Big Joe Turner Rocks

Cover of Big Joe Turner Rocks CD (Bear Family)

Un altro dischetto della serie “Rocks” di Bear Family, dopo quello di Smiley Lewis, per un altro tanto corpulento quanto trascinante protagonista del rhythm and blues concepito per le sale da ballo dell’epoca pre e post-bellica.
Joseph Vernon Turner non sarebbe stato lo stesso se non fosse nato (il 18 maggio 1911) e cresciuto a Kansas City, città che avrebbe stampato il suo nome sulla mappa degli stili regionali sviluppatisi dal seme del blues, che all’epoca della nascita del grande tenore stava cominciando a mostrare i primi frutti.
La musica di Kansas City, innervata da un modernismo vibrante ancora oggi, trasse forza e originalità da importanti personalità di interpreti, direttori d’orchestra e autori come William ‘Count’ Basie, Jay McShann, Benny Moten, Andy Kirk, George E. Lee, Jesse Stone, Walter Page, che infusero il loro innato swing nell’idioma del blues, aprendo e attingendo in modo significativo alle sezioni fiati, e sopravvisse grazie a una schiera di epigoni, come Harlan Leonard ad esempio, colui che si permise di cacciare dalla sua orchestra Charlie Parker per mancanza di disciplina: in città negli anni 1930 non c’era certo penuria di musicisti.

Newspaper article about Big Joe Turner and Pete Johnson's performance in a K.C. bar in the 1930s

Da K.C. uscirono anche Sammy Price, Mary Lou Williams, ‘Hot Lips’ Page, Lester Young, Jimmy Rushing, Billie Holiday, Helen Humes, Big Ed Lewis, Freddie Green, Dicky Wells, Wilbur Clayton e, appunto, il giovane Charlie Parker pre-bebop; dunque soprattutto tasti, fiati e grandi voci su irresistibili head arrangements.
Tra i musicisti afroamericani cittadini che svilupparono il nuovo suono, Big Joe Turner mise le basi all’R&B, diede linfa al jump blues e successivamente al rock ‘n’ roll. Fu il boogie incalzante e fluente dei tasti d’avorio di Pete Johnson che impresse per sempre la potenza, il ritmo e lo swing nello spirito e nel canto di Big Joe Turner, carburante vitale che lo alimentò anche durante la sua seconda carriera, sopravvissuta all’esplosione a metà anni 1950 del rock ‘n’ roll, figlio diretto che lasciò in fin di vita artistica molti bluesman che avevano avuto successo negli anni precedenti.
Come dice l’articolo qui a fianco, Turner era un ragazzo alto e per bene che serviva in un bar a Kaycee (nomignolo per Kansas City), cantando il blues mentre preparava drinks e diventando così popolare da poter cominciare una carriera in proprio nel 1930. Continua descrivendo l’atmosfera di una tipica performance di Pete Johnson e Joe Turner al “vecchio Sunset all’incrocio tra la 12ª e Woodland”, dove cominciavano con una band a tre fiati e a volte finivano in jam con sei sax e quattro trombe ad alternarsi nell’eseguire “musica ballabile – tutto blues”, ovviamente per afroamericani.
La birra era servita in alti barattoli di latta di quasi un litro a quindici centesimi “da pagare non appena è appoggiata di fronte a voi, per favore”. Pete teneva il suo jigger pieno di gin vicino al piano, sorseggiandolo di tanto in tanto. Al momento giusto Pete e Joe cominciavano un boogie che poteva durare da dieci a settantacinque chorus consecutivi, Joe singing a few, Pete talking a few, the tenor comin’ in, and so on, con alcuni clienti che eccitati si buttavano a terra, prima di essere tolti di mezzo da uno scagnozzo del bar. Peccato non poter leggere il resto dell’articolo.

