Respect Yourself – Stax Volt Revue

The Stax Records Story & Live in Norway 1967

"Respect Yourself, Stax Volt Revue" DVD cover

In Memphis in the ’60s, people who couldn’t dine together joined together to make music, soul music, at a place called Stax.
È il preambolo di quest’altra bella pubblicazione Reelin’ in the Years uscita nel 2007, quarant’anni dopo il tour in Europa della Stax/Volt Revue. Il primo dei due DVD è la storia, narrata da Samuel Jackson, della piccola grande casa discografica partita in un garage di Brunswick, Tennessee.
Il racconto comincia dalla Satellite Records di Estelle Axton e Jim Stewart nella nuova sede in East McLemore Avenue a Memphis; uno studio, un negozio e un’etichetta di proprietà bianca dentro un cinema-teatro in disuso in un quartiere della classe operaia nera, e da subito si vedono alcuni dei protagonisti intervistati, come Mavis Staples, Isaac Hayes, Booker T Jones, Steve Cropper, Al Bell, ‘Duck’ Dunn, Deanie Parker, Rufus e Carla Thomas, Don Nix, Wayne Jackson, Jerry Wexler, Axton e Stewart.
Furono i primi artisti a registrare in McLemore nell’estate 1960, Rufus Thomas e la figlia Carla, a ottenere il primo successo regionale, Cause I Love You, supportati dalla distribuzione di Atlantic Records. La leggenda continuò a prendere forma nel 1961 con i Mar-Keys, studenti delle scuole superiori che ebbero successo nazionale con Last Night, incisa da Steve Cropper (ai tempi commesso nel negozio di dischi di Estelle), ‘Duck’ Dunn, il tastierista ‘Smoochy’ Smith e una sezione fiati formata da Don Nix, ‘Packy’ Axton, e Wayne Jackson.

Satellite diventa Stax Records e dai Mar-Keys nascono Booker T & The M.G.’s, quartetto con Cropper, il bassista Lewie Steinberg e due ragazzi afroamericani del quartiere – il tastierista Booker T Jones (formatosi come sassofonista, oboista e trombonista) e il batterista Al Jackson Jr. Due bianchi e due neri esempio di un’integrazione ancora lontana al sud, in una città che negli anni 1960 era un modello di società appartenente al secolo precedente, fondato sulla divisione razziale. Con questa formazione non solo piazzarono il loro successo epocale, Green Onions, ma definirono il solido core ritmico di Stax e il carattere del soul sudista (Duck Dunn tornerà al suo posto nel 1964).
William Bell, tra gli intervistati, esegue in studio You Don’t Miss Your Water accompagnato al piano da Marvell Thomas, e il Rev. Samuel Billy Kyles, al Warren’s Barber Shop con Al Bell (ex dj, in Stax partì alla promozione e arrivò alla presidenza, diventando figura di riferimento) racconta l’uccisione di Martin Luther King al Lorraine Motel, proprio il luogo che, dopo Stax, era la “seconda oasi felice” degli artisti neri.
Booker T, Cropper e William Bell ricordano invece l’arrivo dalla Georgia nell’autunno 1962 dell’ancora sconosciuto Otis Redding, che parcheggiò il mezzo di Johnny Jenkins and the Pinetoppers davanti al negozio e scaricò gli strumenti del gruppo, poi attese tutto il giorno per farsi ascoltare. Durante una pausa qualcuno suonò “accordi da chiesa” e lui cominciò a cantare These Arms of Mine; Cropper parla di pelle d’oca e Bell aggiunge che tutti arrivarono da fuori, dal negozio, dagli uffici, dentro lo studio per sentirlo. A seguire, attimi tratti dalle sue intense performance dal vivo, e le angoscianti immagini del suo aereo precipitato nel lago, dove persero la vita lui e i Bar-Kays che lo accompagnavano in tour.

