Tom Graves – Robert Johnson. Crossroads, il blues, il mito

Edizione originale: Crossroads. The Life and Afterlife of Blues Legend Robert Johnson, Demers Books, 2008
Edizione italiana: Robert Johnson. Crossroads, il blues, il mito, ShaKe Edizioni, Milano e Rimini, 2011
Premessa: Stephen C. LaVere
Traduzione: Giancarlo Carlotti
Libro di Tom Graves, Robert Johnson. Crossroads, il blues, il mito.

Nel chiedersi perché leggere l’ennesimo libro su Robert Johnson, forse proprio mentre lo si sta acquistando, ci si renderà conto che non esiste una risposta precisa. La più plausibile è che il mito affascina e, più che sperare di leggere verità oltre quelle conosciute o ipotizzate, magari si è solo curiosi di come possa essere sviluppato un testo attorno a un argomento del quale si conosce molto meno rispetto a quanto se ne è scritto e parlato.
Esiste il mito, ed è impossibile che oggi si possano aggiungere nuovi e reali elementi a ciò che lo è diventato perché pregno di mistero; l’unica possibilità è continuare a rivangare senza soluzione di continuità.
Semmai s’avrà solo un altro punto di vista su faccende che sono state rigirate come un calzino, e quello di Tom Graves è rispettabile, figlio del nostro tempo, quasi neutrale: non essendoci necessità di aggiungere nuove ipotesi è sufficiente esporre quelle esistenti, discernere le accettate da quelle ipotetiche o forzate. Sa che entra in un terreno paludoso, e che anche chi ha pubblicato per demolire il mito ha fatto molto per sfruttarlo, quello stesso mito, tanto come chi ha contribuito a definirlo con opere di fantasia, tipo il mediocre film Crossroads del 1986, che più di qualsiasi disco o libro ha fissato l’epopea di Robert Johnson e il folklore del diavolo all’incrocio nell’immaginario collettivo americano.

Graves non può che fare il punto della situazione, ricordare e riassumere le voci, le persone e i fatti che si sono succeduti dopo la morte di Johnson, partendo dalla breve, misteriosa vita del bluesman di Hazlehurst, l’uomo, l’ambiente, le fatidiche registrazioni.
Non tralascia di citare coloro che hanno fatto ricerche prima di lui, pubblicato materiale o si sono dati da fare per rendere giustizia, a partire dallo storico Steve LaVere, avvallante il libro con la premessa. LaVere tanti anni fa ha ricostruito l’albero genealogico di R.J. e da qualche tempo gestisce i diritti sulla musica e le fotografie di Johnson, fino al suo intervento considerati di pubblico dominio, acquisiti dopo una lunga battaglia che nel 1990 ha riconosciuto agli eredi il dovuto.
Dagli inizi, quando nel 1938, scomparso già da qualche mese, fu presentato all’high society del Carnegie Hall da John Hammond Sr come se, per una sorprendente quanto falsa coincidenza, fosse deceduto solo la settimana prima nel “preciso momento” in cui era stato invitato a partecipare al suo From Spirituals to Swing, fino a settant’anni dopo, all’ultima, nuova presunta fotografia (in supposta compagnia di Johnny Shines, ma molto dubbia su entrambe le identità) apparsa su Vanity Fair nel 2008 a corredo di un lungo articolo, si sono piantati e coltivati i semi per una leggenda senza fine, cresciuta negli anni con bugie, rigonfiamenti, verità, falsi reperti, discografia, filmografia e letteratura, che ne hanno esplorato vari aspetti.
L’autore considera pietre miliari tre libri: Searching for Robert Johnson di Peter Guralnick, Robert Johnson: Lost and Found di Barry Lee Pearson e Bill McCullough, e Escaping the Delta di Elija Wald, e a questi soprattutto rimanda, insieme ad altre fonti, chi fosse interessato ad approfondire l’argomento.
Il percorso di Johnson da sconosciuto in vita a icona mitologica del blues da morto è stato lento ma inesorabile, e ha avuto uno scossone dall’Europa quando appassionati di blues inglesi come Eric Clapton, Mick Jagger, Keith Richard e Jeff Beck scoprirono un album del 1961 con sedici sue incisioni (King of the Delta Blues Singers) e cominciarono a studiarne i riff e a riproporli su base rock ottenendo successo negli Stati Uniti.

