The American Folk Blues Festival 1962-1966, Vol. Two

Come anticipato nella recensione del vol. 1, il secondo DVD della serie American Folk Blues Festival copre lo stesso periodo del primo, integrando con ulteriori episodi di alcuni degli stessi artisti e di altri non ancora comparsi.
Ho già accennato nell’altro articolo quanto l’arrivo di questi bluesman in Europa fin dal 1962, primo anno del festival, produsse un effetto catalitico in particolare sulla scena musicale popolare inglese – influenzandola moltissimo e di fatto aprendola a livello mondiale – e in generale sulla diffusione del blues anche negli altri paesi del nord Europa interessati, oltre la Germania (patria di Lippmann e Rau, gli organizzatori del festival), l’Austria, la Svizzera, la Francia e la Scandinavia.
Il successo e il perdurare del festival per quasi tutti gli anni 1960 stimolò la comprensione della musica blues in Europa e, anche se introdusse direttamente al pubblico un numero limitato di musicisti – e tra questi alcuni più di altri rimasero nella coscienza degli europei, come Willie Dixon, John Lee Hooker, Sonny Boy Williamson II, Howlin’ Wolf e Muddy Waters, ma anche Memphis Slim, T-Bone Walker e Lightnin’ Hopkins – è indubbio, da uno sguardo posteriore, che questa ondata produsse effetti più duraturi e vasti nel sottobosco culturale europeo.
Negli anni seguenti infatti ci fu un interesse crescente del pubblico, della critica e del mercato europei rispetto a quello delle controparti americane, e soprattutto ancora oggi proprio nei paesi che il festival toccò; un interesse che, pur sempre relegato in una nicchia sconosciuta ai più, è rimasto costante o ha avuto diversi picchi. Soprattutto tra la fine degli anni Ottanta (1) e tutti gli anni Novanta si vide una cauta ma concreta rinascita della musica blues nel paese d’origine, con naturalmente varie deviazioni e contaminazioni attraverso nuove come vecchie leve, lasciando spazio anche a un salutare recupero di materiale e artisti che avrebbero potuto esser persi se non fosse stato per il boom del mediocre (per qualità audio) ma benefico compact disc che diede avvio a una capillare ristampa di registrazioni d’epoca.
Avendo già detto nell’altro articolo quali furono gli artisti chiamati di anno in anno, passo subito a descrivere il contenuto di questo DVD partendo di nuovo dal 1962 con Memphis Slim annunciatore e pianista per Willie Dixon, contrabbassista e autore centrale del blues di Chicago, e per il festival direttore artistico, oltre che solista in Nervous. Non a caso fu Jump Jackson il primo batterista chiamato oltreoceano da Lippmann, essendo uno di quei musicisti che impressionarono Joachim Berendt a Chicago sul finire degli anni 1950 durante un jam session in suo onore proprio nel garage di Jackson; al ritorno in Germania, fu Berendt infatti a suggerire a Lippmann l’idea di un festival europeo con i bluesman americani.
Al trio s’aggiunge la chitarra di T-Bone Walker (non inquadrato), poi solista con la stessa sezione in Don’t Throw Your Love on Me so Strong, coinvolgente e carismatico con il suo intimo mellow sound e il suo stile particolare, mostrante qualcosa di ciò che lo ha reso tra i più influenti chitarristi di tutti i tempi.
Se il blues urbano quell’anno fu ben rappresentato da T-Bone, quello campagnolo fu portato da Sonny Terry & Brownie McGhee, che nella stessa ambientazione back-porch mostrata nel video precedente eseguono Stranger Blues, come sempre in armonia ed efficacia ritmica.

Del 1963 si può vedere Victoria Spivey arrivata direttamente dalla tradizione delle chanteuse di classic blues con Black Snake Blues, vale a dire quando essenza e personalità valgono più di mille inutili vocalizzi, introdotta e accompagnata dall’amico di vecchia data Lonnie Johnson (che nonostante la bella presentazione si sbaglia e annuncia T.B. Blues), insieme a Sonny Boy Williamson e alla ritmica di Dixon e Bill Stepney.
Questi ultimi due appaiono anche per Memphis Slim, il suo possente shouting e il pianismo qui in Chicago style con il suo cavallo di battaglia Everyday I Have the Blues, formando un fantastico quartetto insieme a Matt ‘Guitar’ Murphy che instilla un suono elettrico innervante appena percettibile e sotterraneo al super-classico originalmente di ‘Pinetop’ Sparks, (2) poi anche da solista in tutta meravigliosa evidenza nello strumentale Murphy’s Boogie, altra grandissima soddisfazione per udito e vista. Stessi musicisti per l’accompagnamento a Willie Dixon e al suo vocione con il cupo Sittin’ and Cryin’ the Blues, introdotto da Big Joe Williams.
Nel volume precedente la selezione degli episodi del 1964 è scarsa, qui è molto più importante e apre con due di Sonny Boy Williamson II. La solitaria e acustica Bye Bye Bird, simbolica e poetica (non necessitano molte parole per fare poesia, basta stimolare l’immaginario), è breve preludio a My Younger Days eseguito con un’altra ineccepibile formazione, di quel tipo che non tornerà: Sunnyland Slim, Hubert Sumlin, Clifton James e naturalmente Willie Dixon. Quest’ultimo nei due anni seguenti non trasvolò, ma da Chicago continuò a ingaggiare artisti per il festival. La flemma e la tempistica di Sonny Boy sono il fondamentale sostegno a ogni suo blues e la piccola armonica sembra sparire nella sua grande mano o esserne parte naturale, con un suono acustico così controllato e pieno da non temere la chitarra elettrica o un’intera sezione ritmica come quella, posto poi che i suoi colleghi sanno come non sovrastarlo.
Questi danno ulteriore saggio di controllo, tono e timing superlativo accompagnando il pianista Sunnyland Slim nella sua Come on Home Baby: è come se il blues lo stessero inventando loro, e non c’è scuola migliore di questa. I rapidi doppi colpi di Dixon sul contrabbasso, la voce chiara, potente e lo slancio di Sunnyland, il suono saturo e i bellissimi interventi di Sumlin, la ritmica a clave latina di Clifton James; non mi stanco di sentire roba così.

