St Mud Avenue – St Mud Avenue

St Mud Avenue CD cover

Una recente formazione ligure alle prese con il primo disco omonimo, ma i cui componenti provengono da altre esperienze precedenti e contemporanee, e il cui nucleo s’è formato con il chitarrista e cantante Stefano Ronchi e l’armonicista Fabio ‘Kid’ Bommarito.
L’aggiunta della cantante Flavia Barbacetto (anche washboard), di Stefano Cabrera, violoncello e cimbali, e di Pietro Martinelli al contrabbasso ha probabilmente dato un’impronta più ricercata (non conosco la produzione precedente), in modalità che per la maggior parte ruotano attorno alla musica americana della prima metà del ventesimo secolo, oggi in pieno revival, come country blues, bluegrass, early jazz, jug band, ma con risonanze piuttosto levigate e pulite che un po’ si distaccano dalla tradizione sonora e dall’immediatezza del genere. Non che questo sia un difetto di per sé, rimanendo comunque valide e oneste l’ispirazione e la resa della musica acustica di quei tempi là, del bagaglio culturale sia bianco che nero.
Disco con suono moderno e “lieve” quindi, ma naturale e caldo, dotato di piacevole equilibrio dinamico e registrato in analogico in soli due giorni in uno studio di Brescia, con vecchi microfoni e senza sovra-incisioni (a parte forse gli interventi di lapsteel in un paio di occasioni). Buona interazione di tutti i componenti, e gustose sonorità “accessorie” che entrano ed escono a livelli più bassi, con sottofondi chiaramente percepiti; il contesto e lo spirito puramente blues sono lontani e l’approccio è più classico, ma in ogni caso i suoni devono avere una loro gerarchia, e qui è rispettata.

Apprezzabile da subito è il canto di Ronchi (che all’occorrenza fa anche il foot drum), con timbro un po’ ruvido di indole jazz e dalla tinta intima, con buona espressione melodica efficace anche nelle ballate.
Oltre alla voce solista femminile tutti partecipano alle armonie, mentre il violoncello non è fuori luogo pur da strumento inusuale nel genere, anzi è un valore aggiunto mai indifferente, sia per come s’inserisce bene, sia per le sue proprie caratteristiche sonore inquietanti, a volte come un violino dal suono più grave, altre come una tuba, strumenti entrambi presenti nella tradizione popolare americana. Anche il contributo delle altre voci strumentali è valido e mai ridondante, su una lista di dodici brani di cui la metà sono originali firmati da Ronchi.
Tra i sei autografi spiccano Rainy Day Rag, strumentale mid-tempo per resofonica, cello, contrabbasso, armonica e washboard introducente un clima d’altri tempi, e Strange Kind of Lovin’, ancora in stile primo jazz con duetto ben riuscito tra le due voci soliste maschile e femminile.
Molto buono pure Born in Mississippi, con strumenti a corda e armonica in uno stomp rurale dal suono stracciato e urgente, episodio più genuinamente blues; benissimo anche il canto.
Dello stomp stile vecchia New Orleans Six Feet Under colpiscono l’effetto del cigolio della porta sospinta dal vento creato dal violoncello, più avanti il suo tono sinistro e lirico, e i bei suoni fibrosi del banjolele. Il contrabbasso è nitido e profondo, l’armonica efficace.
Free è una ballata fuori dal coro, con gustose armonie e ancora notevoli contributi di armonica e cello a caratterizzare l’umore della malinconica melodia, come la steel, mentre I Want a Limousine non rende tutto quello che sembra voler offrire, nonostante la buona interpretazione vocale e il fingerpicking fiorito.

L’incipit di violoncello su Hipshake di Slim Harpo, raggiunto dagli altri strumenti e fino all’inizio del canto, credo rappresenti i migliori venti secondi di tutto il disco, e anche oltre. L’interpretazione vocale mi piace meno (non mi piace quel timbro nasale), ma l’arrangiamento è interessante, con eccellenti dinamiche e suoni intriganti di armonica, resofonica e cello; anche la ritmica è efficace, come sempre.
Il noto Up above My Head di Sister Rosetta Tharpe inizia con kazoo e prosegue brillante, portato dalla cantante con l’aiuto dell’armonia maschile in cui spicca il timbro alla Louis Armstrong (Fabio Bommarito).
Il punto più alto a mio avviso è You’re Gonna Need Somebody on Your Bond. È un vantaggio che le composizioni di Blind Willie Johnson siano all’apice della musica popolare, ma si sa che è possibile rovinare qualsiasi cosa. Qua il pericolo è scampato, Ronchi al canto dà il meglio (se questo fosse il suo standard, non avrebbe niente da invidiare a nessuno) e c’è da chiedersi da dove tira fuori quel carattere così gospel, non di meno fa con la resofonica, mentre il contrabbasso e il cello ben rendono l’oscurità di Johnson. Eccellente.
Bene Barbacetto in Some of These Days, scritto da Shelton Brooks per la regina del vaudeville bianco d’inizio secolo Sophie Tucker, e il solo jazzy di armonica (sembra un clarinetto), ma avrebbero potuto offrire qualcosa di meno ripreso.
I’m so Lonesome I Could Cry è un pezzo da novanta del grande Hank Williams proposto decorosamente e con buon uso della steel, prima che il breve e veloce Cannonball Rag di Merle Travis chiuda le danze (ringrazio anche Chet Atkins per avermi allietato con queste cosette). Bene anche la pronuncia dell’inglese, e a questo punto non mi rimane che augurargli di non perdersi per strada.

Scritto da Sugarbluz // 22 Maggio 2015
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