Porretta Soul Festival, 20.7.2014

Muscle Shoals Tribute con The Muscle Shoals All Star Band e Denise LaSalle, Toni Green, Vaneese Thomas, Jimmy Hall, Theo Huff, Chick Rodgers, Jerry Jones, Chilly Bill Rankin, Guitar Shorty / Frank Bey & Anthony Paule Band

Iniziato circa un mese dopo la scomparsa di Bobby Womack e di Mabon ‘Teenie’ Hodges e segnato, durante lo svolgimento, dalla dipartita di James Govan, quest’anno il Porretta Soul Festival nei set principali si è svolto all’insegna del soul e del rhythm and blues classico non solo come repertorio, ma in gran parte anche come sonorità.
Mentre le vecchie glorie spariscono e le nuove leve raramente s’affermano con materiale “al passo con i tempi”, sono ancora i fondamenti a dettare le regole musicali, la qualità e lo spirito comunicativo della musica dell’anima nella sua espressione più realistica (oggi dire “genuina” mi pare troppo) e quindi apprezzabile, anche se, come la parentesi voleva sottolineare, con il trascorrere del tempo le inevitabili sovrastrutture e la sopraggiunta consapevolezza sono d’ostacolo; aggirare questo ostacolo è oggi forse la prima sfida di un artista soul o blues. La formula magica non esiste, ma sicuramente fornire i soulman e le soulwoman dell’adeguato sostegno è un passo necessario e non scontato, sia che si tratti di personaggi risaliti alla luce dopo anni di oscurità grazie al “provvidenziale” arrivo di una formazione (la consuetudine soul della compagine bianca ma illuminata che accompagna il cantante nero), sia che questi arrivino come solisti, noti o meno noti, e s’affidino alla house band.

La prima circostanza citata è anche il riassunto di Frank Bey, nativo della Georgia (1946), settimo dei dodici figli della cantante gospel Maggie Jordan e infanzia passata a cantare musica religiosa, in qualche occasione dividendo il palco con Sister Rosetta Tharpe, Five Blind Boys of Alabama, Harmonizing Four e i Soul Stirrers epoca Sam Cooke. A quattordici anni abbandona la musica sacra per quella mondana e a diciassette ha l’occasione di aprire qualche concerto di Otis Redding, mentre negli anni Settanta è parte del Philly sound come uno dei Moorish Vanguard Concert, sciolti dopo una causa persa intentata da James Brown. Prosegue con una propria formazione, ma l’esperienza finisce così male che Frank sta lontano dalle scene per ben diciassette anni, mantenendosi a Philadelphia con attività extra-musicali. Sul finire degli anni 1990 registra il suo primo CD, seguono quattro anni di dialisi e un trapianto renale; nonostante tutto continua a esibirsi e nel 2007 esce il suo secondo lavoro solista.

Nel frattempo approda nella Bay Area, dove poi s’unisce alla Anthony Paule Band registrando l’esordio nel 2012 dal vivo al Biscuits & Blues di San Francisco (You Don’t Know Nothing), e dopo poco il secondo disco (Soul for Your Blues, nello studio di Kid Andersen a San Jose, CA, ospite Rick Estrin).
Anche il chitarrista Anthony Paule ha un lungo passato (Johnny Adams, Earl King, Brownie McGhee, Maria Muldaur, Tommy Ridgley, Mark Hummel, Musselwhite, Mitch Woods, e dodici anni nella band di Johnny Nocturne), così come l’ottima sezione ritmica: il batterista Paul Revelli (Marcia Ball, Angela Strehli, Mark Hummel, Rusty Zinn, J.L. Walker), l’organista Tony Lufrano, entrambi con lui dalla fine degli anni 1980, e il bassista Paul Olguin, dagli anni 1990, come dirà Paule stesso.
Di per sé il nucleo è West Coast oriented, ma a rafforzare le sonorità di un soul-blues agile e dinamico c’è una sezione fiati precisa e sensibile, con Nancy Wright al sax, Thomas Poole alla tromba e Derek James al trombone; segnalo infine la presenza di una brava corista, Loralee Christensen, a chiudere il cerchio sulla volontà di Porretta di concedere ai solisti il loro habitat naturale.