Spettacolo nello spettacolo sono anche le introduzioni degli artisti agli altri artisti, compresa quella semplicissima ma efficace di John Henry Barbee a “the bluesman” Lightnin’ Hopkins nella sua sempre diversa e irripetibile Mojo Hand, con acustica amplificata e i soli Dixon e James a scandire un tempo implacabile, mentre Lightnin’ fa capire anche al più tonto che il rock ‘n’ roll non è altro che un componente innato della musica nera.
Chiude la selezione del ’64 la tripletta dell’immenso Howlin’ Wolf, introdotto alla grande da Mae Mercer e sostenuto dal quartetto di cui sopra. La forza ferina di Wolf attacca alla gola una Shake for Me iniziata da seduto e finita in piedi, minacciosa e invasiva e allo stesso tempo piena di classe e stile, e occasione per gustare alcuni dei tipici e caratterizzanti riff di Sumlin. Da segnalare l’ottima qualità audio e visiva, allo stato dell’arte dei tempi, anche se non sempre uniforme, ma spesso eccellente come in questo caso e con bell’effetto eco. Dopo il suo concetto di ritmo Howlin’ introduce al suo concetto di groove con il medio-lento I’ll Be Back Someday, in perfetta polifonia (gran lavoro di Sunnyland e ancora di Sumlin), e in cui sembra sputare l’anima, come anche in Love Me Darlin’, il suo concetto d’amore.

Del 1965 c’è la possente Big Mama Thornton conducente un Down Home Shakedown strumentale suonato a turno da lei e altre armoniche, cioè quelle di Big Walter Horton, J.B. Lenoir, Doctor Ross, John Lee Hooker, e dalla potente ritmica che quell’anno comprendeva Buddy Guy, Jimmy Lee Robinson e Fred Below, mentre dal 1966 arriva Roosevelt Sykes spronante al ballo con un infuocato boogie, Tall Heavy Mama, accompagnato da incitamenti vocali e dalla spettacolare ritmica di Fred Below e Jack Myers, bassista che ha riempito di creatività molti lavori di Buddy Guy e Junior Wells, qui invece molto rigoroso data la situazione, e sempre solidissimo. Entrambi, Below e Myers, danno l’impressione di poter iniziare da un momento all’altro un’improvvisazione bebop, così come sanno allo stesso modo accompagnare un pianista tradizionale come Sykes. Anche in questo caso la situazione pare un po’ surreale trattandosi di materiale ideale per le ore piccole di un torrido barrelhouse in uno sporco campo di lavoro dei primi Novecento, invece che per un’immobile e silenziosa platea di borghesi tedeschi in un teatro cittadino, ma questi uomini e donne di blues sono sempre comunicativi indipendentemente dal contesto, peccato solo per la brevità.
Il contesto è più libero nelle riprese live del 1969, con due bonus track tratti dalla stessa situazione vista nel primo volume, stavolta con Magic Sam, magnificamente ispirato con la sua All Your Love sulla chitarra prestata da Earl Hooker, accompagnato da Mack Thompson (altro talento della famiglia Johnson, fratello di Syl e Jimmy) al basso e Robert St Julien alla batteria. È un’imperdibile occasione per vederlo al massimo della forma musicale purtroppo poco prima della disgrazia (scomparve qualche settimana dopo, il 1º dicembre, a soli 32 anni), anche nel Magic Sam’s Boogie, veloce e scioltissimo strumentale che ha l’aria d’esser improvvisato, una “cosetta” da proporre dal vivo in modi e tempi variabili a seconda della situazione, o forse suonato lì per la prima e unica volta. Sicurezza e confidenza anche da parte degli accompagnatori, che attaccano o si fermano con un ehi! o ehi ehi! lanciato da Sam al momento opportuno: cenni che corrono tra un trio compatto e coeso, concentrato, Thompson felice della situazione, St Julien con il portafoglio appoggiato sul rullante per controllare qualche ring di troppo. Sono lì per suonare, diamine!, non per far giochini.
Al volume 3.
(Fonti: Liner notes di Rob Bowman a The American Folk Blues Festival 1962-1966, Vol. Two, Reelin’ in the Years Productions, S. Diego, California, 2003).
- Le prime Blues Society americane nacquero proprio in quel periodo, mentre la prima inglese fu fondata qualche mese dopo il primo tour del 1962.[←]
- Il brano fu scritto e registrato nel 1935 dagli Sparks Brothers, vale a dire i gemelli Aaron, pianista, e Marion, cantante, noti anche come Pinetop & Lindberg.[←]
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