Roger Stolle – Storia segreta del Mississippi Blues

Casa Editrice: Postmedia Srl, Milano, 2012
Edizione originale: Hidden History of Mississippi Blues, The History Press, 2011
Prefazione: Jeff Konkel
Postfazione: Marino Grandi
Traduzione: Sebastiano Pezzani
Copertina di "Storia segreta del Mississippi blues" (Hidden History of Mississippi Blues) di Roger Stolle

A chi s’avvicinasse a questo libro – o libretto, dato che ha poco più di cento pagine scorrevoli da poter leggere anche in un colpo solo – con l’idea di trovarvi dei segreti o delle rivelazioni particolari sul blues del Mississippi, dico subito che non si tratta di questo. E meno male, dato che i segreti devono rimanere tali.
Innanzitutto, l’originale non dice secret ma hidden; semplicemente, tratta di bluesman ignoti ai più, entrati nella storia tardivamente per motivi anagrafici, o forse non entratici affatto. Un senso di delusione, piuttosto, può lentamente crescere fino al termine della prima quasi esatta metà del libro, cioè nei primi sei brevi capitoli, per due motivi.
Uno è quello di essere un testo adatto a un neofita, ma se è vero che di per sé ciò non è un difetto, può anche diventare assoluto pregio se con il suo modo così spiccio e intrigante, l’approccio non didattico e quel pizzico di glamour, attirasse qualche giovanissimo verso il blues. Questo non significa che in parte non possa interessare anche chi ne sa di più, sia per la sintesi su temi ancora caldi e sia perché c’è sempre qualcosa da imparare o da ricordare, ma soprattutto per la visione sull’attualità mississippiana.

L’altro motivo è la discreta dose di auto-celebrazione permeante la prima parte, tanto che fin lì pare che il vero soggetto del libro sia l’autore, nonostante l’inizio della sua attività nel “settore” risalga a data recente (ma adesso va di scrivere le proprie memorie il prima possibile).
Negli States tutto è ancora possibile: Stolle, ex senior copywriter e giovane dirigente pubblicitario di successo, circa dieci anni prima rispetto alla data del libro, quando non era in viaggio di lavoro in città interessanti viveva agiato a St Louis, Missouri, con tutti i comfort della società upward mobile americana. Buon stipendio, stock options, vacanze premio e tra l’altro, a suo dire e non si stenta a credergli, per un “lavoro creativo davvero figo”, in piena “incarnazione del sogno americano” e con rapida scalata ai vertici. Quel tipo di occupazione che si vede spesso nelle commedie americane anni ’80-’90 (un po’ anche adesso nonostante la crisi), di quel tipo che non produce niente e non si capisce a cosa serva, da noi importata con gli stessi termini inglesi per meglio occultare la sua pochezza.

Dopo un viaggio in Mississippi e in particolare dopo una serata al poi purtroppo bruciato Junior’s Place a Chulahoma, il juke-joint di ‘Junior’ Kimbrough, capisce che la sua vita è cambiata per sempre grazie al blues. Gli ci vorrà ancora qualche anno per maturare la decisione, poi nel 2002 molla baracca e burattini per la “terra fiabesca”, trasferendosi a Clarksdale, Mississippi, con (lo dico senza ironia) il nobile scopo di sponsorizzare la musica dei pochi dinosauri rimasti sul territorio (e il loro esistere e resistere in un mondo che rincorre tutt’altro), facendolo piuttosto bene e con l’eco necessaria a far sì che tutto ciò non rimanesse nei confini dello stato.
È soprattutto grazie a lui se in Italia al Roots ‘n’ Blues & Food Festival sono arrivati Robert Belfour, L.C. Ulmer, ‘Bilbo’ Walker, ‘T-Model’ Ford, Big George Brock, Terry ‘Harmonica’ Bean e tanti altri, residui della tradizione blues mississippiana sconosciuti al grande pubblico.
Stolle è poi co-fondatore del Juke Joint Festival, ha prodotto dischi e collaborato a progetti cinematografici come M for Mississippi e We Juke up in Here, e ha aperto un negozio, il Cat Head Delta Blues & Folk Art, luogo senz’altro da visitare e che in così poche pagine viene citato una decina di volte sempre con la sua denominazione (solo un paio di volte s’accontenta di “il mio negozio”), segno che non ha perso la vena di pubblicitario. Che la sua scelta sia oggettivamente una gran bella cosa non ci sono dubbi, tutti voterebbero per un pubblicitario in meno e un promotore di blues in più, e il nostro ha mostrato coraggio oltre che tanta passione e volontà nel salvaguardare quei pochi scampoli di cultura afroamericana tradizionale.

