Professor Longhair – Crawfish Fiesta

Cover of Professor Longhair's CD Crawfish Fiesta

Un disco adatto a chi volesse avvicinarsi al Professore, e indispensabile agli appassionati. Se l’altro focalizza le prime incisioni, qui ci sono le ultime; l’inizio e la fine della storia discografica di Longhair. Una storia divisa in due fasi: la prima dal 1949 al 1959 e sporadicamente fino al 1964, la seconda dal 1971 all’uscita di questo disco, 1980.
Riprendendo la vicenda da dove l’ho lasciata, cioè all’inizio della triste seconda metà degli anni 1960 passata senza poter far musica, uno dei primi a documentare quegli anni bui fu Mike Leadbitter, editore di Blues Unlimited, che lo incontrò a New Orleans nell’aprile 1970 al suo indirizzo, 1522 South Rampart. In quell’occasione Leadbitter trovò l’artista vecchio, depresso, malato, dimenticato dal pubblico, dagli amici e dall’industria discografica.
A farlo riemergere dall’oscurità però furono due ragazzi di New Orleans, Arthur ‘Quint’ Davis e Allison Miner, affascinati dalla figura di Longhair senza sapere non solo se era vivo o no, ma anche incerti che fosse una persona davvero esistita e non piuttosto un personaggio di fantasia, la cui leggenda riappariva ogni anno durante il carnevale sulle note di Go to the Mardi Gras.

Dopo quasi un anno di ricerche Davis lo trovò nel negozio di Joe Assunto, One Stop Record Shop, 330 South Rampart. Era uno dei posti in cui il pianista si recava specialmente nel periodo del Mardi Gras, perché Fess in occasione della festa avrebbe potuto chiedere un lavoro o un po’ di soldi in prestito a Joe: quando Longhair era alle strette Assunto gli dava piccoli lavoretti in negozio, e caso volle che Fess varcò la soglia del negozio proprio mentre Davis stava chiedendo di lui.
Byrd era in pessime condizioni fisiche e psichiche, in stato di povertà, da molto non suonava e per mantenersi faceva il bidello. Quando sedeva non poteva rialzarsi, e quando era in piedi il suo ginocchio doveva essere posizionato in un certo modo per poter camminare. Era ipovitaminico, senza denti, non riusciva a mangiare né a digerire, e aveva solo 53 anni.
In quel periodo Davis s’era da poco impegnato nella produzione del New Orleans Jazz & Heritage Festival, che allora si chiamava New Orleans Jazz Festival e si teneva nel parco oggi intestato a Louis Armstrong, e quello del 1971, nonostante ai tempi non fosse molto seguito essendo solo alla seconda edizione, fu l’evento cardine nella riscoperta di Longhair riportando in scena un musicista che molti non conoscevano.
Davis arruolò Snooks Eaglin per accompagnarlo in quella prima esibizione e quando Fess, come improvvisamente ringiovanito, cominciò a martellare sui tasti e a cantare, tutti si fermarono. I musicisti e le altre persone presenti sul posto arrivarono sotto il suo palco per ascoltarlo, increduli.
Tuttavia, questo stupore non ebbe altri effetti immediati (se non quello di attrarre improvvisati quanto incompetenti manager alla porta di Fess), anche perché nel 1971 a New Orleans c’erano molto meno locali rispetto al passato (e a oggi) e la musica di Longhair non era di quel tipo che, in genere, intrattiene i turisti in Bourbon Street, quindi le sue attività continuarono a concentrarsi una volta al mese al Freddie Domino’s Bar nel Ninth Ward (distretto che ha dato i natali a Fats Domino, e in cui tuttora è la sua casa/ufficio) e occasionalmente negli house party privati.

