Zuzu Bollin – Texas Bluesman

Zuzu Bollin, Texas Bluesman CD cover

A.D. Bollin venne al mondo il 5 settembre 1922 (1) a Frisco, Texas nord-orientale, a cinquanta chilometri da Dallas, dove si trasferì con la madre negli anni 1930. Fece il militare in Marina dal 1944 al 1946 e nel 1947 cominciò a suonare professionalmente, già da ragazzino impressionato da alcuni artisti fondamentali del primo blues registrato, sentiti sui dischi degli zii.
In particolare lo colpirono due personalità contrapposte come il giorno e la notte, ma entrambe innovative e amalgamate da umori con respiro ben più ampio rispetto alla scena d’appartenenza: Blind Lemon Jefferson, vera pietra miliare non solo del blues texano, arrivato nel mondo discografico con effetto dirompente per il suo stile viscerale, drammatico, e il nashvilliano Leroy Carr, precursore del blues urbano, nordico, pianista non particolarmente virtuoso (s’era fatto le ossa nel circo) e dal carattere riservato, ma che stava lasciando un’eredità così vasta da toccare indifferentemente i quattro punti cardinali degli Stati Uniti. Dal sud, dove entrò nell’anima di Ray Charles, all’ovest, con Count Basie che a Kansas City riprese alcuni suoi successi facendone brani solistici per piano, e gente come Cecil Gant e T-Bone Walker ispirata dal suo stile melanconico, asciutto e sofisticato (grazie anche all’accoppiata con la chitarra di Scrapper Blackwell), dalla costa est, dove i gruppi vocali saccheggiarono il suo repertorio, al nord, con Big Bill Broonzy che da Chicago guidò difilato verso Indianapolis, portandosi dietro altri musicisti, solo per bussare alla sua porta e vederlo all’opera.

Zuzu Bollin, Why don't you eat where you slept last night, 78 rpm record (Torch Records)

In quell’anno, 1947, mentre A.D. stava a Denton nella band del texano E.X. Brooks, nacque anche il suo nomignolo, rubato a una marca di biscotti allo zenzero di cui era ghiotto: ZuZu’s. Fa sorridere pensare a un bluesman goloso di biscotti (anche se probabilmente non li intingeva nel latte…), tuttavia già solo la decisione di adottarne l’esotico nome è sufficientemente cool da ristabilire il cliché.
Suonò con altri conterranei, sassofonisti e jazzisti seminali come Buster Smith, Adolphus Sneed, Booker Ervin, e fu influenzato dai maestri del suo stile, come Big Joe Turner, Louis Jordan, Count Basie e, soprattutto, è fin troppo evidente, T-Bone Walker. Nel 1949 formò il proprio gruppo, con Leroy ‘Hog’ Cooper e David ‘Fathead’ Newman (entrambi di Dallas, i due successivamente furono nella sezione fiati di Ray Charles), ma ebbe anche un’esperienza di quattro mesi con la band di Percy Mayfield, prima di tornare a esibirsi nei dintorni di Big D.
Il successo discografico arrivò con la prima registrazione nel 1951, e fu confermato dalla seconda nel 1952. Solo quattro lati, per la piccola etichetta Torch di Bob Sutton a Dallas, bastarono a consacrare un’immediata fama regionale, e per i posteri furono sufficienti a ritagliare un personaggio leggendario, stimolati dalla sua scomparsa dal mercato.
Negli anni seguenti, infatti, questi unici due 78 giri diventarono materiale per collezionisti, soprattutto in Europa; il nome di Zuzu Bollin era tanto oscuro e imprendibile quanto l’etichetta che li aveva pubblicati. Al mistero contribuì Paul Oliver, il quale, nel luglio 1969, in un articolo titolato Records of an Era, supplemento domenicale di un quotidiano inglese, pubblicò l’immagine del primo disco di Bollin, Why Don’t You Eat Where You Slept Last Night (Torch 6910, il flip-side era Headlight Blues), con i suddetti Cooper e Newman (qui rispettivamente baritono e contralto; la coppia sarà anche nel classico Reconsider Baby di Lowell Fulson, inciso nel 1954 per Checker, sempre a Dallas), alimentando tra i blues lover inglesi lo status di disco ambito quanto introvabile, così come il successivo Stavin’ Chain / Cry Cry Cry (Torch 6912), in cui era accompagnato dal gruppo di Jimmy McCracklin.