The Stax Records Story, Respect Yoursef

Porta la sua esperienza anche David Porter, altro artista del luogo a costruirsi un’esistenza grazie alla presenza di Stax nel quartiere e alla sua politica della porta aperta, formando con Isaac Hayes una prolifica coppia di autori fondamentale per il successo dell’etichetta; se Sam & Dave sul palco erano il dynamic duo, in studio “Isaac e David erano il dynamic duo writers“, dice Cropper.
Scrissero centinaia di canzoni, ma ci furono anche altri team di autori: la coppia Cropper/Eddie Floyd (il primo anche con Pickett e Redding) e il trio Bettye Crutcher, Raymond Jackson e Homer Banks.
Il vocione di Rufus Thomas sottolinea la differenza con Motown (“Motown had the sweet, but Stax had the funk”), concentrata nell’epiteto che la Casa adottò, Soulsville, in risposta all’etichetta di Detroit, Hitsville.
Intervengono anche Sam Moore, Eddie Floyd e Andrew Love (quest’ultimo e ‘Duck’ Dunn sono scomparsi nel 2012) con testimonianze sul tour europeo del 1967, in cui la “famiglia Stax” s’accorse direttamente della portata del loro impatto al di fuori – sono parole di Cropper – dell’“isolato in cui vivevamo”.
Fu qualcosa di nuovo e inaspettato, di travolgente sia per loro che per il pubblico europeo, con le focose esibizioni di Sam & Dave (“It was a happy church”, Moore) e la trainante passione della prima star della Casa, Otis Redding.
Il tour finì al Festival di Monterey (“un’esperienza che mi cambiò la vita”, Booker T), con Wayne Jackson che ricorda quanto si sentivano fuori luogo con il pullover a collo alto, le camicie di seta, il pantalone con la piega e lo stivaletto davanti alla marea di hippie con i capelli lunghi e i jeans stracciati (“Sembravamo adatti per un lounge act […] ma li stendemmo, e quando venne fuori Otis non ce ne fu più per nessuno”): fu il giorno in cui capirono di “aver girato l’angolo”.

Il secondo dischetto testimonia proprio una delle ultime serate del tour europeo, il 7 aprile 1967 a Oslo. La durata fu di novanta minuti e il filmato originale, ripreso dalla televisione di stato norvegese, ne mostrava solo sessanta, ma in seguito alla scoperta di un altro spezzone l’intero documento restaurato ha raggiunto i settantacinque minuti. Il giro di tre settimane fu organizzato da Atlantic da un’idea e finanziamento di Phil Walden, il manager che aveva portato Otis Redding in Europa l’anno prima, e prese forma in Inghilterra, Francia, Danimarca, Svezia e Norvegia.
Nonostante da Stax stessero scrivendo un importante pezzo di storia musicale, lo spirito era ancora quello della band liceale; non erano abituati a suonare per più di due-trecento persone e neppure conoscevano l’impatto dei loro dischi in Europa o quanto fossero conosciuti, e avevano dubbi su come sarebbero stati accolti. L’esperienza fu un’inaspettata valanga fin dal momento in cui gli fu comunicato: a parte Redding appunto, nessuno di loro era mai andato in Europa e nessuno mai l’aveva neanche lontanamente immaginato. In realtà neppure avevano mai fatto un vero tour in USA, e passarono i giorni antecedenti la partenza in uno stato di massima eccitazione e anche di preoccupazione in quanto, riferisce il trombettista Wayne Jackson, quel materiale l’avevano suonato come accompagnatori in studio, e non più ripreso.

Anche se la sezione fiati (Mar-Keys), con diverse formazioni, e la ritmica (Booker T & MG’s) avevano sostenuto in studio gli artisti Stax da almeno cinque anni, ai primi concerti europei fu una sorpresa perfino per alcuni di loro vedere come si comportavano sul palco i cantanti, non solo per gli ad lib che aggiungevano, sempre diversi e a volte triplicando la durata della canzone incisa, ma anche per le performance di ballo, ad esempio di Sam & Dave e Arthur Conley, che ogni sera si spremevano al limite della resistenza.
Guardando questo filmato non traspare nulla di tutto questo, intendo dire della “impreparazione” generale, ma solo una palpabile emozione da parte di tutti e nessun problema dal punto di vista esecutivo e di intendimento dei cantanti con la band. I sette accompagnatori suonano con estrema empatia e unione – il supremo Al Jackson li guida tutti con sapienza dalla sua postazione con “atteggiamento zen”, come dicono giustamente nei commenti – e l’improvvisazione va letta in senso di adattabilità ai frontman che si susseguono; inoltre qui siamo alla fine del giro, nella terza settimana, quando il set ormai era collaudato.
Stax fece riprese dei due concerti iniziali, al Finsbury Park a Londra e all’Olympia di Parigi, dove ci furono scene di isteria e invasioni di palco quasi paragonabili a quelle per Elvis e i Beatles, mentre il pubblico scandinavo, manco a dirlo, fu molto più freddo, in particolare gli svedesi. Qui possiamo notare quello norvegese, molto più pacato di quello inglese e molto diverso, almeno d’aspetto (a parte qualche capellone), da quello di Monterey. C’è un servizio di sicurezza, ma si suppone che non sarebbe cambiato niente se non ci fosse stato dato il comportamento rispettoso dei ragazzi, e si nota come la platea sia molto attenta durante tutti i brani, con applausi solo alla fine e facce divertite e sorprese: fu il primo concerto di musica soul nel paese.