Nel settembre 1971 Davis portò Fess, Snooks, Big Will (il bassista Will Harvey Jr) e Shiba (il batterista Edwin ‘Shiba’ Kimbrough, amico e partner di lunga data) ai Deep South Recorders Studio di Baton Rouge e qui, scrive Hannusch purtroppo carente di dettagli, fu registrata una sessione: « […] the demo session he [Quint Davis, ndr] arranged in 1972 […] into a studio in Baton Rouge and cut 34 songs».
La sessione di Baton Rouge fu appunto nel 1971 e, dati i due dischi (1) usciti successivamente al libro di Hannusch, direi che 34 è il numero totale dei brani (anche se la somma nei due CD è 33), comprendente quindi anche quelli della sessione del giugno 1972 agli Ardent Studios di Memphis, con Snooks, ‘Zigaboo’ Modeliste e George Davis, prodotta ancora da Quint Davis.
Scopo delle sessioni era proporle a Jerry Wexler di Atlantic Records e ad Albert Grossman (proprietario di Bearsville Records e noto manager di Bob Dylan, The Band, Simon & Garfunkel, Full Tilt Boogie Band, Todd Rundgren, Paul Butterfield, e altri), ma nel suo quartier generale su a Bearsville (Woodstock) Grossman era più che altro interessato al rock e non ne venne fuori nulla, nel senso che tutto rimase su nastro nonostante un iniziale notevole investimento di denaro per le sessioni (e un pianoforte, una macchina e dei vestiti per Longhair).
Come raccontato da Davis, lui, Longhair ed Eaglin andarono a Woodstock un paio di giorni invitati da Grossman e fu in quell’occasione, suppongo, che Davis portò con sé i nastri della registrazione Baton Rouge. Davis ha ricordato che i due si sentirono piuttosto a disagio alloggiati tra i monti in una baita in costruzione di proprietà di Grossman senza telefono, acqua corrente ed elettricità, immersa nella neve; qualche giovane fricchettone dei tempi avrebbe subìto il fascino di tutto ciò (e anche chi scrive), (2) ma non i due maturi bluesman neorleansiani, soprattutto Eaglin che era cieco e che non riuscì a dormire infastidito dal rumore della neve che scendeva dal tetto. Nel libro di Hannusch si leggono queste parole di Davis:

We did some sessions that were supposed to come out on Bearsville, but in the end it didn’t work out. I don’t exactly know why — we did some killer sessions — but nothing ever came out. Grossman’s got all the tapes […] When we were there we did one strange session with some guy, and then we did a whole afternoon with the Full Tilt Boogie Band, but it just wasn’t happening.

Questa dichiarazione isolata non chiarisce del tutto se una registrazione fu fatta presso Grossman, dato che “we did one strange session with some guy” e “we did a whole afternoon with” possono essere interpretate come prove o come una vera sessione ma con del registrato non degno (“it just wasn’t happening”, immagino perché i rocker non sapevano rendere lo stile di New Orleans), mentre con killer sessions non può che riferirsi a quelle di Baton Rouge che aveva con sé. Infatti, quando dice che Grossman “tenne tutti i nastri”, è improbabile che si riferisca alla sessione di Woodstock, che in ogni caso sarebbe stato normale da parte del produttore trattenere.
Penso che Davis si riferisse ai “suoi” nastri, i demo della sessione Baton Rouge (quella di Memphis avvenne dopo Woodstock, non so se in seguito fu inviata a Grossman, ma anche quella è compresa nelle “lost sessions”) lasciati con fiducia al noto produttore per la pubblicazione, che Grossman trattenne ma non ne fece nulla, nonostante il finanziamento che tra l’altro giustifica il fatto che li ritenesse suoi. Forse li trattenne in garanzia per le spese sostenute; fu intentata causa legale per questa faccenda. Qui si legge che la causa fu spostata alla giurisdizione del distretto di New York, e che cadde in prescrizione.
Tuttavia è il prosieguo che non riesco proprio a capire:
«So I took them to New York and did a session with George Davis on bass, ‘Honey Boy’ on drums and Earl Turbinton on saxophone. That was, I’d say, his best session ever».
Dando quindi per scontato che niente venne fuori da Woodstock (che è nello Stato di New York), al contrario di come ho letto in una pubblicazione di settore (addirittura c’era scritto che fu con The Band), qui sembra invece che fu registrata una sessione a New York, “la migliore di sempre”: ma questa ha a che fare con Grossman? Soprattutto, è stata pubblicata? Mentre le ottime sessioni Baton Rouge/Memphis sono poi uscite (dopo la morte di Grossman, Bearsville Records continuò a esistere come licenziataria, e diede i master delle “lost sessions” a Rounder prima e a Rhino poi), a tutt’oggi io non ho trovato nessun disco che contenga la sessione di cui parla Davis, perlomeno denominata come “sessione di New York” o in qualche modo riconoscibile.