La ragione per cui Kansas City, Missouri, affossata nel ventre d’America, ombelico pulsante affacciato sugli umori del Midwest e del Southwest, dai primi anni 1930 divenne centro di uno stilema musicale (un po’ come la St Louis di qualche decennio prima), è imputabile in parte al prodigioso sviluppo commerciale come porto fluviale, crocevia ferroviario e stradale, irrorato dalla circolazione di molto denaro e di nuove opportunità. Fu però soprattutto grazie al clima permissivo della politica corrotta e clientelare di Thomas Pendergast, boss della città, se a K.C. sorsero una miriade di locali aperti fino all’alba, con alcool e dollari a fiumi e jam session interminabili. Divenne in breve la culla dell’antiproibizionismo e di svariati gangster, e calamitò musicisti a grappoli da New Orleans, dal Mississippi, dal Texas, dall’Arkansas e dall’Oklahoma. Tantissimi giovani jazzisti erano lì per mostrare le loro qualità esibendosi in gare non-stop, trattando in modo vigoroso e competitivo il materiale più malleabile e conosciuto da tutti, il blues, con i suoi tipici riff usati come base per il chorus o il tema di apertura:

L’uso di brevi cellule melodiche – ripetute costantemente dall’intero ensemble, spesso in unisono dagli ottoni e a volte dalla sezione ritmica in supporto all’improvvisazione solistica – divenne una caratteristica distintiva dello stile di Kansas City. Questo stile fu innovativo anche nell’approccio ritmico, discostandosi dal jazz di New Orleans. Invece di marcare i tempi forti della battuta (il primo e il terzo, come nella marcia), i musicisti di Kansas City marcavano in ugual modo, ma più lievemente, tutti e quattro i tempi, producendo un ritmo fluido, un ritmo swing. (1)

Da ragazzino Joe accompagnava un cantante cieco nelle strade dei locali, sbirciando scorci di quella vita musicale affascinante attraverso le brecce stinte delle finestre verniciate dei club e assimilando ogni piccola nota, facendo poi la sua intrusione diretta nel 1925 a quattordici anni con un paio di baffetti finti e il cappello di papà, riuscendo a proporsi come cantante, barista, buttafuori o buttadentro. Fu il canto possente a impressionare i clienti: senza microfono, scuoteva le pareti di locali come il Backbiter’s, The Hole in the Wall, The Black & Tan, Hawaiian Gardens, The Subway.
Anche Pete Johnson era nativo di K.C. (25 marzo 1904), e quando permise a Joe di esibirsi con lui erano al club di Piney Brown, Sunset Café, 12ª strada, quello citato nell’articolo. Fu l’inizio di un’unione fertile, evidenziante i loro punti di forza: canto florido, esuberante, suono energico e coinvolgente.
John Hammond Sr notò il duo nel 1936, e nello stesso anno li portò a New York per una serie di concerti al Famous Door, tornandovi nel maggio 1938 ospiti di un popolare programma radio condotto da Benny Goodman. Raggiunsero la fama solo dopo il noto concerto del 23 dicembre organizzato da Hammond al Carnegie Hall, From Spirituals to Swing, in cui avrebbe dovuto esserci anche Robert Johnson, coetaneo di Big Joe, se nel frattempo non fosse misteriosamente deceduto. Al posto di R.J. andò Big Bill Broonzy, e a questo storico evento musicale parteciparono anche l’orchestra di Count Basie, Sister Rosetta Tharpe, Sonny Terry, oltre che Albert Ammons e Meade Lux Lewis, pianisti boogie che proprio da qui iniziarono una collaborazione a tre con Pete Johnson chiamata Boogie Woogie Trio.

Big Joe Turner and friends
Joe Turner con Buddy ed Ella Johnson
Sotto, Jerry Wexler, Alan Freed e Ahmet Ertegun