Zuzu Bollin, Headlight Blues, 78 rpm record label (Torch Records)

Dopo non incise altri singoli, ma continuò a suonare con Jimmy Reed, Milton ‘Brother Bear’ Thomas, l’orchestra del trombonista e pianista Ernie Fields (che sul finire degli anni 1950 ebbe successo con una spumeggiante, latineggiante versione dello standard In the Mood), e quella di Joe Morris, trombettista e bandleader, anch’egli, come Fields, attore sulla ricca scena di blues-con-ritmo degli anni 1940/1950 scandita da passi swing tra Texas e California, fitta di sofisticate big band e territory band con eccellenti solisti, in grado di sbarcare il lunario nonostante la concorrenza.
Ma gli inizi degli anni 1960 non portarono bene al blues orchestrale e nel 1964 il nostro lasciò le scene. In quel periodo era quasi più facile scovare uomini di blues alle prese con panni da lavare e stirare che con chitarre, e così fu anche per Zuzu Bollin, che trovò sostegno economico in un lavasecco. Durante gli anni 1970 ricomparve sui palcoscenici, ma la lotta per la sopravvivenza nel frattempo s’era complicata dall’uso di droga.
Un primo tiepido rispolvero del suo nome s’ebbe nel 1983, quando Krazy Kat (diretta da Bruce Bastin) diede alle stampe una raccolta di R&B texano degli anni 1949/1952 (Down in the Groovy); quella fu la prima volta che le quattro canzoni di Bollin furono su un album.
Il merito della sua riscoperta è da attribuire però a Chuck Nevitt della Dallas Blues Society: nell’autunno del 1987 comunicò d’aver trovato Zuzu a Dallas, non in ottima salute e in stato di povertà, ma ansioso di ricominciare a suonare, sorpreso che dopo trentasei anni dal suo debutto ci fosse ancora gente interessata a conoscerlo meglio. La DBS quindi lo immortalò in un documentario con riprese dal palcoscenico, alternate dal racconto della sua storia da parte di Zuzu stesso, e nel 1988 Blues and Rhythm Magazine pubblicò la sua prima dettagliata intervista. Un anno più tardi, dopo aver ripreso regolare attività dal vivo, Zuzu Bollin tornò ufficialmente in pista con la pubblicazione del suo primo LP: prodotto dalla Dallas Blues Society, questo eccellente Texas Bluesman rimarrà il suo unico disco.

Zuzu Bollin on stage

Rilasciato nel 1989 solo su vinile, a supporto c’è una band di Fort Worth (cittadina texana gemellata con la mia), i Juke Jumpers, gruppo nato nel 1977 con cui Bollin suonava abitualmente, al quale volle aggiungere i due sassofonisti ‘Fathead’ Newman e Marchel Ivery in un paio di tracce, l’altro amico di lunga data Buster Smith come direttore della sezione fiati, il contributo di Duke Robillard come chitarrista, produttore, arrangiatore, e infine Brian Calway, conosciuto come Hash Brown, alla chitarra ritmica in due brani, rivelatosi sua spalla ideale nei concerti e nell’ottimo Texas Blues Revue.
Un importante capitolo della storia di Zuzu Bollin è stato scritto anche ad Austin. Clifford Antone dopo averlo sentito a Dallas nel 1988 lo invitò regolarmente nel suo club, il glorioso Antone’s: Bollin entrò nel cuore del pubblico e dei musicisti locali per il canto profondo e sincero, mai forzato, la pura scrittura texana, e come discepolo della parabola T-Bone Walker. Così, durante la sessione Antone’s del 1988 di Doug Sahm per Juke Box Music, Zuzu fu invitato al Fire Station Studio e registrò due brani destinati, nei propositi di Clifford Antone, a un secondo disco, che invece nel 1991 dopo la sua scomparsa confluirono in questa riedizione su CD (e cassetta) di Texas Bluesman (ANT 0018), con la presenza di un altro pregevole esteta della chitarra, Wayne Bennett, e Sahm, texano di San Antonio, che per l’occasione va al piano.
Zuzu Bollin morì nel 1990, dopo esser stato nel 1989 in tournée in Europa in vari festival, tra cui l’olandese Blues Estafette, e al Chicago Blues Festival, prima di poter accedere di nuovo agli studi di Antone.