Di Robert Johnson più che la vita è avvolta nel mistero la scomparsa perché sembra interessare infinitamente di più, perciò ci sono diverse congetture, ma “l’unico fatto incontestabile riguardo alla sua dipartita è che è davvero morto”. Pur non avendo mai Johnson fatto menzione all’incontro con il diavolo a un fantomatico incrocio, nella nostra fantasia lo si vede camminare nel buio con la chitarra a tracolla verso il luogo fatidico dentro una storia non sua, per “uno dei più gravi casi di scambio di persona nella storia del folklore americano”, scrive Graves in tono drammatico.
La leggenda del crocicchio infatti partì dopo l’intervista di David Evans a LeDell Johnson nel 1966, riferita a suo fratello Tommy Johnson, bluesman più vecchio di Robert di quindici anni (nessuna parentela). Rimbalzò su Robert dopo che Son House, intervistato da Pete Welding nello stesso anno, suggerì che R.J. nei mesi in cui era stato via avesse “venduto l’anima al diavolo in cambio della possibilità di suonare in quel modo”, dato che quando lo sentì la prima volta suonava, per così dire, da schifo. Se la stessa conversazione fosse avvenuta tra due nativi del Delta mississippiano probabilmente il riferimento al contratto con il maligno sarebbe passato inosservato, o visto solo nell’ottica di ciò che è nel colore locale, parte della tradizione che vede il blues come musica del diavolo, e una vanteria l’indicazione di essere in rapporto con il re degli inferi. Dato però che i ricercatori avvicinatesi al blues del Mississippi spesso provenivano da altre culture, fecero rilievo su quanto di più esotico valutando come eccezionale tutto ciò che per i locali era consuetudine, o semplice modo di dire.

E il mito deve essere raffigurato, deve avere un’icona che lo rappresenti, un’immagine con sembianze umane. Alla massa la musica non basta, ed ecco quindi che solo il vociare della possibile apparizione di una fotografia non poté che rinvigorire il folklore.
Il ginepraio attorno alle fotografie inizia quando ‘Mack’ McCormick, sulle tracce di Johnson dal 1948, arriva per primo, nel 1972, alla sorellastra di Robert, Carrie Thompson, ottenendo da lei una prima fotografia (poi diventata la “terza” misteriosa foto, quella mai pubblicata). Tuttavia McCormick, pur avendo un accordo con la sorella, un’immagine, e sufficiente materiale di prima mano per poter scrivere la ventilata biografia di Johnson, non pubblica nulla e non usa la fotografia in alcun modo, dicendo d’averla persa a chi gli chiede di restituirla. Esce dalla scena chiudendosi in un mutismo inspiegabile; Guralnick è uno dei pochi a ottenere informazioni da lui e (come scritto nel suo libro del 1989) pare abbia visto la segreta foto dalle mani di McCormick, raffigurante Robert in piedi accanto al nipote, quest’ultimo nella sua uniforme da marinaio (perché in quel periodo prestava servizio in Marina), insieme ad altre due immagini, una della madre di Johnson e una del fratellastro, queste ultime poi pubblicate.
Nel 1973 arriva LaVere, come McCormick ricercatore, collezionista di 78 giri blues e produttore, il quale da Carrie Thompson ottiene l’ormai noto ritratto ufficiale, forse scattato nello studio fotografico Hooks Brothers, da lei trovato dentro una Bibbia, e la piccola fototessera sbucata da un vecchio baule, il famoso autoscatto realizzato in una macchinetta automatica a gettone. Anche qui c’è qualcosa di magico, poiché le due immagini sono in antitesi: il Robert formale, in posa e ben vestito, e il Robert da battaglia, con sguardo torvo e sigaretta penzolante tra le labbra, qualcosa che finalmente poteva ben rappresentare per tutti un bluesman in fuga inseguito dal diavolo. (1)

LaVere strappa un accordo alla Thompson, fonda una società solo per imporre il copyright alle foto e alle canzoni (in cui lui avrebbe preso il 50%), compreso il pregresso, e con Hammond decide di produrre il cofanetto con tutte le incisioni recuperate e le due fotografie non ancora pubblicate, ma improvvisamente McCormick (nel 1975) torna a farsi vivo e minaccia di fare causa, probabilmente solo per essersi sentito scavalcato. I vertici della Columbia, non volendosi impestare in una causa e immaginando che l’edizione non avrebbe venduto più di qualche migliaio di copie, lasciano perdere, così tutto torna a riposo per altri quindici anni.
Calmatesi le acque e McCormick scomparso di nuovo, la fototessera appare nel 1986 sulla rivista Rolling Stone e così per la prima volta milioni di persone possono vedere la faccia di Robert Johnson, nel 1989 seguita due volte dal ritratto nello studio, sulla rivista 78 Quarterly e sulla copertina del Guralnick.
Nel 1990 i tempi sono maturi e, con il successo del formato CD, Columbia fa risorgere Johnson pubblicando il noto The Complete Recordings ottenendo un successo incredibile per delle canzoni con più di cinquant’anni, andando oltre un milione di copie vendute.
Nel 1994 salta fuori il figlio, Claud Johnson (un camionista la cui madre, Virgie Mae Smith, è stata scoperta dal solito McCormick), nel 1998 decretato ufficialmente dal tribunale, il Leflore County Courthouse a Greenwood, MS, come figlio legittimo di Robert Johnson e diventato milionario con i diritti d’autore.