Henry Roeland Byrd (Professor Longhair) at the piano in New Orleans

Atlantic invece non fece altro che stampare il vinile New Orleans Piano nel 1972, che conteneva il materiale delle sessioni del 1949 e 1953 già pubblicato a suo tempo (nella riedizione su CD tre alt. take sono aggiunti), ma già solo questo per la prima volta permise a Longhair di avere risonanza internazionale, in particolare in Europa, dove hanno sempre attecchito meglio le riscoperte dei bluesman americani.
L’interesse del nuovo pubblico gli permise di attuare una metamorfosi fisica e psichica. Fu curato, andò dal dentista, ricominciò a mangiare, a digerire, e prese l’abitudine di calzare occhiali scuri e in seguito un copricapo.
Wexler organizzò il primo tour europeo (1973) a Parigi e Montreux, con anche Allen Toussaint e i Meters, e tutto fu filmato, incrementando la nuova fama europea.
Le cose cominciarono a girare e Quint Davis affittò una casa al 1517 South Rampart da usare come studio e sala prove per Longhair e i Wild Magnolias, l’altro gruppo che Davis seguiva.
A poco a poco la famiglia di Byrd si spostò nella nuova casa, date le misere condizioni di quella in cui aveva vissuto fino a quel momento, ma poco tempo dopo, una sera, proprio durante il New Orleans Jazz Festival del 1974, l’intera casa bruciò. Non coperti da assicurazione persero ogni cosa, tutto quello che erano riusciti a costruire, e tutto quello che la famiglia di Fess possedeva: le uniche cose che gli rimasero i vestiti che portava addosso.

Fu organizzato un concerto di beneficenza al Warehouse, 1820 Tchoupitoulas Street (non c’è più, demolito alla fine degli anni 1980), con Toussaint, Dr John, Earl King, Tommy Ridgley, ma raccolsero meno di 4.500 dollari. Fu allora che Philippe Rault della francese Barclay offrì a Byrd 750 dollari per un album con Clarence ‘Gatemouth’ Brown, registrato il 3 e 4 aprile 1974 nello Studio In The Country nella città natale del Professore, Bogalusa. Ne uscì il più che riuscito Rock ‘n’ Roll Gumbo che però, da non credere, uscì postumo e rimissato nel 1985. Oltre all’accoppiata Professor Longhair-Clarence Brown, il disco vede ancora la presenza di Shiba e ha sapore calypso grazie alle percussioni di Alfred ‘Uganda’ Roberts; come al solito sono riprese di classici suoi o altrui ma, come al solito, ogni volta è un nuovo piacere.
Uscì invece mentre il pianista era ancora vivo, anche se con tre anni di ritardo, il vinile Live on the Queen Mary voluto da Paul McCartney e registrato sulla nave Queen Mary a Long Beach, California, il 24 marzo 1975; la foto di Fess che perplesso guarda l’obiettivo è di Linda McCartney, fotografa di professione. La cosa buffa è che quando McCartney contattò il pianista, questi non solo non sapeva chi fosse, ma nemmeno conosceva i Beatles, dato che tutto il mondo di Longhair stava in un triangolo che comprendeva Rampart Street, Tremé e il Ninth Ward.
Nel 1977, con gli sforzi di un gruppo di appassionati di Longhair, fu riaperto il 501 Club e rinominato Tipitina in suo onore, e questo diventò il posto fisso in cui i fan potevano sentirlo suonare. Finalmente si poté permettere una casa, e ne comprò una in Terpsichore Street, non lontano da South Rampart (per il Tipitina, vedi lo stesso link).