Zuzu Bollin, Stavin Chain, 78 rpm record label (Torch Records)

In Texas Bluesman, oltre a rifare il primo 78 giri, aggiunse brani dei suoi artisti preferiti dell’epoca d’oro del rhythm and blues come Big Legs di Gene Phillips, chitarrista e cantante a capo dei Rhythm Aces, jumper fin dai primi anni 1940 e artista Modern Records tra gli anni 1940 e 1950. La canzone, nel gusto di Louis Jordan, in originale pubblicata appunto dai Bihari, è un classico jump blues con i sassofoni, in questo caso con gli ospiti David Newman e Marchel Ivery, e la chitarra di Hash Brown.
Nella studio band dei Juke Jumpers troviamo Sumter Bruton, chitarra ritmica, Doyle Bramhall, batteria, Jim Milam, basso Clevinger, Craig Simecheck, piano, e una sezione fiati composta da George Galbreath, tromba, Mike Strickland, Mark Kazanoff e Robert Harwell ai sassofoni, con Duke Robillard a chiudere il cerchio, forse più come arrangiatore che come chitarrista.
Hey Little Girl è la prima della sessione Antone’s, con Wayne Bennett, Doug Sahm, piano, George Rains, batteria, Jack Barber, basso, (2) Jon Blondell, trombone, Charlie McBurney, tromba, Rocky Morales, tenore. Il brano, con la chitarra di Bennett in evidenza, ha lo swing amato da Bollin, ritmica shuffle, assolo di sassofono e chitarra.
Da Jimmy Rushing e Count Basie prende il lento notturno Blues in the Dark, dove torna l’apporto di Hash Brown e il canto convincente di Zuzu rimanda ai grandi shouter Rushing e Turner, ma anche a Eddie Vinson.
Celeberrima, ancora di forte richiamo indiretto a Louis Jordan tramite un altro suo alunno, è Kidney Stew dell’houstoniano Eddie ‘Cleanhead’ Vinson, immenso architetto di quella giunzione western tra il jazz cittadino (dallo swing agli accenti be-bop) e il blues meridionale: impensabile che possa mancare dal repertorio di Bollin. Il piano scandisce l’andatura mentre i fiati danno man forte al testo, vera polpa di questo esplicito swing-blues gastronomico in cui la rustica donna meridionale da stufato di rognone (she aint a caviar kind, just plain old kidney stew) è preferita (kidney stew is fine) al più dispendioso tipo da caviale (high-class mama), e dove la conclusione taglia di netto ogni dubbio: You can save your money and keep your peace of mind. Il sassofono tenore è opera di ‘Fathead’ Newman.

Zuzu Bollin, Cry, Cry, Cry, 78 rpm record label (Torch Records)

La seconda della sessione Antone’s è Cold, Cold Feeling. Rimangono Wayne Bennett e la line-up precedente, ma con Jon Blondell al basso, l’aggiunta della tromba di Keith Winking e il baritono di John Mills. L’episodio, che inizia e prosegue come un tipico lento di Walker (da lui inciso), preserva l’impronta stilistica in cui è nato e vissuto. Oltre l’orma del grande chitarrista, c’è quella di Jessie Mae Robinson, autrice per alcuni superbi interpreti dell’ovest post-bellico, da Dinah Washington a Little Esther, da Louis Jordan a Eddie Vinson, da Charles Brown a B.B. King.
Voglio ricordare qui, a parte questo stupendo dramma melodico, gonfiato ad arte dai fiati e sgocciolato con parsimonia ed eleganza dalla chitarra, oltre che dal caldo shoutin’ baritonale di Bollin, un altro capolavoro della Robinson, Black Night, tormentato notturno che continua ad affascinare dai tempi in cui Charles Brown l’incise a L.A. nel 1950 fino a Dr John, in un’azzeccata versione che, insieme a un altro paio, illumina il disco altrimenti un po’ scialbo in cui è contenuta (In a Sentimental Mood).
Segue il rifacimento del suo primo disco; dapprima il prestante lato A, Why Don’t You Eat Where You Slept Last Night, jump per sassofoni e piccolo assolo di Bollin. Diventato un classico texano, si colora di noir per il fatto che Bollin, forte del successo del disco, cominciò a chiedere compensi più alti per le sue esibizioni nei locali irritando Jack Ruby (prima di diventare il giustiziere di Lee Harvey Oswald, l’assassino di Kennedy), irruente ebreo polacco vicino agli ambienti malavitosi, allora titolare delle “pubbliche relazioni” nel club notturno di burlesque della sorella Eva, il Carousel Club a Dallas, il quale sfruttò le sue cattive amicizie per affossare il brano.
Quanto questa faccenda sia stata una mera questione economica o un altro piccolo tassello nella complessa vicenda americana dei rapporti tra neri ed ebrei, o tutt’e due insieme, è difficile dirlo. Di sicuro, non solo nell’epoca Al Capone, la vita dei musicisti, neri e no, nei club delle grandi città era esposta a guai di questo tipo. Nel caso di Ruby, dopo l’omicidio furono interrogate e coinvolte nell’inchiesta tutte le persone che ebbero a che fare con lui; ne seppe qualcosa il sassofonista Joe Johnson che si meritò, suo malgrado, ben sei pagine nel rapporto Warren per essere stato diversi anni alle dipendenze di Ruby, come leader di una band a cinque elementi, in un altro suo locale, il Vegas Club, in cui tra l’altro militava anche il sopracitato Milton ‘Brother Bear’ Thomas. Per saperne di più su Ruby come gestore di locali, consiglio la lettura di un interessante articolo dello scrittore-chitarrista Josh Alan Friedman, intitolato Jack Ruby, il J.R. originale di Dallas, con anche un aneddoto riferito da Newman.
Parlando d’altro originale invece, quello della canzone di Bollin, su CD lo si può trovare nel vol. 3 (Texas Blues) della nota serie Rhino Blues Masters: l’audio è un po’ cupo, ma non manca il fascino e il sapore d’altri tempi, con il sassofono starnazzante e la graffiante chitarra del leader.