Infine la storia di Leo Allred aka Tater Red, un tipo che per caso visiona un vecchio documentario amatoriale (Black Hometown Movie) in cui per pochi secondi si vede un bluesman somigliante a Johnson suonare la chitarra e l’armonica sul supporto. Colpito, e in buona fede, fa stampare l’immagine ingrandita per chiedere vari pareri, e Robert Jr Lockwood in persona asserisce che è proprio lui, il suo quasi patrigno.
La notizia si sparge in fretta, presso Tater si fanno vivi persino Page e Plant che con fare indifferente chiedono di comprare il filmato a una cifra iperbolica senza sapere ancora se si tratta di R.J. veramente, poi arrivano anche i Rolling Stones, e Tater, assalito da vari fronti e non preparato a una cosa del genere, entra in una specie di incubo, tanto che un bel giorno comincia a indirizzare tutti i curiosi al dipartimento della Ole Miss a cui i proprietari del filmato hanno donato tutto il materiale originale.
Il finale di questa storia è triste. In occasione di un simposio del Rock and Roll Hall of Fame a Cleveland dedicato a Robert Johnson (si leggono date contrastanti), un comitato di esperti è incaricato di stabilire ufficialmente se trattasi di Johnson o no, mentre Robert Mugge riprende la serata.
Con lo spezzone del filmato ingrandito su Power Point il verdetto è tanto evidente quanto implacabile: non può essere Robert Johnson dato che alle spalle dell’oscuro musicista c’è un cinema con la locandina di Blues in the Night, film uscito nel 1941. A quel punto l’attenzione della stampa si riversa sul povero Tater, al quale viene data tutta la colpa nonostante non avesse mai affermato che fosse lui, torchiandolo di domande mentre Lockwood, alla questione se era vero che avesse autenticato in privato il filmato, s’infuria come una bestia. Una serataccia insomma, dove poi lo sconosciuto bluesman nel filmato con tre secondi e mezzo di inconsapevole quasi-gloria non fregherà più a nessuno.

Il libro conclude con la messa a fuoco su tre brani di Johnson e una breve analisi della sua musica, con l’unica pretesa di invogliare ad ascoltare i dischi dopo tante parole, “illusioni ottiche”, “vicoli ciechi” e “un altro viaggio senza apparente fine o soluzione in una landa battuta dal vento”, quest’ultima frase in riferimento a Rudi Blesh e alla sua interpretazione suggestiva di Hellhounds on My Trail, pubblicata nel 1946 nel suo libro Shining Trumpets: a History of Jazz.
Nonostante quel viaggio, quella sete di conoscenza che da più di settant’anni attanaglia studiosi e curiosi, e nonostante il fatto che il suo nome, almeno in USA, sia familiare, la maggior parte lo conosce superficialmente, magari solo per la leggenda del crocicchio, e non ha mai ascoltato la sua breve discografia o non l’ha fatto in modo approfondito, a causa della, come dice l’autore, natura vecchia di quella musica, che solo un vero appassionato avvezzo a quei suoni può comprendere e apprezzare.
A questa lacuna potrebbe rimediare per le ultime generazioni la più recente raccolta edita da Columbia/Legacy, Robert Johnson – The Centennial Collection, cofanetto con tutte le quarantadue tracce esistenti (sembra che ne fece addirittura cinquantanove in due sessioni, le mancanti perse durante il trasferimento dal Texas a New York), nuove note di LaVere, un resoconto della storia dei master e, si dice, con masterizzazione alla massima qualità sonora oggi possibile mai ottenuta per il materiale di Johnson.
Come al solito, purtroppo, la traduzione di questo genere di libri lascia a desiderare. Ad esempio per me è molto fastidioso leggere in ogni occasione “sound” invece dell’esatto corrispondente italiano “suono” (il fatto che sia una mania diffusa non la rende meno ridicola, anzi), tanto come la frase sgrammaticata e priva di senso a pag. 103. Imperdonabile anche “suor Rosetta Tharpe” invece di Sister Rosetta Tharpe (era solo un nome d’arte!).


  1. Aggiornamento 2023: Dopo la scrittura di questo articolo sono state pubblicate altre due sue presunte foto: una nel 2015 che lo ritrarrebbe seduto a tavola con Calletta Craft, Estella Coleman e Lockwood, che però è stata dichiarata immediatamente non credibile (anch’io appena l’ho vista ho avuto molti dubbi “a pelle”, soprattutto per la contemporanea presenza delle due donne e per la troppa eccezionalità dello scatto con tutti e quattro, al di là di alcuni elementi anacronistici ancor più escludenti, dall’abbigliamento alla bottiglietta di Coca Cola), e un’altra nel 2020 sulla copertina del libro “Brother Robert” di Annye C. Anderson (sorellastra di Robert), diventata ufficialmente la terza foto riconosciuta a tutt’oggi dato che il nostro è nella stessa situazione di quella scattata nella cabina per fototessere, in una posizione solo leggermente diversa. La novità più sorprendente però per me è che, quasi nello stesso momento in cui ho scoperto che McCormick è deceduto nel 2015, ho anche visto che è uscito da pochi giorni il “suo” libro su Robert Johnson tanto atteso, per mano del curatore John W. Troutman dello Smithsonian Institution, che dovrebbe raccogliere, più che novità biografiche, parte dell’annosa e fino ad ora inafferabile ricerca compiuta dallo schivo McCormick: Biography of a Phantom, A Robert Johnson Blues Odyssey.[]
Scritto da Sugarbluz // 21 Marzo 2013
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