Tra i CD postumi si può evitare un Wolf denominato Go to the Mardi Gras, prodotto da Ron Bartolucci, che raccoglie registrazioni live in Europa negli anni 1970, e altri dischi simili.
È invece da non perdere, come si sarà capito, House Party New Orleans Style pubblicato nel 1987 su Rounder Records, contenente quindici di quella trentina di tracce di cui sopra registrate nello studio di Baton Rouge e agli Ardent Studios. È forse il disco del Professore che preferisco, anche se è “anomalo” non essendoci la sezione fiati. Quint Davis aveva motivo di indignarsi per la mancata pubblicazione; non si può non condividere che nel complesso sono killer sessions. Snooks Eaglin, altro particolare prodotto della Big Easy e chitarrista originale e versatile, fa un lavoro importante, mentre la sezione ritmica è favolosa; è in definitiva un disco anche molto blues.
Il resto delle registrazioni di Davis sono nell’altrettanto bello Mardi Gras in Baton Rouge di Rhino Records. Nononostante il titolo, qui la prevalenza va alle tracce di Memphis; i CD hanno mantenuto il titolo originale degli album, in cui c’erano solo undici tracce nel primo e sette nell’altro. Entrambi hanno ottima qualità audio, cosa che purtroppo non si riscontra spesso nella discografia di Longhair. Qui c’è anche la sezione fiati, con l’arrangiatore Alvin Batiste al tenore, Edward ‘Kidd’ Jordan al baritono, Willie Singleton e Clyde Kerr alle trombe.
Dopo la scomparsa di Byrd è uscita una gran quantità di dischi che hanno moltiplicato la discografia inutilmente, spezzettandola o proponenti compilazioni con più o meno le stesse versioni di brani già pubblicati e a volte con titoli ingannevoli del tipo “Essential”, o live spuntati fuori magicamente. Sono tanti e occorre un’attenta selezione per evitare di avere troppi brani nella stessa versione e/o un’edizione scadente, e anche per questo nell’articolo precedente ho parlato di The Complete, perché vi sono riuniti tutti i brani fino al 1957 precedentemente suddivisi in varie pubblicazioni.

Nel novembre 1979 fu finalmente organizzata da Alligator una sessione ai Sea-Saint Studios, e Allison Miner Kaslow era tra i produttori, essendo Davis ormai troppo impegnato con il Festival.
Ne venne fuori Crawfish Fiesta, disco spassoso, ben fatto, energetico, con la versione definitiva di Big Chief aprente in modo splendido. L’originale, diviso in due parti, uscì su 45 giri nel 1964 per Watch Records di Joe Assunto, e la sessione fu prodotta da Wardell Quezergue e Earl King. Pensando a un brano adatto a far ripartire la carriera di Longhair, King si ricordò di questo suo scritto dei tempi di scuola e, benché il titolo e il testo sembrino riferiti al capo di una tribù di Indiani del Mardi Gras, King quando lo scrisse era un ragazzino e s’ispirò alla madre, in famiglia chiamata Big Chief per la sua mole. L’idea era di fornire accompagnamento a Longhair con un arrangiamento ricco, al contrario del solito, e saturo di suoni bassi; Quezergue scrisse l’arrangiamento per la sezione fiati, di ben quindici elementi.
Sempre dal racconto di Earl King si legge che quando lui, Longhair e Smokey Johnson entrarono nello studio, Longhair, convinto che si trattasse di essere in quattro (c’era anche Dr John, ndr), si stupì per la presenza di tutti quei musicisti (tra cui forse i Meters, ndr), tanto che gli chiese se quelli stessero aspettando la sessione dopo. Per tranquillizzarlo King gli rispose che probabilmente era così; Fess allora si sedette al piano e cominciò il suo intro. Quando la sezione ritmica attaccò, e poi tutto d’un tratto arrivarono i fiati, Fess smise di suonare e chiese che stava succedendo.
Seguì una discussione perché Longhair non voleva tutti quei musicisti, non ne sentiva il bisogno, ma poi si convinse e ci mise tanta di quella energia che ancora una settimana dopo era entusiasta, anche per aver ricominciato a far musica. L’entusiasmo si ridimensionò quando Big Chief, all’epoca, fu un flop. Fu pubblicata senza nessuna promozione e, nel primo anno, nessuna stazione radio la suonò. Tuttavia pian piano il brano localmente prese piede.
Strano che Hannusch non si sia accorto che fu solo suonato da Longhair, e non cantato. King, infatti, con Fess fece una registrazione solo strumentale, sovra-incidendo il suo canto e il fischiettio di modo che il pianista potesse ascoltarlo e reinterpretarlo. La casa discografica però, non capendo che era un demo, lo prese e lo pubblicò così com’era con il nome di Professor Longhair, ma si sente che non è lui a cantare (nella seconda parte), né a fischiare, solo che non essendoci il nome di Earl King nessuno pensò che non fosse lui, e ancora oggi molti non ci badano.

