Roots & Blues Food Festival, Ragazzola (PR) 21.6.2008

Omar and the Howlers / North Mississippi Allstars / David Evans / Johnny La Rosa

È toccato alla suggestiva Corte Le Giare a Ragazzola di Roccabianca (G. Guareschi nacque lì vicino, a Fontanelle) ospitare il secondo weekend dei cinque in programma al Roots & Blues, festival itinerante che conta dieci serate dislocate nella bassa parmense.
La tipicità dei luoghi, contraddistinti dalla vicinanza al Po e attraversanti le pianure delle terre verdiane, è una caratteristica di questi appuntamenti. Al di là del paesaggio bucolico, idealmente vicino alle pianure alluvionali del Mississippi, ma che può diventare odioso per l’umidità, l’afa e le zanzare, risalta anche la valorizzazione del territorio e dell’arte culinaria, retaggi della cultura contadina.
Soprattutto però risalta quanto il cartellone sia coerente alle caratteristiche sopra descritte, con proposte che non sono di supporto alla commercializzazione del solito personaggio, in un’atmosfera rilassata non possibile sfoderando artisti di cassetta. Il programma è fatto con nomi poco conosciuti, di vecchia data o recenti, appartenenti alla tradizione rurale e provinciale degli Stati Uniti portante in sé radici profonde anche quando infetta da modernità.

David Evans apre la serata mentre c’è ancora luce, le ‘zdore sono in piena attività ai fornelli e la maggior parte del pubblico è seduta ai tavoli. Introdurre alle attività di studio, ricerca e produzione di questo etnomusicologo (docente alla University of Memphis) è quasi superfluo, dato che sarà capitato a molti di leggerlo su libri, articoli, booklet, soprattutto di country blues acustico, o semplicemente di poter ascoltare un dato musicista grazie a lui.
Quello che pochi conoscono è l’Evans musicista, attitudine che accantonò tanti anni fa (e oggi ripresa) per dedicarsi più attivamente alla carriera didattica e alla produzione musicale, dopo una laurea ad Harvard. Ebbe un sodalizio artistico con il coetaneo Alan Wilson (prima della nascita dei Canned Heat), anch’egli appassionato e cultore di musica folk e blues. Ha riscoperto e fatto registrare diversi musicisti blues, tra cui Hammie Nixon e Jessie Mae Hemphill, e da qualche anno ha cominciato a far dischi a suo nome.
Premesso che la sua produzione non è fondamentale anche se di qualità, e che si basa su riadattamenti di tradizionali, il Dr Evans è musicalmente abile e arruolato, piacevole da sentire, perfino divertente data la naturalezza con cui s’esprime, dotato di un canto non memorabile ma adatto, e di un approccio chitarristico sensibile ed efficace, ritmico e dinamico.
È però didattico anche nella veste di musicista, pure quando propone cose sue e soprattutto da solista: questo fatto di per sé non toglie qualità, piuttosto rivela una musica carente di pathos e necessità. A conclusione di quanto detto, sono da apprezzare Candy Man (‘Mississippi’ John Hurt), Broke and Hungry (Blind Lemon Jefferson), Big Road Blues (Tommy Johnson), Shake ‘Em On Down (Bukka White, ma nota nella versione di Fred McDowell), brano quest’ultimo dalla natura viscerale e coinvolgente.

Tra i brani autografi c’è Bring the Boys Back Home, in riferimento alla guerra in Iraq e, con l’aggiunta del kazoo, un brano per Obama, infine il tradizionale Poor Boy Long Way from Home, in passato interpretata, fra gli altri, da Bukka White. Questa di Evans è più vicina a quella di Gus Cannon ed è tratta dal disco Shake That Thing! (1997), registrato con la sua Last Chance Jug Band, gruppo che attualizza con rispetto la musica degli anni 1920/30 di Memphis.
La serata, all’interno della prima Conferenza Europea Blues Foundation, ha visto riunirsi nell’occasione del festival (scelto dall’organizzazione di Memphis) personalità di autori e promoter internazionali. Durante il cambio palco salgono quindi a salutare il pubblico Art Tipaldi (Blues Revue), Jay Sieleman (Blues Foundation), Thomas Ruf di Ruf Records, casa tedesca che ha prodotto anche qualche disco di Omar & The Howlers, compresi l’ultimo con Jimmie Vaughan e un bel DVD dal vivo, e i due organizzatori norvegesi del Notodden Blues Festival; questi ultimi poi avranno spazio nel set di Omar Dykes.