Già una settimana dopo (30 dic. 1938) Vocalion convocò i due per registrare uno dei brani eseguiti al Carnegie, Roll ‘Em Pete, che divenne il loro signature song e l’inizio della scalata del boogie-woogie nella Big Apple, con Turner e Johnson a contratto presso il progressista Café Society di Barney Josephson al Greenwich Village, insieme ad Ammons e Lewis. È un coinvolgente boogie dal quale traspira, mediante il tono e l’impeto di Joe Turner e il suono rasposo e duttile di Johnson, il clima e lo swing della meravigliosa (almeno dal punto di vista musicale) epoca in cui fu inciso (retro Going Away Blues, Vocalion 4607, a. 1939).
Turner registrò ancora per Vocalion, ma anche per OKeh e Decca, dal 1939 al 1941, accompagnato dal Trio e da altri grandi pianisti, come Sammy Price, Art Tatum, Willie ‘The Lion’ Smith, (2) Freddie ‘Daddy’ Slack (T-Bone Walker fu nella sua band per un paio d’anni), il virtuoso pianista bianco Joe Sullivan, e da Benny Carter & His Orchestra.
Tutte le registrazioni discografiche ebbero una battuta d’arresto con il primo, lungo Petrillo ban (3) e poi con la seconda guerra, ma Turner si tenne occupato con i concerti, e riuscì a registrare a Chicago il 30 ottobre 1944 con Pete, il chitarrista Ernest Ashley e il bassista Dallas Bartley ulteriori brani per Decca, incluso un altro travolgente boogie blues, Rebecca (retro It’s the Same Old Story, Decca 11001, a. 1946), ancora più invasivo con Ashley e Bartley a ispessire il lavoro di Johnson, come un movimento magmatico sotto i piedi del pianista.
Sul finire del 1945 insieme a Johnson aprì un locale a Los Angeles, Blue Room Club, e sempre in quell’anno firmò con una delle diverse indie che stavano nascendo stimolate dalla ricchezza di talenti e dalla forte richiesta di dischi del pubblico dopo la fine della guerra, National Records di Albert Green a New York, dove Herb Abramson, poi co-fondatore di Atlantic Records, era l’A&R man.

Green voleva riprendere il successo di Saunders King del 1942, S.K. Blues, così Abramson fece una capatina al Café Society e reclutò Joe Turner (S.K. Blues Pt 1&2, National 9010, a. 1946). La prima sessione National fu nella Big Apple con Johnson a dirigere un plotone all stars, ma alla data seguente, 23 gennaio 1946, prodotta ancora da Abramson, Pete non c’era. Le registrazioni furono a Los Angeles con il sax tenore ‘Wild Bill’ Moore (4) a dirigere la sua Lucky Seven Band in My Gal’s a Jockey (retro I Got Love for Sale, National 4002, a. 1946), composta da Al Williams (pf), Warren Brocken (tr.), Teddy Bunn (chit.), John ‘Shifty’ Henry (cb), Alray Kidd (batt.), Lloyd Harrison (sax-t.). Se il titolo è allusivo il resto conferma l’impressione, e questo esplicito jump blues a tempo medio fu il primo di Big Joe a entrare nella classifica R&B, al 6º posto; su National uscirono altri sei singoli nel 1946.
Sebbene nella sua carriera abbia inciso centinaia di dischi per molte etichette, solo una volta adottò un nome diverso, Big Vernon, nel 78 giri con le due parti di Around the Clock a San Francisco nel novembre 1947 per la meteora Stag (Stag 508, a. 1947). Con di nuovo solo l’agile, ficcante accompagnamento di Johnson, Joe narra le sue prestazioni sessuali su base oraria (come nell’indimenticabile stesso titolo di Wynonie Harris uscito nel 1945); il nome diverso adottato forse perché ancora sotto contratto con National. Dev’essere stato in questo periodo di Turner nella Bay Area che Jimmy ‘T99’ Nelson decise di diventare cantante dopo averlo visto:

I met Joe in Oakland, we went to this dance, it was on top of the bank at 7th and Henry. And when the emcee brought out this big man, the band started rockin’ – and the stage started shakin’ – because he was a big, heavy man. He was up on that stage, and we were down. We’d look up at him, and he looked like a man-mountain. He was a mountain of a man! A great big man. And that cat started shoutin’ the blues. I said: “Hell, man, that’s for me!” (5)

Sulla West Coast trascorse diversi anni, vagabondando da un’etichetta (MGM, Swing Time/Down Beat, Excelsior, Aladdin, Dootone, RPM) e da una città all’altra per i tour e i concerti nei club di Los Angeles e San Francisco. Nel 1949 si spinse verso sud facendo date a New Orleans e Baton Rouge, registrando per Bayou Records di Ville Platte e la minuscola Rouge di Baton Rouge, (6) e fermandosi abbastanza a Houston da registrare anche per Freedom, il 22 dic. 1949, la “biblica” Adam Bit the Apple (retro Still in the Dark, Freedom 1531, a. 1950). (7) Un altro uptempo adatto alle sale da ballo con l’alto-sassofonista Conrad Johnson, (8) forse il tenorista Joe Houston (appena arrivato in Freedom, portato da Turner), il pianista Lonnie Lyons e il chitarrista Goree Carter. Ecco un tipico distico di Big Joe:

Adam bit the apple and the juice come runnin' out
Man, that was the first cat know what love was all about

La sessione Freedom seguente avvenne giusto un anno dopo, e uscì il disco con lo swing ballabile di Feelin’ Happy (retro You’ll Be Sorry, Freedom 1540, a. 1950) (9) con, tra gli altri, il futuro trombettista di Ray Charles, Joe Bridgewater, a eseguire il solo, il tenorista Vernon Bates e il trombonista Pluma Davis, più tardi nella house band di Duke/Peacock Records. Per un “verso errante” in comune (il primo) e la sua carica ottimistica mi ricorda un brano di Jon Hendricks che da ragazzina ho adorato, con il travolgente accompagnamento di Lionel Hampton e Buddy Rich, Dido Blues (in una compilation vinilica chiamata Giants of Jazz), anche se quest’ultimo è un uptempo degli anni 1970, mentre il brano di Turner pare figlio dell’antesignano e altrettanto ballabile a tempo medio Do You Wanna Jump, Children? di Count Basie e Jimmy Rushing, e in una simile atmosfera orchestrale da ballroom. Nel 1950 uscirà un altro disco Freedom, Just a Travelling Man / Life Is Just a Card Game (n. 1537).
Tra queste due sessioni Freedom, nell’aprile 1950 ne fece una a New Orleans per Imperial Records nello studio J&M di Cosimo Matassa sotto la guida di Dave Bartholomew, all’inizio del suo rapporto con Imperial. Sono presenti nomi noti legati al noto produttore e per estensione a quello studio: il chitarrista Ernest McLean, il bassista Peter ‘Chuck’ Badie (o forse Frank Fields), i sassofonisti Joe Harris, Herb Hardesty e Clarence Hall, Waldron ‘Frog’ Joseph al trombone, e Fats Domino che provvede all’introduzione con brio. Jumpin’ Tonight (retro Story to Tell, Imperial 5090, a. 1950) è una tipica celebrazione delle feste lunghe una notte intera da vivere come se non ci fosse un domani. Il batterista Thomas Moore (o forse Earl Palmer) ribatte i riff dei fiati con accenti calibrati e Big Joe se ne esce con un ho-ho-ho! prima del solo di sax, che a fatica si fa strada tra gli altri suoni (un po’ caotici). È una ripresa, con testo diverso, di un suo brano del 1947 passato in sordina, ma che ben s’adattava al nuovo vento con la sua base che allora si chiamava boogie-woogie e che stava diventando rock ‘n’ roll, Ooo-Ouch-Stop (uscito per Excelsior e accompagnato dal Flennoy Trio: Lorenzo Flennoy, Lucky Enois, Winston Williams).
Con un mercato sempre pieno di nuovi singoli, Turner in quel periodo fu sorpassato in popolarità da altri interpreti del suo genere; dominavano shouter come Wynonie Harris, Jimmy Witherspoon, Roy Brown, Bull Moose Jackson. Come se non bastasse, uscì con il morale a terra da un concerto davanti all’impietoso pubblico dell’Apollo Theater, nel 1951. Quella sera stava sostituendo Jimmy Rushing nell’orchestra di Count Basie, ma ebbe qualche problema con gli arrangiamenti della band, che qua e là aggiunse battute e costrinse l’esuberanza del grande improvvisatore dentro uno schema rigido al quale non era abituato. Joe era analfabeta, e quello che usciva dalla sua ugola stava stipato nella sua memoria in un grande archivio duttile capace di adattarsi, ma che funzionava in situazioni di maggior libertà espressiva, quando poteva anche inventare nuove frasi.