Tornando al disco in questione, è evidente che qui invece si tratta di Longhair al 100%, dimostrando che non c’è bisogno di una ventina di elementi per rendere Big Chief al meglio, ma solo di una splendida formazione: Andy Kaslow (marito di Allison) e Tony Dagradi ai tenori (con i loro propri arrangiamenti), Jim Moore al baritono, Dr John alla chitarra, Alfred ‘Uganda’ Roberts alle conga, David Lee Watson al basso e Johnny Vidacovich alla batteria. Byrd, sessantunenne in ottima forma (musicale) emana il suo tipico, gorgheggiante shouting, il fischio potente, intonato, e le dita rotolano agili sui tasti mentre l’attillata sezione ritmica puntella di maestosi colori un brano indissolubilmente legato a New Orleans.
Si conferma una delle mie preferite Her Mind Is Gone, e anche qua abbiamo la definizione di un brano che però in questo caso ha seguito Byrd durante tutta la carriera. È un piacere sentirlo cantare e suonare così, incorniciato da una ritmica su misura scandente un voluminoso mid tempo marciante nella tradizione second line. Par di vedere davvero, attorno a lui, una folla di gamberoni e ombrellini danzanti.
Ho sentito tante versioni di (There Is) Something on Your Mind, la bellissima ballata di Big Jay McNeely che nella versione stravolta di Bobby Marchan (una specie di parodia pulp) arrivò al primo posto delle classifiche nazionali R&B, ma questa è quella che preferisco insieme all’originale. Usa il testo di McNeely (invece B.B. King ed Etta James ripresero in duetto la versione di Marchan), la canta con splendida voce bassa e l’arricchisce con i suoi gorgheggi, modulandola a bocca chiusa e in piccolo scat melodico, lasciando spazio a metà brano per un caldo, lungo solo di sassofono in onore di Jay McNeely.
Torna il Byrd di sempre, rollicking, ironico e vivace nella caraibica You’re Driving Me Crazy, che altro non è che una breve ripresa di No Buts, No Maybes, con i fiati a ripetere un divertente riff: una carica di energia che purtroppo dura solo due minuti e mezzo, un motivo che entra in testa e un brano esplicativo dell’arte di Professor Longhair.

Che dire dell’esplosiva Red Beans, icona del soul food povero ma sostanzioso della Louisiana e della sua tipica narrazione tra nonsense, semplicità e coolness. Sostenuto da una base ritmica irresistibile, nel cui vortice gioioso spiccano gli accenti sulle conga di Alfred ‘Uganda’ Roberts, e dai sassofoni, Longhair dal piano conduce con canto convinto e assolo trascinante, tra boogie, rock, swamp e blues.
La canzone, apparsa qui per la prima (e ultima) volta, è da sempre attribuita a Muddy Waters perché pare che Fess si sia ispirato a Got My Mojo Working (che comunque non è di Muddy Waters). In effetti l’assonanza esiste nelle sostituzioni delle frasi Got my mojo working con Got my red beans cooking, e I’m goin’ down to Louisiana to get me a mojo hand / I’m gonna have all you women right here at my command con I’m goin’ down to Louisiana / Gonna find me a ham bone boy / I’m gonna have all these women jumpin’ for joy, ma l’arrangiamento la rende anche molto diversa.
Willie Fugal’s Blues, delizioso impromptu pianistico di solo due minuti accompagnato da un delicato ritmo sulle conga, è semplice ma lascia il segno e, come Something on Your Mind e tutto il resto di questo disco, non stanca mai, mentre It’s My Fault, Darling è un bellissimo, potente blues a tempo andante con le parole mangiate, yodelizzate, pianismo ritmico, bel solo di Dr John (che ricorda l’Eaglin delle sessioni di Quint Davis) e caloroso sostegno dei fiati.