Aprono Booker T & MG’s con una portata gustosa, il B side Red Beans and Rice, prima di finire con Green Onions, brano che chiudeva sempre il loro set. È probabile che tra i pezzi mancanti di Oslo ce ne sia almeno uno loro dato che dei Mar-Keys ci sono tre brani, forse Gimme Some Lovin’, che come i Blues Brothers insegnano era in repertorio. Anche se qua non si nota, il concerto-tipo del tour era diviso in due parti e gli MG’s con Booker le aprivano entrambe come gruppo solista.
Sono riprese storiche, e fa sempre piacere veder svolgersi la matassa del loro tipico, profondo groove fatto di melodia e ritmo, le buffe espressioni di Duck Dunn, sempre più che presente (il suo girare la testa da una parte e dall’altra, al di là d’essere magari un gesto istintivo e ritmico, sembra un costante controllo sul suono dei suoi compari), Steve Cropper compassato e sobrio come sempre in sostegno a Booker T Jones (e viceversa), che armeggia con imperturbabilità (e sensualità) sulla tastiera dell’organo, mentre Al Jackson Jr è un piacere spettacolare, un insegnamento costante. Dovrebbero guardarlo tutti i batteristi, anzi, dovrebbe essere imposto prima di accettare un qualsiasi batterista nella propria band a maggior ragione se blues, ma non solo. Tutto ciò ovviamente funziona anche come accompagnatori: loro quattro stanno sul palco dall’inizio alla fine e ci stanno magnificamente.
Ciò che si nota subito è il muro di Marshall dietro, ed è evidente che non può essere roba loro, ma tempo che comincino a suonare e i timori per un brutto suono gracchiante spariscono, a parte la mediocre qualità audio della registrazione. Cropper, commentando il filmato insieme a Wayne Jackson e al musicologo Rob Bowman (autore di Soulsville USA: the Story of Stax Records), dice: «I can’t get that sound with a Marshall amp today, they must be making them different».
Ho letto poi nel libretto che gli amplificatori e la batteria furono prestati da un gruppo locale, il cui batterista (Leif Hemmingsen) rimase impressionato dal fatto che non fecero nessun soundcheck, arrivando dieci minuti prima dell’inizio, controllando solo che ci fosse corrente e andandosi a cambiare subito dopo:

I remember Al Jackson came up to me because I had put the drums up. I was a bit nervous that everything should be okay. I showed him the drums and said, “Is this okay with you?”. He put a finger on one of the tom toms and said, “Well that’s great, drums are drums you know”. They checked that there was electricity on the amps. They went down to the dressing room and changed and when they came up on stage, they just went up, plugged in and set the volume. It was ‘one, two, three, four’ and it sounded fantastic. We were just so impressed. (1)

La successiva entrata presenta la sezione fiati, i Mar-Keys, qui due sax tenori e una tromba, che portano i loro due più grandi hit, lo scattante Philly Dog, che già mostra la loro perfetta interazione, supportati con intensità da basso e batteria (la registrazione sonora privilegia la parte centrale del palco rispetto a quella esterna, bene invece le riprese visive), e il celeberrimo Last Night, intervallati da Grab This Thing.
Sono Joe Arnold, il piccolo Wayne Jackson in mezzo e alla sua sinistra Andrew Love, quest’ultimo con un solo che evidenzia l’influenza di King Curtis, ai tempi sotto contratto Atlantic (Love e Jackson poi fonderanno i Memphis Horns).
Nell’implacabile, elastico mid-tempo Grab This Thing – i tre sempre all’unisono e sempre accompagnando con il corpo – Al Jackson s’inserisce con richiami vocali, e lo scivolamento verso Last Night avviene senza interruzioni (nell’originale c’erano Gilbert Caple al posto di Joe Arnold e Floyd Newman al posto di Wayne Jackson). Qui il solo spetta ad Arnold, che si muove avanti e indietro a tempo, mentre gli altri proseguono nei passetti di danza: esemplare anche qui il lavoro del batterista, che pompa puro ritmo dentro ai tre fiati, come a tenerli accesi e costanti; sembra dirigere tutto.

