al criptico titolo del vinile Black Magic.

Muddy Waters & Otis Spann "Collaboration" vinyl cover

Segnalo infine, per chiudere il discorso delle registrazioni fino al 1960 con il suo nome in copertina, un altro vinile dei primi anni 1980, poi in CD (1995, Tomato Records), con valore più storico che commerciale per via della poverissima qualità audio. Inoltre, è a tutti gli effetti un disco di Muddy, con dieci suoi brani.
Ha un titolo inadeguato, COLLABORATION, e contiene uno dei concerti tenuti durante il primo tour di Muddy Waters in Inghilterra nell’autunno 1958, in cui va con il solo Otis Spann. Il debutto è tragico dato che i due bluesman sono inseriti all’interno del Leeds Triennial Music Festival, evento di musica classica sponsorizzato da un cugino della regina, tra l’altro senza una presentazione che possa preparare la platea, e accompagnati da sette-otto jazzisti che non colgono il significato della loro musica, né sanno come suonarla. Muddy con sé ha il suo amplificatore, la chitarra elettrica suonata con lo slide, e fa ciò che sa fare e per cui è diventato noto, cioè suonare blues elettrico ad “alto” volume e cantare con voce scura e mascolina: onde sonore vibranti e invasive mai riecheggiate in nessuna sala da concerto europea.

Il giorno dopo sono stroncati dalla critica: “screaming guitar and howling piano” – parole che oggi potrebbero anche essere un complimento, ma allora non lo erano affatto (nel libro di Gordon si traduce con “chitarra stridente e pianoforte assordante”). Il pubblico era del tutto impreparato al blues elettrico; in terra inglese i primi che avevano visto i pochi musicisti afroamericani in trasferta (oltre ai gruppi gospel) lo avevano fatto attraverso il blues acustico, già anacronistico nel 1951, di Big Bill Broonzy.
Il resto del tour fu organizzato dalla National Jazz Federation e la Blues and Ballads Association ed ebbe più successo; insieme a loro in cartellone c’era la Chris Barber’s Dixieland Jazz Band, anch’essi piuttosto alieni facendo jazz bianco ispirato a quello tradizionale di New Orleans, ma almeno questi avevano già avuto esperienze con gli americani (Sister Rosetta Tharpe, Modern Jazz Quartet, Sonny Terry & Brownie McGhee) e, secondo ciò che si sente qui, si univano a loro solo per il finale e non al completo.
Il disco testimonia il concerto tenuto alla Free Trade Hall di Manchester (23) il 26 ottobre 1958, purtroppo però come dicevo l’audio è pessimo altrimenti sarebbe una bella prima testimonianza live per entrambi. La chitarra si sente poco e molto male (man mano che i concerti proseguono Muddy abbassa il volume dell’amplificatore sempre più vedendo che gli inglesi non gradiscono) e per la maggior parte si sente solo la voce di Muddy e il piano di Spann, con sonorità metalliche. Le canzoni sono introdotte una a una, svolte nel silenzio e regolarmente applaudite alla fine, ma in I Can’t Be Satisfied il pubblico approva anche durante l’esecuzione. In Walking Thru the Park si uniscono appunto il trombonista Barber, il clarinettista e il trombettista, più una voce femminile nell’encore. L’effetto è parecchio strano: Muddy come non ci si immagina di sentirlo, con accompagnamento dixieland e il pubblico in delirio, sempre che quest’ultimo non sia posticcio.
La storia continua.

Muddy & friends
Muddy Waters & Mildred McGhee (madre di Mud Morganfield) al 708 Club, Chicago, 1956. Sopra: Otis Spann, Bob Hadley, James Cotton
(Photo Courtesy of Mud Morganfield and Bob Corritore)

(Fonti: Alan Balfour, Our Blues, luglio 2000; Robert Gordon, Hoochie Coochie Man, La vita e i tempi di Muddy Waters, Fazi Editore s.r.l., Arcana Libri, Roma, 2005; Phil Wight, Fred Rothwell, The Complete Muddy Waters Discography; note di Nat Hentoff a Otis Spann Is the Blues, 1960, Candid Records; note di Neil Slaven a The Blues of Otis Spann, 1964, Decca Records; David Edwards e Mike Callahan, The Barnaby Label Album Discography; Bill Rowe, The Half Ain’t Been Told: an Otis Spann Career Discography [rivista e aggiornata da Chris Smith e Howard Rye], Micrography, 2000; Sito Studs Terkel Radio Archive, in Langston Hughes, John Sellers, James Cotton and Otis Spann discuss blues music.)