Tanto per non smarrire la coscienza di essere ancora a New Orleans arriva il favoloso tempo rumba da second line In the Wee Wee Hours, l’ultima, coinvolgente versione di In the Night, con accompagnamento a moto costante che suona sempre come un unico corpo in cui ogni voce è ben distinta, e la chitarra di Dr John in brevi ghirigori ritmici, su una delle canzoni più festose del Professore.
Solomon Burke in Cry to Me è unico, trascendentale, ma la versione rumba time di Byrd di questo gioiellino di Bert Berns è altrettanto unica, se non può essere altrettanto classica. Nelle sue mani ecco come una ballata sentimentale viene “professorizzata”, cioè vivisezionata, sdrammatizzata e anche un po’ ridicolizzata con quei buffi acuti, quegli impeti vocali gonfi, cupi e allegri allo stesso tempo. Byrd non si concede al formalismo ed esprime in pieno il suo carattere rock ‘n’ roll.
Un disco d’ascoltare tutto d’un fiato che ha del miracoloso, ed è così fino alla fine perché anche gli ultimi tre brani, l’ironico up-tempo Bald Head ad aprire le danze finali, ancora non lasciano spazio a nessuna bolla travolgendo con un’ondata di suoni irresistibili. Slang velocissimo e un break di pianoforte che è come la panna sulla torta di cioccolata: quanto tempo da quando cantava She Ain’t Got No Hair al Caldonia Inn, eppure eccola qua di nuovo fresca come se nulla fosse successo, sempre più divertente, sempre più conscio di un serio lato umoristico dominante su ogni cosa.
Forse il fatto che Byrd sia scomparso dopo circa due mesi da queste registrazioni significa che queste ultime versioni di alcuni suoi classici non avrebbero potuto in ogni caso essere superate.

E chi ancora non ha idea di com’è quel canto, con quegli sbalzi di tono ormai ben controllati (debolezza diventata punto di forza) e l’uso di fonemi casuali, yodel e scat a puro scopo ritmico (molto diverso dallo scat studiato a tavolino di Ella Fitzgerald, e più simile invece a quello di Louis Armstrong), si ascolti l’intricata e lucida Whole Lotta Loving, piccolo piece of work dentro un masterpiece of work.
A confronto la versione originale di Fats Domino sbiadisce inesorabilmente, anche se bisogna tener conto della diversa consapevolezza epocale. Non credo sia possibile far meglio (e notare il piccolo duello di sassofoni, sopra una ritmica celeste): probabilmente qualcosa di magico e inesplicabile è sceso nei Sea-Saint, qualcosa che poi si è dileguato dietro l’ombra di Longhair e che lui s’è portato via, o s’è fatto portare via.
Tanto whole lotta love quindi, da uno che a inizio carriera, prima dell’azzeccato nomignolo di Professor Lunghicapelli, provò a chiamarsi Little Lovin’ Henry, rinunciando quando s’accorse che gli uomini non gradivano che le loro donne stessero a sentire un tipo con uno pseudonimo così allusivo.
Crawfish Fiesta è un simbolo, una festa a base di gamberi della Louisiana e calypso, ed è quel bellissimo strumentale che in Rock ‘n’ Roll Gumbo si chiama Rum and Coca-Cola. Originariamente scritto con testo da Lord Invader e Lionel Belasco, importanti musicisti caraibici, è attribuita a Amsterdam, Sullavan e Baron perché ne fecero una versione pop di successo cambiando il testo, cantato dalle Andrews Sisters.
Un modo perfetto per accompagnare il ritorno a casa di Henry Roeland Byrd, figura essenziale nel rhythm and blues di New Orleans e del blues in generale, che magari ha oscurato altri grandi nomi cittadini (pianisti suoi contemporanei come James Booker, Champion Jack Dupree, Cousin Joe Pleasant), ma certo non per colpa sua quanto per colpa di un mercato isterico e incontrollabile.
Allo stesso tempo è stato oscurato lui stesso, vittima di logiche che cozzano contro il genio e il talento artistico, aspetti la cui ultima risorsa è solo nelle mani dei fan, degli affezionati, quando siano così svegli da imporre i loro beniamini al mercato e non il contrario, non passivi e ignoranti (nel senso peggiore della parola) formati e sostenuti dai media di massa.