Prima ho messo provvidenziale tra virgolette perché nella loro unione, come in altre simili, c’è la spinta commerciale più che quella divina, ma nella sua ambivalenza si può trovare forse anche una realizzazione artistica: un cantante che finalmente ha alle spalle una band come si deve, una band soul-blues bianca che acquista la qualità di una voce nera.
I nostri hanno offerto un bel set diviso tra cover e originali, in gran parte estratti dai due dischi, tra il funky-soul Still Called the Blues dal Johnnie Taylor d’epoca Malaco, che Frank affronta con agilità dopo essersi sbarazzato del bastone che l’ha accompagnato sul palco, il morbido e graffiante soul di Bobby Bland Ain’t that Loving You, adatto al baritono di Bey ancora relativamente potente, il puro soul-blues I’m Leavin’ You di Paule, e tre brani scritti o co-scritti dalla moglie di quest’ultimo (Christine Vitale), il mid-tempo soul I Want to Change Your Mind e le ballate I Just Can’t Go On e It’s Good to Have Your Company.
Bell’incontro tra blues e gospel si rivela Bed for My Soul di Jeff Monjack (chitarrista dell’ex gruppo di Bey), senza fiati, mentre menzione speciale va a uno dei più bei brani del grande Ragovoy, You Don’t Know Nothing about Love. Sono affezionata a questo strappalacrime che prese originalmente forma con l’incredibile voce di Carl Hall (in tempi più recenti Tracy Nelson ne ha offerto una emozionante versione, sia pur un po’ calcata).

Anthony Paule, che fa le veci di direttore musicale e parla italiano meglio di quanto ci si possa aspettare, è un buon chitarrista al quale non interessa eseguire lunghi assolo, inutili e fuori luogo, e lo dimostra anche qua accompagnando con sensibilità: sarebbe bastato un attimo per rovinare quest’ultimo già di per sé carico brano, o tutto il set, con interventi pesanti del tipo a cui le odierne platee sono ormai abituate.
Il finale riserva pezzi grossi come Imagine, riflessione dedicata al messaggio di pace in cui il pubblico è coinvolto con l’alzata di simbolici cuori di cartone precedentemente distribuiti, il bel R&B à la B.B. King That’s What Love Will Make You Do di Little Milton, con i fiati in splendore, Bey ancora convincente per tono e approccio, Paule in fraseggio blues, e il previsto encore con il mid-tempo funky ballabile sempreverde Get Your Money Where You Spend Your Time scritta da Tommy Tate per Malaco e successo del Bobby Bland anni Ottanta, suggellante con grazia questo set semplice e godibile nella forma e nella sostanza, solo un po’ latente dal punto di vista della comunicativa (forse per il carattere introverso dei due), mentre Bey lancia un messaggio di amore fraterno e ringrazia per “avermi ancora permesso d’essere me stesso” con Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin), successo di Sly and the Family Stone.

È stato rassicurante già solo attendere l’arrivo della saldissima Muscle Shoals All Star Band, con il compito di sostenere tutti i cantanti via via offrenti la propria interpretazione di alcuni super-classici del southern soul.
Chiamarla studio band è riduttivo per chi conosce la musica venuta fuori da Muscle Shoals, Alabama, e la vera star del festival è stata la band stessa più che i solisti che qui ha accompagnato. Anche se naturalmente la maggior parte dei componenti sono cambiati, si sente la volontà di perseguire il suono che negli anni Sessanta/Settanta ha reso così importante quella sezione ritmica, formatasi in un anonimo agglomerato dell’Alabama e recentemente celebrata in un documentario (in Italia uscito il 10 luglio), “Muscle Shoals” appunto.
Degli originali Swampers (cioè la seconda sezione ritmica dello studio FAME, quella glorificata) sono presenti solo il chitarrista Jimmy Johnson e il bassista David Hood (coloro che poi nel 1969 insieme a Roger Hawkins e Barry Beckett si presentarono dal fondatore Rick Hall per comunicargli che avrebbero aperto il loro Muscle Shoals Sound Studio), ma anche il percussionista Mickey Buckins rientra nella vecchia guardia (nella terza sezione ritmica dello studio, la cosiddetta FAME Gang; ho parlato di alcuni componenti di entrambe le sezioni nelle recensioni di The Beat 1 e 3, e in quella di Etta James).