Il rocker reggiano Johnny La Rosa si presenta con una Telecaster d’annata e la classica formazione rock a tre (chitarra-basso-batteria), tipologia che caratterizzerà anche le esibizioni seguenti.
Propone una musica diretta e senza fronzoli spaziando nel repertorio americano anni 1950/1970, rock dal carattere forte e sincero che discende dal blues. Al contrario di chi dichiara di fare blues e poi invece fa rock di maniera, Johnny si rivela senza contraddizioni. Bootleg dei Creedence in apertura decisa, Mona di Bo Diddley e Memphis Train di Rufus Thomas convincono per esecuzione e vocazione da eroi duri ma romantici, mentre non passa Beast of Burden, la sarcastica parabola degli Stones.
Naturalmente le sue creazioni sono deboli a confronto, come Restless Chile, una non-male Red River, Wanna Be Black e Mr Gator, quest’ultima spolpata da una vecchia work-song, ma nel complesso risultano omogeneizzate con il resto. Chiude con Summertime Blues di Eddie Cochran, eseguito con lo spirito verace di una college band attempata; al basso Stefano Cappa, detto K, alla batteria Gigi Bertolini.

Per me un grande nome, tanto per smentire e/o confermare ciò che dicevo all’inizio, ma raramente rintracciabile in Italia: Omar and the Howlers.
Omar Kent Dykes, nato a McComb, Mississippi, come Bo Diddley, ma musicalmente texano, anzi austiniano, sembra schivo e non pignolo, tanto da stare in albergo tutto il giorno rinunciando anche al soundcheck, forse per il caldo. Un personaggio tutt’uno con l’integrità della sua musica: Omar è rimasto fedele alla sua natura e non ha cercato contaminazioni, anzi s’è avvicinato sempre più alle radici con il passare degli anni.
Corpulento e vagamente minaccioso, tiene poggiata sul pancione una Stratocaster azzurra che sembra un giocattolo nelle sue mani, per un’esibizione ricca di mordente e immersa nei puri influssi della musica americana tradizionale, perfino più bella di quanto avessi immaginato.
Un misto di Texas blues, tex-mex, swamp-blues, surf, boogie, americana, un po’ di Muddy e J.L. Hooker, ma in sintesi naturale, non un’accozzaglia messa lì. Tutto questo con una semplice chitarra elettrica senza effetti e una ritmica attillata e agile (credo Paul Junior al basso e Steve Kilmer alla batteria, ma non sono sicura), perfetta per i suoi strali polverosi e il suo swing-rock. Suono sferzante e voce fangosa simil-Howlin’ Wolf, specialmente quando la scarnifica e la rende vetrosa con un growl profondissimo. Chiude gli occhi, suona frasi pulite e brevi, mirate come dardi, e solo a tratti, quando si diverte e diverte il pubblico con piccole stoccate, accenna piccoli sorrisi ironici e beffardi, niente affatto concilianti.