Rimango solo un po’ perplessa, e forse non dovrei in quest’epoca di incontrollato esibizionismo, per l’enfasi di chi lo presenta come una specie di eroe per l’abbandono di un’attività ben remunerata e l’assunzione di un’altra economicamente incerta – e ancora non dovrebbe stupirmi in un’epoca in cui esser consacrati eroi è questione di poco.
È vero che il Mississippi e la Louisiana sono territori con grandi sacche di povertà (e forse il Mississippi è lo stato più povero di tutti gli States), ma stiamo parlando di trasferirsi in Mississippi, USA, non di andare in Africa a fare il missionario, nonostante nel libro si alluda allo Stato della magnolia come a un inferno inospitale fuori dal mondo. Che non sia la California o il Connecticut va bene, ma inferno non direi, a parte il caldo; ci sono ben altri posti al mondo che si possono chiamare inferno a piena ragione. Forse qui il termine ha il sapore romantico dell’immaginario blues, oltre che qualcosa di meno romantico legato al passato schiavismo, come una macchia cupamente rimasta non solo nei ricordi ma anche nell’aria, facendola greve.
Come sempre, comunque, dipende dai punti di vista. Conosco diverse persone che baratterebbero la propria vita con una passata a occuparsi esclusivamente di musica e di blues anche se si trattasse di rinunciare a qualcosa, solo che in Italia non è possibile, bisogna andare là, e il rischio semmai è quello di passare per egoisti, altroché eroi.

La seconda parte, quella delle interviste, è quella per cui vale la pena leggere il libro. Si tratta di una selezione di materiale non inedito, per la maggior parte suoi articoli pubblicati in diverse testate di settore, ma visto che da noi è roba che di solito non si legge ben vengano.
Si provano diverse emozioni nello scorrere le storie semplici e intense dei bluesman, dal piacere della conoscenza al puro divertimento, dalla tenerezza all’amarezza, che si tratti delle memorie di David ‘Honeyboy’ Edwards su miti come Robert Johnson, Son House e Willie Brown, (1) del racconto di Sam Carr dell’incontro con suo padre, Robert Nighthawk, e della nascita dei Jelly Roll Kings, del prototipo del bluesman cattivo rappresentato da James ‘T-Model’ Ford, con racconto dei suoi primi approcci alla chitarra elettrica, del Blue Front Cafe di Jimmy ‘Duck’ Holmes, delle gare con il suo rivale riportate da Robert ‘Bilbo’ Walker, di L.C. Ulmer e il suo modo di suonare “alla vecchia maniera”, dell’esperienza Parchman Farm di Mark ‘Mule Man’ Massey. Poi Robert ‘Wolfman’ Belfour, Ellis ‘Cedell’ Davis, il Club Caravan di Big George Brock, e la doppia vita tra religione e mondanità di The Mississippi Marvel. (2)
Valgono le considerazioni dell’autore sul fatto che il blues del Mississippi si può esportare, ma non sarà mai lo stesso bevuto in una bottiglia diversa, lontano dalla cultura che l’ha generato, e che non è il blues in quanto genere che sta morendo, piuttosto la tradizione degli ultimi rappresentanti di quella generazione di bluesman che ancora ha raccolto cotone, guidato muli, prodotto white whiskey e suonato nei juke joint autentici, luoghi ormai scomparsi, perché il blues si potrà anche imparare, ma “senza il dovuto contesto storico, è semplice sfiorare la superficie di qualsiasi forma d’arte e vederne solo la rappresentazione moderna”.
Forse gli amanti del blues non possono trasferirsi tutti in Mississippi, ma non hanno scuse se non tengono viva questa cultura facendolo al meglio possibile.


  1. Di questi ultimi due, c’è il divertente episodio che Stolle cita da S. Calt e G. Wardlow (King of the Delta Blues: the Life and Music of Charlie Patton) del viaggio che nel 1930 fecero su una Buick insieme a Charlie Patton e Louise Johnson, la sua “amante di riserva”, da Lula, MS, fino a Grafton, WI, per andare a registrare alla sede di Paramount. In realtà il luogo esatto della partenza dovrebbe essere tra Tunica e Lula, la Kirby-Wills Plantation.[]
  2. Il titolo del suo paragrafo è scritto con il nome in minuscolo a differenza degli altri nomi propri, stampati in maiuscolo. Andava trattato come gli altri nomi essendo pseudonimo di persona; ancora una volta si nota il pressappochismo dell’editoria italiana del settore, tra cui i troppo frequenti errori di stampa.[]
Scritto da Sugarbluz // 8 Febbraio 2013
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