Professor Longhair in the streets of New Orleans

Questo disco a dir poco brillante, un po’ umano e un po’ piovuto dal cielo, mostra quanto la sua fonte alla fine del 1979 fosse ancora vitale, quanto avrebbe potuto dare ancora, e quanto dobbiamo ringraziare i fan che gli hanno prolungato la vita permettendogli un ultimo decennio significativo che gli ha permesso di arrivare alla fine contento e soddisfatto, tanto quanto ha deliziato chi ha voluto ascoltarlo.
Anche in questo caso Byrd fu sfortunato con la raccolta degli eventuali frutti del suo lavoro, dato che se ne andò il 30 gennaio 1980, l’uscita del disco prevista per il 1° febbraio, il giorno dopo.
Morì a casa sua davanti alla moglie Alice, dopo una giornata come tutte le altre passata a portare in giro in carrozzella l’amico invalido per le strade della Big Easy.
Con la sua musica reinventò gli accenti ritmici come solo un neorleansiano può fare, mischiandoli con boogie e rock, ritmi latini e tradizione pianistica blues, ma il suo valore per gli abitanti della città andò oltre il fatto musicale, stando in quello strano miscuglio tra mito e persona comune a cui pochi possono aspirare.
La sua perdita fu un ulteriore dolore in un città che ha visto sparire i propri miti uno a uno, mettendo a dura prova anche la piccola funeral home di Dryades St. da tanta fu la gente accorsa, la second line del corteo funebre fino al cimitero di Gentilly così lunga da invadere dieci blocchi di strada. Ernie K-Doe cantò al suo funerale e decretò, senz’ombra di retorica: “Everybody learned a lot from this man”.

(Fonte biografica e fotografica: Jeff Hannusch, I Hear You Knockin’, the Sounds of New Orleans Rhythm and Blues, Swallow Publications Inc., 1985.)


  1. House Party New Orleans Style, The Lost Sessions 1971-1972 e Mardi Gras in Baton Rouge.[]
  2. Tra l’altro Woodstock era storicamente, e ancora è, rifugio di molti artisti.[]
Scritto da Sugarbluz // 21 Settembre 2011
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2 risposte

  1. Mark Slim ha detto:

    “Morì a casa sua, davanti alla moglie Alice, dopo una giornata come tutte le altre, passata a portare in giro in carrozzella l’amico invalido per le strade della sua Big Easy”. Un finale di vita degno dello spessore artistico e umano di Prof. Longhair…

  2. Sugarbluz ha detto:

    L’amico si chiamava Richard. Dal racconto di Alice Walton Byrd: “Tornò a casa e si sdraiò. Si alzò verso le 22 e portò il nipote piccolo da Picou (un panificio di Mid City aperto tutta la notte) per prendere una dozzina di twister” (un tipo di pane arrotolato) “Quanto tornò mi sembrò strano che non volesse né un caffè né un twister, niente di niente. Si sdraiò nel letto […] poi lo sentii tossire. Dissi: ‘Byrd?’. Non ci fu un gemito, non un lamento, ma avevo già visto mia madre morire, e capii che se n’era andato”.

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