Stax/Volt Revue 1967's flyer

I fiati rimangono in scena ma si fanno da parte dando spazio al primo cantante della serata, Arthur Conley, non un artista Stax, ma Atlantic. La sua presenza si spiega con il fatto che era pupillo di Otis Redding, e perché la sua Sweet Soul Music (prodotta da Redding e registrata agli studi FAME) era appena entrata in classifica sia in USA che in Europa, vendendo più di un milione di copie. Dapprima lo smilzo e agile Conley accende il pubblico, che s’alza in piedi, con In The Midnight Hour di Wilson Pickett, poi prosegue in una versione allungata di Sweet Soul in cui, sempre cantando e coinvolgendo il pubblico, dichiara quelli che secondo lui sono i più grandi della soul music, nominandoli da uno a cinque (‘brother’ Lou Rawls, Sam & Dave, Wilson Pickett, Otis Redding, James Brown) e proseguendo cantando pezzetti di loro successi (di Sam & Dave, Wilson Pickett e Otis Redding).
Nei commenti viene sottolineata la stranezza di un cantante che intona i pezzi forti di altri artisti che stanno per uscire, ma qui si tratta di vero e proprio omaggio, anticipazione garbata, celebrazione della musica soul e del suo pantheon.
Carla Thomas partecipò solo alla prima settimana del tour quindi qui non è presente, mentre di Eddie Floyd c’è solo Raise Your Hand. Il pubblico è definitivamente coinvolto, e sceso dal palco Floyd si fa addirittura abbracciare da un fan, prima che arrivino quelli che lui chiama “soldiers” a scoraggiare altre simili iniziative.

L’energico set di Sam (Moore) & Dave (Prater) parte con You Don’t Know like I Know, e la struttura dei loro duetti si rivela da subito composita. Quando non vanno via insieme e fanno cose diverse i due sono comunque speculari, con l’armonia e il dinamismo evidenziati più dalla diversità che dall’uguaglianza, rivelandosi più cinetico Sam, la voce più alta, rispetto a Dave. Durante un break strumentale Sam è in primo piano intrattenendo il pubblico, Dave rimane indietro con un movimento costante sul posto, e dicono bene i commentatori paragonando il suo lavoro a quello di un cobra. Sam invece già all’inizio del secondo brano (se non è stato tagliato qualcosa in mezzo), Soothe Me, è copiosamente sudato, ma non si risparmia, anzi aumenta l’intensità, così come l’interazione diretta con Al Jackson.
Durante il lento When Something Is Wrong with My Baby, mozzato del primo verso, Sam canta in un lago di sudore, mentre Dave, di spalle, diverte Duck Dunn: i due cantano come se pregassero, soprattutto Sam quando, sempre più gocciolante, trascina la platea nell’epica Hold on I’m Coming, con finale al fulmicotone durante il quale, su tempi accelerati, i due vanno via e tornano fuori sostenuti alla grande dalla band, concludendo con un mulinello di braccia come in procinto di alzarsi in volo: saluto spettacolare per una performance spettacolare.
Difficile per chi segue mantenere il climax, ma non per Otis Redding, amato dal pubblico e figura decisamente carismatica. Delle sette canzoni del suo set ce ne sono cinque, a partire dalla nota Fa-Fa-Fa-Fa-Fa (Sad Song), cantata con il pubblico, e My Girl dei Temptations: lui non è un ballerino, ma non ne ha bisogno. Il suo canto e la sua espressività appartengono a una vena unica, l’impersonificazione stessa del concetto di musica dell’anima. Impressionante il lavoro in Shake, in cui Al Jackson raddoppia il tempo, i fiati aggiungono fuoco e fiamme e la ritmica groove implacabile, mentre Otis è sul pulpito circondato da un’aura magica, fatta di spirito e materia, convogliante pura passione. Passata al setaccio anche Satisfaction degli Stones, condensata ed elevata alla massima energia, riservando al finale il crescendo di Try a Little Tenderness, con ripetute uscite e ritorni in scena.