Bordate di sano blues elettrico, ruvido e fluente fin dall’inizio quando investe con How Many More Years, la versione più bella che abbia mai sentito dopo l’originale, quando ripassa le sue origini con la torbida e ipnotica Mississippi Hoo Doo Man, da Hard Times in the Land of Plenty, il disco che lo consacrò (pur non essendo fra i migliori), o quando investe di profano tormento un lento come East Side Blues, affilando in piccoli pezzi con la chitarra tagliente i manierismi contorti di altri linguaggi.
Ancora da I Told You So è la rivisitazione, più marcatamente in stile Bo Diddley rispetto al disco, di Magic Man, dedicata al suo compaesano a poche settimane dalla scomparsa di inizio giugno. Fantastica e graffiante Loud Mouth Woman alla T-Birds, tratta dall’Antone’s del 1990 in cui suona anche l’armonica, e non da meno è il rockabilly di Rattlesnake Shake, da Wall of Pride, che dà un’ulteriore scossa al pubblico. Se ancora non avete questi dischi e gli altri suoi, fondamentali del blues texano degli anni 1980/1990, procurateveli; Stevie Ray Vaughan non è l’unica cosa successa laggiù in quel periodo.
Bene anche quando appiccica nell’aria umida e greve una voluminosa Boogie Man per J.L. Hooker e forse anche per se stesso, dal disco di Ruf, ricco di ospiti illustri. Dopo un ulteriore bel regalo con il lento strumentale South Congress Blues, purtroppo la buona atmosfera è interrotta dall’arrivo della Norway connection, come la chiama lui, cioè i due citati sopra del Notodden, uno dei quali è Jostein Forsberg, che nel suo paese guida una band rock-blues, Spoonful of Blues.
Omar indietreggia per lasciare posto al biondissimo Jostein che all’armonica e al canto folleggia e saltella. Il trio di Omar si limita a fare da supporto mentre il norvegese fa il suo show: peccato perché la performance grossolana di Jostein ha solo l’effetto d’interrompere il filo del discorso e l’ispirazione di Omar. Dopo due episodi, tolto di mezzo l’ipercinetico Jostein, riprende il nostro, ma ormai qualcosa s’è rotto, oltre che essere arrivata la fine. Prosegue con un sano rock ‘n’ roll e finisce con Big Boss Man, presente nell’ultimo disco con Jimmie Lee Vaughan, collaborazione naturale, data la stessa appartenenza, e sensata, data la sobrietà di cui entrambi sono dotati.

Il trio seguente è quello dei North Mississippi Allstars dei fratelli Dickinson, nati in Tennessee e cresciuti nella regione Hills del Mississippi, con Garry Burnside, figlio di R.L. Burnside, al basso al posto di Chris Chew.
Luther, chitarrista eccelso e cantante, e Cody, incredibile batterista, sono ancora un cruccio per me che guardo ogni loro uscita discografica come a un salto nel vuoto, a volte carico di inaspettata ebbrezza, a volte dall’atterraggio spinoso come un cactus. Alfieri di un moderno hill country blues viscerale, i NMA sono capaci di rivoltare il fango del Mississippi e far risalire in superficie i fantasmi del blues delle radici, e come stregoni evocare gli spiriti di quella terra in modo speciale. Oppure d’inondare con un power rock invasivo per poi passare limpidi al country, al folk, alla ballata, con un forte spirito southern rock, loro vero regno, legato alla tradizione sudista come al rock psichedelico.
E mentre si è lì ad aspettare il loro capolavoro, quello che chiarisca la questione, ci si rende conto che loro sono proprio così, carichi di influenze tanto più interessanti quanto più infette, che bisogna prenderli come vengono perché non c’è niente da chiarire, e forse il capolavoro l’hanno già fatto o lo fanno ogni volta che toccano uno strumento.

Sono già passati dieci anni dal riuscito esordio Shake Hands with Shorty (quasi esordio, perché con papà Jim Dickinson fu registrato prima Tate County, ma uscì dopo), preludio di una creativa innovazione calcante con urgenza le loro influenze, soprattutto il blues delle colline, il boogie, il gospel, la work-song.
Oggi Luther Dickinson sventola la stessa bandiera confederata che fu degli Allmann Brothers Band (e dei Lynyrd Skynyrd). È arduo dare un giudizio definitivo ai loro dischi e soprattutto impossibile darlo negativo per via delle saporite chicche sparse qua e là.
Per un po’ ho pensato a Shake Hands come a qualcosa che è quello che è solo grazie alle loro capacità strumentali, agli ospiti e al materiale da cui hanno attinto: R.L. Burnside, Fred McDowell, ‘Junior’ Kimbrough, Furry Lewis. Bisogna sperare che l’illusione dia ancora i suoi frutti. Sanno suonare e sono ispirati dal Mississippi, con la possibilità di registrare quanto e come vogliono con un padre rinomato produttore e musicista (1) nello studio Zebra Ranch, nella Tate County, e hanno un’etichetta, Songs of the South Records.