  1. Escludendo però quella con Muddy Waters, a meno che non sia funzionale nel contesto.[]
  2. Otis, come altri musicisti, visse con la moglie Olga Marie e i tre figli a casa di Muddy, come riportato da Paul Oliver in Muddy Waters, a Personal Biography, Blues Unlimited, Collector’s Classics Booklet, marzo 1964. Nel libro di Robert Gordon, Hoochie Coochie Man, La vita e i tempi di Muddy Waters, pag. 368, si legge che Cookie, la nipote di Muddy, quand’era bambina credeva che i due fossero fratelli. Se ben ricordo, Gordon lascia invece intendere che Spann occupasse da solo la stanza frontale del seminterrato della casa di Muddy; forse marito e moglie a quel punto erano separati: nelle note di John Koenig al disco Good Morning Mr Blues (Analogue Productions, Salina, KS), Jimmy Rogers racconta che Spann spesso non aveva un posto in cui stare, e che per questo motivo le donne lo lasciavano.[]
  3. Successivamente alla stesura di questo articolo Alan Balfour mi ha segnalato che Jim O’Neal e Eric LeBlanc hanno stabilito che Spann era effettivamente nato nel 1924, non nel 1930.[]
  4. In una trascrizione di una trasmissione radiofonica (WFMT) andata in onda il 15 luglio 1960 (quindi poco dopo il Festival di Newport) che ho letto sul sito Studs Terkel Radio Archive, intitolata “Langston Hughes, John Sellers, James Cotton and Otis Spann discuss blues music”, alla domanda di S.T. da dove provenisse, Spann risponde: “I’m from Pelahatchie, Mississippi. Which is a small, small town.” È un nome che non ho mai letto o sentito in nessuna sua biografia o intervista, ma è verosimile essendo una cittadina vicina a Jackson. Inoltre, dichiara di aver imparato a suonare il piano a sei anni da “Coot Davious” (aka Coot Davis, v. più sotto nel testo e in nota), “The Emperor of the Ivories”.[]
  5. Da Big Road Blues, fonte originale non riportata.[]
  6. Nat Hentoff nelle note di Otis Spann Is the Blues lo cita come “Cose Davis”, definito suo tutore musicale e colui che lo influenzò agli inizi. Di Davis dice inoltre che era un pianista locale ma che incise per l’etichetta Bluebird negli anni Trenta. Tuttavia nell’affidabile The Bluebird Label Discography di John R. Bolig non ne ho trovato traccia. Nel libro di Jeff Hannusch I Hear You Knockin’, ‘Boogie’ Bill Webb, altro cugino di Spann, dice di aver conosciuto Davis a Jackson, e lo ricorda suonare con Little Brother Montgomery.[]
  7. Da Robert Gordon, op. cit., ibid.[]
  8. Da Nat Hentoff, note a Otis Spann Is the Blues.[]
  9. Oggi per la maggior parte inaffidabili (nella versione CD di The Blues Of del 1993 sono state sostituite da quelle di A. Balfour), ma le riporto appunto per rendere evidente ciò che è altamente improbabile in alcune “biografie” ancora in circolazione.[]
  10. Tra i membri del gruppo di Spann al Tick Tock Lounge c’erano l’armonicista Forrest City Joe e il batterista Francis Clay – In T. Russell e N. Slaven, Otis Spann Vol. 32, The Blues Collection, 1994, Orbis Publishing Ltd., Griffin House.[]
  11. I virgolettati di quest’ultimo periodo sono da Robert Gordon, op. cit., ibid.[]
  12. La Otis Spann Career Discography (v. fonti) mette Walter Horton al posto di Little Walter. In questo testo per quanto riguarda Muddy Waters ho fatto riferimento alla discografia di Phil Wight e Fred Rothwell (v. fonti) non solo perché riguarda appunto Muddy, ma soprattutto perché la OSCD mi è pervenuta a lavoro finito. In ogni caso qui m’interessa discutere solo ciò che riguarda Spann.[]
  13. Little Johnny Jones registra a suo nome accompagnato da Muddy nel 1949 l’epocale Big Town Playboy, e come accompagnatore di Muddy probabilmente nella stessa occasione, per Aristocrat. È presente anche Leroy Foster, l’amico con il quale Jones arriva a Chicago insieme a Little Walter. Leroy Foster è in studio come chitarrista di Muddy già nel 1946.[]
  14. Da Robert Gordon, op. cit., pag. 136.[]
  15. Da Robert Gordon, op. cit., pag. 172.[]
  16. Però non in tre brani di Diddley (Bo Diddley, Hey Bo Diddley, Mona) come invece riportato da Michel Ruppli in “The Chess Labels: a Discography”; basta sentirli: non c’è nessun pianoforte.[]
  17. Dopo la prematura scomparsa di Rowe nel 1997 è completata dai discografici Chris Smith e Howard Rye e pubblicata nel 2000 come “The Half Ain’t Been Told: an Otis Spann Career Discography”.[]
  18. Da Robert Gordon, op. cit., pag. 203.[]
  19. Neil Slaven, note a The Blues of Otis Spann.[]
  20. Da barrelhouse, termine che origina da quei saloon che avevano grandi barili di liquore come base per il bancone, spesso solo un’asse di legno appoggiata, o più in generale che tenevano sul bancone o sui ripiani barili da cui servire direttamente il liquore; questi locali avevano sempre il pianoforte, da qui barrelhouse music o barrelhouse piano definiscono la musica per piano “rozza” che vi si faceva.[]
  21. Fine Recording Inc. fu fondata da Robert Fine e operò dal 1957 al 1971. Comprendeva quattro studi, impianto di masterizzazione e il laboratorio di Walter Sear dedicato ai sintetizzatori Moog. I primi due studi furono ricavati dal salone da ballo e dalle cucine, gli altri da due suite ai piani superiori. Il laboratorio di Sear era al 12º piano.[]
  22. Anche James Oden fu inquilino di Muddy, per il quale scrisse dei brani. Paul Oliver si recò a Chicago una settimana dopo Newport per le interviste di Conversation with the Blues, e fu ospitato a casa di Muddy con la moglie; lo scrittore rimase colpito quando vide Oden raggomitolato in una stanza del seminterrato, dove lungo i muri passavano i tubi di scarico e le condutture. Da Robert Gordon, op. cit., pag. 204.[]
  23. Lo stesso simpatico luogo in cui, qualche anno dopo, Bob Dylan in elettrico accompagnato dai futuri membri di The Band si sentì urlare dal pubblico: “Giuda!”.[]
Scritto da Sugarbluz // 22 Gennaio 2014
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