La Stax Volt Revue fu il punto più alto prima della caduta, e successiva rinascita con nuovi protagonisti. Dopo la scomparsa di Otis seguirono altre disgrazie, come appunto l’uccisione di Martin Luther King e la tragica perdita di Al Jackson, momenti bui come la separazione da Atlantic, in cui Stax a causa di una svista contrattuale perse il suo intero catalogo (e Sam & Dave, che erano stati portati dall’etichetta newyorchese), e la minaccia di morte rivolta a Jim Stewart. Il quartiere dopo la scomparsa di King non fu più un’isola felice, bianchi e neri lottavano apertamente in direzioni opposte e il modus operandi e il successo di Stax, esempio d’integrazione razziale con presidente afroamericano, rappresentavano qualcosa di fastidioso e insostenibile.
Duck Dunn fu mandato da Al Bell a comprare pistole per autodifesa e fu eretta una recinzione di due metri, vigilata da guardie. Ingaggiarono due scagnozzi di New York, Johnny Baylor (in seguito arrestato all’aeroporto con una valigia piena di soldi) e Dino Woodard (poi diventato religioso) come guardie del corpo, personaggi ambigui descritti come protettori e allo stesso tempo molestatori. Nel frattempo il negozio di dischi di Estelle, che era stato luogo d’incontro e apertura verso l’esterno, era già stato chiuso per fare spazio agli uffici e lei, che era stata anima, forza e “orecchio” fin da quando fondò l’etichetta, vendette la sua parte e se ne tirò fuori.
Il racconto del documentario prosegue con la rimonta di Al Bell e la sua Soul Explosion, concentrata nell’inondazione del mercato con ventisette album in contemporanea e un nuovo suono, ben rappresentato da una fantastica ripresa di un concerto di Johnnie Taylor – che con completo anni Settanta e ancheggiante come una drag queen canta Who’s Making Love (con commento dell’autrice Bettye Crutcher) accompagnato da una band completa che fornisce funky-soul serrato ed esplosivo – e soprattutto dal disco Stax più venduto in assoluto, Hot Buttered Soul di Isaac Hayes, che diventerà una superstar e in seguito sarà premiato dall’Academy Award (la prima volta per un nero) per la colonna sonora di Shaft, assumendo l’identità di un black Moses, simbolo di orgoglio e delle conquiste sociali degli afroamericani.

Bellissimi gli spezzoni degli Staple Singers, e di Sir Mack Rice che durante l’intervista intona ritmicamente Respect Yourself, il suo brano per gli Staples, per non parlare di alcune favolose riprese di Wattstax, che nel 1972 portò a Watts, area infuocata dalle rivolte sociali, più di centomila persone, “un quinto della popolazione afroamericana di L.A.”, ad assistere alle performance dei Bar-Kays, Albert King, Luther Ingram, Carla Thomas, William Bell, Eddie Floyd, Rance Allen, The Staple Singers, Rufus Thomas, Isaac Hayes e altri.
Negli anni Settanta Stax fornì sostegno all’economia, alla cultura e alle cause afroamericane disponendo di grandi guadagni, ma anche scialacquando in beni di super lusso e producendo in territori sconosciuti come il cinema e la televisione: uno sfarzo e un impianto simboli del nero che ce l’aveva fatta, e una rivoluzione musicale che proseguiva di pari passo con il movimento per i diritti civili.
Mentre l’ultimo sogno di Al Bell si stava concretizzando in un accordo con il redneck Clive Davis (capo di CBS) offerente a Stax una grande distribuzione, la fine arrivò precipitosamente. Davis fu arrestato e indagato per qualche motivo, e dato che nessun altro in CBS si mostrò interessato all’affare i prodotti Stax furono immagazzinati e i pagamenti trattenuti, fermando di fatto l’attività dell’etichetta.
Nello stesso periodo Union Planters, la banca storica di Stax, cedette sotto un crollo immobiliare nazionale e nominò un nuovo presidente per la solvenza, Bill Matthews, che chiuse i rubinetti. Non solo la banca bloccò i prestiti, ma citò Stax di frode bancaria per una cifra di “sedici o diciotto milioni di dollari, credo” (Al Bell). Stax fu chiusa dal tribunale alla fine del 1975 per bancarotta, e alla fine fu arrestato un funzionario della banca, Bell assolto da tutte le accuse ma, come dice Willie Hall, inevitabilmente macchiato.