Atlantic ad for "Bump Miss Suzie" record

Fortuna però volle che tra il pubblico ci fosse Ahmet Ertegun, allora già proprietario di Atlantic insieme a Herb Abramson, interessato a farlo firmare per l’etichetta nata nel 1947 ma sofferente fino al successo, nella primavera 1949, del brano di ‘Stick’ McGhee Drinkin’ Wine Spo-Dee-O-Dee (già citato qui). Nell’autunno 1949 fu Ruth Brown ad avere il suo primo hit Atlantic con la ballata So Long, e di nuovo l’anno seguente con Teardrops from My Eyes, a cui ne seguirono altri.
Dopo il concerto all’Apollo Ertegun rintracciò Turner al vicino Braddock’s Bar e gli offrì cinquecento dollari per una sessione, realizzata il 19 aprile 1951 ai Beltone Studios di New York. In quella data prese forma il disco Chains of Love / After My Laughter Came Tears (Atlantic 939, a. 1951), due ballate, ma anche il vivace e allusivo jump-rock ‘n’ roll Bump Miss Susie (retro The Chill Is On, Atlantic 949, a. 1951), boogie call and response con l’orchestra di Harry ‘Piano Man’ Van Walls.
Il brano era di Rudolph Toombs, compositore di vecchia data che fornì ad Atlantic il secondo brano di Ruth Brown citato sopra e 5-10-15 Hours, oltre al famoso One Mint Julep per i Clovers. Le liriche sull’alcool erano la sua specialità dato che firmò anche il successo di Amos Milburn One Scotch, One Bourbon, One Beer, così come i seguiti del brano dei Clovers, Crawlin’ (il protagonista è sotto gli effetti di una mistura alcolica) e Nip Sip (sorseggiare un bicchierino).
Nel 1952 uscirono altri tre dischi Atlantic a nome di “Joe Turner with Van ‘Piano Man’ Walls and His Orchestra” (Sweet Sixteen [Ertegun] / I’ll Never Stop Loving You [Chase] – Don’t You Cry [Pomus] / Poor Lover’s Blues [Turner] – Still in Love [Pomus] / Baby, I Still Want You [Sweet]), orchestra in cui figuravano Rector Bailey (chit.), Leonard Gaskin (cb), Taft Jordan (tr.), Budd Johnson e Freddie Mitchell (sax-t.), Arlem Kareem (sax-b.) e Connie Kay (batt.).

Turner passò diverso tempo a New Orleans al club/albergo Dew Drop Inn di Frank Painia, e si trovava in città anche il 12 maggio 1953 quando si svolse una sessione prodotta da lui stesso nel sopracitato studio di Matassa, (10) sollecitata da Atlantic che fremeva per ribattere il discreto successo, con l’orchestra del trombonista Pluma Davis: Edgar Blanchard (chit.), John Fernandez (cb), August ‘Dimes’ Dupont (sax-a.), Warren Hebrard (o Hebrew) (sax-t.), Thomas Sheldon e Frank Mitchell (tr.), Kathy Thomas (pf), Alonzo Stewart (batt.). Il libretto mette come possibili le presenze di Lee Allen al tenore (al posto di Hebrard), di Fats Domino (al posto di Kathy Thomas), e di Alvin ‘Red’ Tyler al sax baritono, non so se prendendo spunto da ciò che scrive Jerry Wexler nel suo libro (v. nota 10), dove nomina appunto i tre come presenti, aggiungendo “all without a shred of help from Ahmet or myself”, che leggo come conferma del fatto che Turner si autoprodusse.
Qui nacque il disco con Honey Hush e Crawdad Hole (Atlantic 1001, 1953), entrambi scritti da lui ma accreditati alla moglie, Lou Willie (o Luella) Brown, come altri brani (è assai improbabile che Honey Hush sia il parto di una donna: ascoltate le parole, o recuperate il testo online, e vi sarà evidente).
Il primo è un morbido jump boogie con la chitarra ritmica di Edgar Blanchard a doppiare il 4/4 costante del piano (la batteria colpita su ogni battito, pattern che sarà anche alla base della disco-music), il trombone di Pluma a sottolineare Big Joe, rimarcante il suo punto di vista armato di mazza da baseball (Don’t make me nervous, ‘cause I’m holdin’ a baseball bat), e i solo di sax prima di sigillare con due serie di Hi-yo, Silver! (11) ripetute in coro. Si sente odore di Crescent City e una forte similitudine con Smiley Lewis. Arrivò in cima alla classifica R&B per otto settimane, perfino in quella pop al 23º posto, fornendo così il modello ad altri suoi futuri hit, come Shake, Rattle and Roll e Flip, Flop and Fly. Poco più tardi il brano si prestò al rockabilly, ad esempio nei suadenti cover del Johnny Burnette Trio e di Jerry Lee Lewis, e Turner nel 1959 ne registrò una versione diretta, negli intenti, agli adolescenti; l’unica cosa eventualmente da cambiare, il testo, rimase quello, mentre la sua bella voce matura adulta fu depotenziata e addolcita da effetti ambientali, l’atmosfera musicale alleggerita.
Il secondo è un rilassato jump blues double entendre a tempo moderato, sempre da sala da ballo, ripreso in tempi più recenti nel disco con i Roomful of Blues.