Così può capitare di scoprire, proprio mentre penso a quanto il loro ultimo Hernando possa aver deluso, un intimo disco unplugged uscito poco prima in sordina e reperibile solo ai concerti o in rete, Mississippi Folk Music Vol. 1 (con una splendida Hard Times), che tra l’altro fa ben sperare in un secondo volume. Detto questo potrei tagliar corto dicendo che per sapere come hanno suonato al Rootsway si può ascoltare Hill Country Revue, live a Bonnaroo del 2004, togliendo le presenze del padre, dei Burnside (R.L., Duwayne, Cody), della Rising Star Fife & Drum Band, di Chris Robinson dei Black Crowes, e delle tastiere di Jo Jo Hermann.
Certamente meno voluminoso e meno carico di bordate flash music, anche laddove il flash venga impiegato per illuminare e non per accecare, questo concerto rispetto a quello là, sicuramente più diretto e spartano, però neanche poi tanto diverso perché tutto ruota attorno ai due fratelli, alla chitarra di Luther e alla ritmica possente di Cody. A Roccabianca partono proprio da Shake Hands esordendo con Goin’ Down South (Burnside), che nel disco serve da perno facendolo girare a mille. Là alla sezione ritmica c’erano Cedric e Garry Burnside ma, a parte questo perché Garry c’è ancora, nel disco è più bella, qua è solo power rock (“but I like it”, potrebbe dire qualcuno).
Nella Shake che apre Hernando, rock, pulsante, ipnotica, con belle armonie vocali, Luther a metà tra una rockstar e uno capitato lì per caso ci ordina Shake what your mama gave you. Avanzano duri con variazioni alla Jimi Hendrix e Billy Gibbons, per tornare a Hernando con Keep the Devil Down.

Poi la brezza del Dixie comincia a soffiare e l’eredità dell’epocale Live at Fillmore East, testamento di Duane Allmann a soli 24 anni, viene a galla con Drop Down Mama: è come se Fred McDowell e Duane fossero lì a dire a Luther cosa fare fino a quando lui spezza la melodia; la loro musica è tutta frammentata, a singhiozzo, con una ritmica complessa, narcotizzante, come quando usano due linee di batteria. Tirata lunga come a quei tempi là, sensuale e melodica, con inserti old time e country.
Cambia chitarra per la loro bellissima e più tradizionale Mean Ol’ Wind Died Down, perfetta su Electric Blue Watermelon con le armonie e la Rising Star Fife & Drum dei discendenti di Othar Turner, qua più scarna. Il vecchio vento cattivo s’è placato, ma il vento di Duane soffia ancora a impreziosire i lunghi e sapienti suoni di Luther.
Proseguono con All by Myself dal repertorio della Burnside Exploration di Holly Springs, con l’ipnotica I’m Leaving You Baby di Junior Kimbrough, e con una Drinkin’ Muddy Water decisamente rock-blues. Il momento strappa-viscere è il medley di Po’ Black Maddie, fascinosa chitarra stile Allmann in lunghissima ipnosi lungo uno slide di vetro, fusa con l’altrettanto bella Skinny Woman. Sono attaccate anche nel disco ed entrambe di Burnside, dove il virtuoso assolo di Cody fa da ponte per passare a Shake ‘Em on Down di McDowell, loro cavallo di battaglia insieme a Goin’ Down South, corposa e singhiozzante.

Non memorabile la parte in cui Luther fa cambio strumento con Garry, il quale suona alla Hendrix due lunghi strumentali, uno dei quali sfocia in If You See My Baby (credo di McDowell). Torna Luther con le sonorità notturne e spettrali della favolosa All Night Long di Kimbrough a saturare l’aria pesantemente umida, ed è perfetto, puro southern rock, mentre questo finale prosegue davvero grandioso con ancora R.L. Burnside e Let My Baby Ride che in mano loro diventa Snake Drive, poi Shimmy She Wobble a risaltare le doti di Cody ce ne fosse ancora bisogno, come una lunga introduzione a Station Blues, vale a dire Sittin’ on Top of the World.
Tornano infine con My Babe di Dixon; niente di strano, era anche nel repertorio di McDowell. Cody non s’è mai fermato per due ore, ma i miei entusiasmi e i miei dubbi rimangono tali e quali. Ciò che è ormai chiaro è che sono pieni di talento, tutto sta nel come vogliono continuare a dimostrarlo.

Omar Kent & Jimmie Vaughan, On the Jimmy Reed Highway CD cover (with Omar signature)Omar & The Howlers, Monkey Land CD (with Omar signature)

  1. Aggiornamento: Jim Dickinson è scomparso il 15 agosto 2009.[]
Scritto da Sugarbluz // 22 Maggio 2010
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