Amare le immagini della vendita all’asta dei beni, e tristi quelle di Soulsville in pieno abbandono negli anni Ottanta, e poi del lotto vuoto lasciato dall’edificio demolito dalla Church of God In Christ, da loro comprato per dieci dollari. Al Bell racconta che alla vista di quel nulla pianse a dirotto:
«All we had worked for and lived for, there was not even a symbol of that in place. It was like someone had tried to wipe all of that off the face of the earth».
La fine è più rosea: un gruppo di appassionati guidati da Deanie Parker (ex direttrice dell’ufficio stampa di Stax, cantante e autrice) ha acquistato il sito dalla chiesa e nel 2001 è cominciata la rivitalizzazione della zona grazie a cospicui finanziamenti da più parti, e oggi nello stesso luogo sorge il Stax Museum of American Soul Music.
Rimessa l’insegna al neon Soulsville, U.S.A., ricreato lo storico studio A e, tra i tanti oggetti esposti, la Cadillac di Isaac Hayes rifinita in oro massiccio (“costava più di una casa per bianchi”), l’organo di Booker T, e il sassofono di Phalon Jones recuperato dai resti dell’aeroplano di Otis Redding.
Vicino, dove una volta era il Slim Jenkins’ Place, la loro caffetteria abituale e luogo in cui sono nate diverse canzoni, oggi c’è Stax Music Academy, scuola di musica per i ragazzi del quartiere, affinché l’eredità non sia persa del tutto.


  1. Da Rob Bowman, note al libretto dei DVD, pag. 9.[]
Scritto da Sugarbluz // 1 Maggio 2013
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2 risposte

  1. Marco78blues ha detto:

    Bellissima recensione!
    Mi piace il passaggio sulla “impreparazione”, in effetti dagli show non traspare nulla, anzi il risultato è eccellente. La “impreparazione”, in senso buono, è la formula di successo che sta alla base di tutte le registrazioni Stax, dove la spontaneità, l’improvvisazione e il talento la facevano da padroni. Anzi in generale l’ “impreparazione” è il cuore dell’estetica degli anni 50 e 60, in ogni forma d’arte. Magari si usasse di più anche oggi, e invece ogni show, da eros ramazzotti al vicino di casa, vorrebbe essere preparato meticolosamente e un manto “professionale” tenta di nascondere le vistose carenze di talento e idee. Per quanto riguarda il tour della Stax, almeno come dice Wayne Jackson qualche prova per gli show in Europa l’avevano fatta, di certo più che per tante incisioni leggendarie che nascevano direttamente in studio (salvo poi scoprire che nessuno di loro si ricordava cosa aveva suonato nelle incisioni originali, perché aveva improvvisato o comunque seguito il feeling del momento). Forse un po’ di emozione la rivelano le velocità triplicate, come in Green Onions! C’è da dire però che a volte lo facevano di proposito, ad esempio Otis Redding, come si sente nei suoi dischi live, aumentava apposta le velocità dal vivo per avere più “tiro”, litigando con Jim Stewart che almeno in registrazione avrebbe preferito un’esecuzione più tradizionale: ma per Otis arrivare al pubblico della serata era più importante che fare una bella incisione (stesso discorso della intro di Johnny cash Live at san quentin).
    Sembra strano che i Marshall suonino così bene con la chitarra nel R’n’B ma in realtà i primi Marshall degli anni 60 erano un’imitazione dei Fender e copiavano il circuito del Bassman del 59, avevano alcune peculiarità ma non erano così diversi. Dopo Clapton e co. il Marshall è diventato l’amplificatore del rock per antonomasia, ciò non toglie che quello che conta è sempre il musicista: ultimamente li usava Jimmy Dawkins con risultati indiscutibili!

  2. Sugarbluz ha detto:

    Grazie del tuo prezioso contributo. Sì i tempi aumentati erano voluti, lo dice anche Cropper, dando qualche problema alla sezione fiati.
    Senza quel tempo Otis Redding non avrebbe potuto battere i piedi in quel modo ripetendo gotta gotta gotta! 🙂

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