Due o tre i grandi assenti, Roger Hawkins, Spooner Oldham e Clayton Ivey, il primo ben rimpiazzato dal batterista Lynn Williams, mentre Harvey Thompson Jr (anche cantante e autore), figlio del tenorsassofonista Harvey Thompson della FAME Gang, ha ben figurato all’organo, tanto come il pianista Kevin McKendree alle tastiere.
Il lato più debole da una parte e quello più invasivo dall’altro è rappresentato dalle due chitarre: il primo da Jimmy Johnson, apparso spento da tutti i punti di vista, mancante e inudibile, il secondo da Will McFarlane, lead guitar, anche se il termine invasivo non è del tutto giusto; non mi è piaciuto e non so bene perché, ma ha avuto a che fare con il suo suono e una sottile estraneità, che però non ha inficiato troppo il risultato finale data la natura della band, in cui nessun lead guitarist dovrebbe sovrastare. Data l’assenza sonora di JJ sarebbe stato forse meglio se McFarlane avesse solo rinforzato le parti ritmiche, gli accordi, i riff.
Perfetta invece la sezione fiati, arrangiata da Charles Rose e con Doug Moffet al sax baritono, Billy Huber al trombone, Kenny Anderson al sax tenore e Steve Herrman alla tromba, gli ultimi due sul palco anche l’anno scorso.

Le coriste, Shoals Sisters, non hanno avuto niente a che fare con quelle polished e anonime dell’anno scorso; (1) qui le armonie non una cornice didascalica-ornamentale ma parte dell’insieme, e meglio assortite e differenziate le tre voci, Marie Tomlinson Lewey, Cindy Richardson Walker e Carla ‘Kozmic Mama’ Russell, quest’ultima aprente la carrellata esibendosi come solista. Pare un mix tra Etta James e Aretha Franklin, ma qui ricorda Mavis Staples, le cui I’ll Take You There e Respect Yourself, ben svolte dalla potente “cosmic mama”, sono capisaldi del gospel/soul degli Staple Singers e tra i message song che hanno sgravato i cuori degli afroamericani all’epoca delle lotte per i diritti civili.
È un’altra risorsa della band a eseguire un classico tra i classici di Muscle Shoals, il già nominato percussionista, engineer, produttore (ad es., di James Govan) e autore Mickey Buckins, che fa vibrare la bellissima At the Dark End of the Street, da Dan Penn e Chips Moman per James Carr.

I solisti si sono esibiti solo con uno o due brani a testa perché, come di consueto, nell’ultima serata di domenica tornano sul palco tutti i cantanti divisi tra le due sere precedenti. È una specie di gala in cui il giudizio sui singoli è relativo, tanto più in un contesto di cover in cui se si ha sufficiente carisma e qualità vocali non è difficile brillare o, al contrario, adeguarsi a una generale uniformità.
C’è il rischio che il cantante, per risaltare nel mucchio, esageri l’enfasi, come nel caso di Theo Huff da Chicago, uno dei pochi musicisti afroamericani di ventisei anni non-hip-hop, che interpreta la canzone delle canzoni di Muscle Shoals, When a Man Loves a Woman. Comunque ci sta, volendo dare il massimo in poco tempo, e del resto da uno showman agghindato e luccicante – quasi nessuno di loro rinuncia a un abito di scena sfavillante – non ci si deve aspettare che canti sottraendo.
Il discorso non vale per la bravissima Chick Rodgers di Memphis, cresciuta a gospel e trasferita a Chicago, già a Porretta nel 2011, vestita come una di noi ma procurante brividi a cascata durante A Natural Woman di Aretha. Splendido e irrinunciabile, qui come prima, il tappeto srotolato dalla band, comprese le coriste.

Chilly Bill Rankin, l’unico che ho sentito commemorare le recenti scomparse sopra dette (e di Johnny Winter), si cala con emozione tra le bellissime note di A Change Is Gonna Come di Sam Cooke, con canto soulful e maturo dal tono polveroso, mentre Jerry Jones, anche lui allevato a Memphis e gospel, messo su traccia nel 1969 (con i Brothers Unlimited) agli studi FAME da Mickey Buckins (ha registrato anche con Ike Turner e collaborato con Ronald Bell di Kool and the Gang), sfodera uno shouting grintoso nel Mustang Sally di Wilson Pickett.