Zuzu Bollin and Duke Robillard on stage
Zuzu con Duke Robillard

Il lato B, Headlight Blues, con sommesso inizio raschiante che solletica la nostra attenzione, è un pensoso slow blues sul desiderio liberatorio del viaggio (It’s so long Texas, California here I come) come risolutore di problemi, benedetto da un suono di chitarra magnifico, ispirato e luccicante come il fascio luminoso che Bollin auspica d’aiuto (“come il fanale anteriore di certi treni”), una specie di luce guida lungo il percorso.
È il medesimo suono scintillante che esce dalla stessa sei corde di How Do You Want Your Rollin’ Done, ballabile fatto all’occasione, con ritmica shuffle, walkin’ bass, e fiati all’unisono sempre a supporto. È irresistibile e doppiogiochista l’insistente richiamo a danzare, a muoversi con un certo ritmo (do you wanna rock children, do you wanna rock baby, do you wanna rock, do you wanna roll, do you wanna rock-roll-roll-rock-roll), evocante ancora la tradizione R&B dei grandi shouter e delle big band, dei trascinanti balli-incontri idealmente prolungati fino all’alba (liturgie profane ereditate dalle riunioni notturne di shout religioso degli schiavi, dai disadorni chicken shack meridionali alle sale da ballo californiane), come nel Good Jumpin’ di Jimmy Witherspoon, nel Good Rockin’ Tonight di Roy Brown, o il corale Do You Wanna Jump Children? di Rushing/Basie, senza dimenticare la lezione del maestro Louis Jordan con Let the Good Times Roll.

Non poteva poi mancare un’amara composizione dell’indimenticabile “poeta laureato” del blues Percy Mayfield, Leary Blues. Lucido visionario, sublime cesellatore di tematiche introspettive, partito da Minden, Louisiana, e arrivato sotto i riflettori di Los Angeles attraverso Houston, Mayfield fu incarnatore del blue as a man can be. Nonostante le visioni catastrofiche (qui l’amata non si limita ad andarsene con il treno come tutte le altre, ma la fa volare overland and oversea), è riuscito a toccare il cuore di tanti con sostenibile leggerezza. Sicuramente ne fu toccato anche Bollin nel periodo in cui ebbe a che fare con il suo genio, riuscendo qui, insieme alle auree ma attanaglianti linee melodiche dei fiati, a ricalcare il mondo immaginifico dell’autore.
Il passaggio al disimpegno di Rebecca, del boogie chillen Big Joe Turner e con il tenore di Marchel Ivery, ci riporta nel fascinoso, rutilante mondo swing del più carnoso (in tutti i sensi) shouter del rhythm and blues / rock ‘n’ roll. C’è spazio per il ballo e il divertimento, ma anche per affilate, astute riflessioni: You’re young and beautiful but you gotta die one day / All I want is some lovin’ before you pass away.
Chiude con uno strumentale lento, altro autografo per l’occasione, un Zu’s Blues placido e rotondo, arpeggiato su due chitarre, sicuramente la semi-acustica di Bollin e un’altra elettrica, credo di Robillard, alla maniera di indovinate chi.


  1. I dati della Previdenza Sociale dicono 1923[]
  2. Era parte del Sir Douglas Quintet. Lui, Doug Sahm e Augie Meyers dopo il gruppo rimarranno un terzetto d’eccezione sulla scena texana, splendida sezione per altri artisti, ma anche autonoma.[]
Scritto da Sugarbluz // 16 Giugno 2010
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2 risposte

  1. Mark Slim ha detto:

    ZuZu Bollin, un discepolo di T-Bone Walker con molta personalità, come Goree Carter…

  2. Sugarbluz ha detto:

    E Connie Curtis “Pee Wee” Crayton.
    Sento che un buon discepolo c’è anche in Italia.

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