Ha invece ovviamente portato del suo Denise LaSalle, la più star di tutti (Hi Records di Willie Mitchell e Malaco), relativamente in auge forse perché Jim Jarmusch nel suo ultimo film (Solo gli amanti sopravvivono) ha ripreso il suo hit Trapped by a Thing Called Love.
Ha però due handicap: i suoi 81 anni e il suo chitarrista/direttore musicale Jonathan Ellison, che non può fare a meno dei distorsori, per fortuna a basso volume in Drop that Zero e nello zydeco Don’t Mess with My Toot Toot, ripreso dal successo pop (o “disco-zydeco”) anni Ottanta di Rockin’ Sidney, sul cui finale Denise invita qualche spettatore a ballare sul palco. (2)

In una serata precedente (vista in streaming) Ellison m’era parso più disturbante, così come l’outsider Guitar Shorty, che sabato sera s’è lasciato scappare un assolo logorroico passeggiando tra il pubblico, con l’unico effetto di impensierire i tecnici. Qui per motivi di tempo ha suonato meno, ma del tutto evitabile il noioso e inconcludente duetto strumentale con McFarlane (mentre JJ, da un lato, ha rischiato di addormentarsi), acquisendo un minimo senso solo con la sezione ritmica nel finale.
La procace e astuta Toni Green strizzata in abito sirena, di casa a Porretta e a suo tempo scoperta dal celebre trombonista e arrangiatore Bowlegs Miller, esordisce con il funk di Bustin’ Loose coinvolgendo nel ballo, poi riesce a catturarmi anche questa volta con l’appassionato rendimento della bellissima (If Loving You Is Wrong) I Don’t Wanna Be Right, dedicata al pubblico.

Rimane per un bel duetto con Vaneese Thomas, figlia di Rufus e sorella di Carla e Marvell, onorando ancora Aretha e la coppia Penn/Moman attraverso l’indimenticabile Do Right, Woman. Durante la permanenza a Porretta Vaneese ha tenuto un workshop canoro, e qui presenta il risultato dirigendo il coro, per la maggior parte composto dai giovani componenti la Quincy Ave Rhythm Band, studenti della Kent Denver Music School che si sono esibiti nella serata d’apertura, ma la solista è una cantante di Bologna. Eseguono un antico spiritual, esattamente un freedom song portato alla luce dalle Sweet Honey in the Rock, Run, Mona, Run. Dato il tema, potrebbe risalire all’epoca schiavista; come dice giustamente Vaneese, è alla base della musica soul. La generosa figlia d’arte ha il suo momento con un altro successo di Muscle Shoals, I’m Your Puppet di Dan Penn per James e Bobby Purify, con controcanto dell’amica Berneta Miles, concludendo con Old Time Rock ‘n’ Roll del memphiano George Jackson, grande hit per Bob Seger.

Chiude le danze il blue eyed soul singer Jimmy ‘Wet Willie’ Hall, cresciuto a gospel e con voce sufficientemente nera da meritarsi l’entrata nei panni di Wilson Pickett con l’azzeccata Funky Broadway e la serrata Land of a Thousand Dances, entrambe rese dall’orchestra con le sonorità che amiamo. A seguire, il rituale ritorno di tutti sul palco con l’immancabile Sweet Soul Music e il bel contributo delle sole Marie Lewey, Cindy Walker e Carla Russell con la band per il gospel Pressing On, nel finale richiamante di nuovo tutti i protagonisti per l’ultimo saluto.
Ha detto bene P. Guralnick nell’affermare che il soul “continuerà a sollevare la testa nei luoghi più impensati”, ma ormai Porretta, assai remota da Memphis, Macon o Muscle Shoals, da ventisette anni è un luogo consolidato. Speriamo che tutto questo tempo e l’inevitabile consapevolezza non infieriscano mai troppo sotto forma di routine, pressioni, budget, ripieghi, e che ci si rivolga sempre il più possibile verso la ricerca della qualità musicale.


  1. In particolare, l’anno scorso, la corista italiana era un pesce fuor d’acqua, mentre le altre due, americane, pur in sintonia con quell’ambiente musicale e più reattive allo svolgersi, sono risultate comunque anonime.[]
  2. Aggiornamento: Denise LaSalle è deceduta in un ospedale di Nashville, TN, l’8 gennaio 2018.[]
Scritto da Sugarbluz // 26 Luglio 2014
È vietata la riproduzione anche parziale di questo articolo senza autorizzazione

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.