Newspaper advertising of Atlantic Records' hits

Di nuovo in sella, registrò agli studi Universal di Chicago il 7 ottobre 1953 con musicisti del posto; Ertegun e il già citato nuovo partner Jerry Wexler ancora si mossero da N.Y.C. per supervisionare la sessione. Nella band troviamo Elmore James, da poco in città a seguito del successo di Dust My Broom, e il suo pianista nei Broomdusters Little Johnny Jones (per Jones, vedi anche qui), già da anni chicagoano, esule dall’esperienza con Tampa Red come allievo e sostituto del grande pianista Big Maceo Merriweather. Theodore ‘Red’ Saunders, house drummer al Club DeLisa nel South Side, aveva a fianco il bassista Jimmy Richardson e una sezione fiati; chiunque fossero comunque Atlantic indicava i suoi accompagnatori sempre come “His Blues Kings”.
Qui nacque il disco TV Mama / Oke-She-Moke-She-Pop (Atlantic 1016, a. 1954). La slide di Elmore introduce il primo brano – altro doppio senso in cui Big Joe usa un’analogia in linea con i tempi (la TV stava diventando un mass media, e ancora oggetto di desiderio) parlando della sua baby come di una con un big wide screen (metafora per “sedere”), molto apprezzato. Mentre James segna la sua discreta ma innegabile presenza con un breve solo e qualche riff alla Dust My Broom, gli altri rendono un secondo piano efficace con contributo individuale ben distinto formando un disegno ritmico asciutto (nel senso di mancanza del superfluo) e compatto (luogo in cui puntualmente tutti arrivano): se là si sente la Big Easy, qui si sente Chicago. Arrivò al 6º posto della classifica R&B, rimanendo così Turner artista Atlantic di punta.
Il secondo, con quello strano titolo che fa pensare a un rock ‘n’ roll per teenager o a un “jump” su di giri, sorprende rivelandosi invece un tempo medio da after-hours, e l’appellativo quello di un luogo immaginario campagnolo che non è nemmeno una frazione, ma solo una piccola, vecchia fermata ferroviaria a richiesta (Well, it ain’t no city, just a little old whistle stop). James esegue licks jazzati, Jones trilli appena percettibili mentre la sezione fiati durante il canto di Big Joe fornisce un drone costante e malinconico che s’interrompe solo nelle parti strumentali e durante i brevi afflati di sax, forse di Grady ‘Fats’ Jackson, che esegue anche un solo caldo e sussurrato. Già registrato nella sessione di N.O., Atlantic scelse la versione di Chicago per farne il retro di TV Mama.

Tornò a Nouvelle Orleans il 3 dic. 1953, Ertegun e Wexler presenti, incidendo Midnight Cannonball (retro Hide and Seek, Atlantic 1069, a. 1955) con alcuni assidui nello studio Matassa come il pianista Edward Frank e Alvin ‘Red’ Tyler al sax baritono, ed elementi della band di Guitar Slim, cioè l’orchestra del bassista Lloyd Lambert. Il trombonista è Worthia ‘Showboy’ Thomas ed esegue un riff costante, mentre al tenore c’è Joe Tillman: spesso Turner chiama il solo del sax con Blow it, Joe! chiunque ci sia, ma qui, che c’è davvero un Joe, non lo fa. Completano Gus Fontenette all’alto, John Girard alla tromba e il batterista Oscar Moore; è la sezione fiati qui a rendere le sonorità tipiche della New Orleans dell’epoca (alla stessa sessione appartengono You Know I Love You e Married Woman).
Questa fu l’ultima seduta Atlantic fuori sede perché poi le altre furono fatte a New York, quella del 15 febbraio 1954 proprio nel cuore dell’etichetta, al quinto piano degli uffici al 234 W 56th Street, con il tecnico del suono Tom Dowd così accorto da non aver bisogno di uno studio vero e proprio, ma solo di un po’ di spazio, come ha ricordato Jerry Wexler:

Ahmet and I shared the office, and our desks vere cattycorner to each other in the room that also served as the studio room. And when there was a session, we’d move the desks and put one on top of the other. Tom Dowd would come and set out the folding chairs, the camp chairs, and a few mics, because it was mono. We didn’t have a lot of mics. I think we had a four-channel mixer that mixed into mono, I’m not sure. The control room was also a little storage space where we used to keep our demos. It was so narrow that three people couldn’t sit, the glass was so restrictive. Two people could sit and one could stand. And that’s how we did those records. We made Joe Turner’s Shake, Rattle and Roll there. (12)

Shake, Rattle and Roll (retro You Know I Love You, Atlantic 1026, a. 1954) fu scritto dal pianista e arrangiatore Jesse Stone (v. suo link sopra nel testo, o nei tag a fine articolo), che spesso da autore usava lo pseudonimo Charles Calhoun. Alle basi del suono di Kansas City come bandleader dalla metà degli anni 1920, Stone fu autore (sua anche Money Honey, in classifica per i Drifters nel 1953) e arrangiatore importante all’Atlantic nel momento in cui il rhythm and blues sfociò nel rock ‘n’ roll (cioè nel mercato pop), e per gran parte responsabile del suono dell’etichetta al tempo. Preparava a parte i musicisti affinché in sede di registrazione fossero precisi e veloci ottenendo il risultato voluto con meno take, per un risparmio di tempo che faceva molto piacere ai vertici (realizzando così il detto “il tempo è denaro”, caro a newyorchesi tipo Wexler), e naturalmente anche a Dowd. Si può dire che Stone fu il direttore artistico ideale (ma non l’unico in questo senso), potenzialmente sognato da ogni discografico e da ogni tecnico del suono, ma il suo ruolo all’Atlantic non fu mai (economicamente) riconosciuto come meritava. Facile forse finire sullo sfruttamento operato dai discografici ebrei a riguardo degli artisti afroamericani, ma anche ponendo tutte le circostanze legate all’epoca rimangono i fatti.
Il brano ha fatto storia, ed è un esempio del suono della band di casa con alcuni dei migliori sessionman della scena cittadina, come il sopracitato pianista Harry Van Walls, il chitarrista Mickey Baker, il contrabbassista Lloyd Trotman, il batterista Connie Kay, il tenorsassofonista Sam ‘The Man’ Taylor e il trombonista Wilbur De Paris. Per questo errebì a tempo sostenuto, dalla ritmica spessa e decisa, e insieme distesa, rilassata, Stone scelse tra più di una trentina di versi che aveva buttato giù cercando qualcosa di nuovo, con strofe condite di insinuazioni sessuali nascoste da umorismo nonsense, sufficientemente criptate per poter passare in radio, versi che Joe potesse riuscire a memorizzare facilmente (a volte in studio Lou Willie gli sussurrava nell’orecchio le parole dei brani). Stone rafforzò il backbeat di Kay con battito di mani e usò un’efficace linea di basso per renderlo più ballabile, il solo di sax andò al baritono Frank Haywood Henry mentre lui (Stone), Ertegun e Wexler intonarono gli shout doppianti Joe a ogni chorus.

Atlantic Records thanks djs

Qui come per altre indie si nota come i brani fossero homemade al 100%, dal concepimento al parto, con risultati genuini e appetitosi come il cibo fatto in casa.
Shake schizzò al primo posto della classifica R&B, vi rimase tre settimane e si piazzò anche in quella pop al 22º posto, e forse in quest’ultima avrebbe potuto durare di più se Bill Haley & His Comets non avessero fatto uscire – mentre quella di Big Joe era ancora in classifica – una loro versione annacquata su Decca, che ebbe la meglio per mesi.
Più veloce, più ballabile, con quasi tutti i versi ambigui rimaneggiati, il chorus (I said shake, rattle and roll) ripetuto alla fine di ogni strofa per accentuare (e accentare) la frequenza ritmica e infine, come d’uso nel primo rock ‘n’ roll, con la traslazione del significato afroamericano di “rock” e “roll” (o “rocking” e “rolling”) sui movimenti della danza per l’ammissione alle sempre più numerose trasmissioni radiofoniche indirizzate ai giovanissimi, nonostante quest’ultimi fossero attratti proprio dall’occulta valenza sessuale di quei termini.
Stranamente, la frase ambigua che Haley tenne così com’era è una delle più forti, quella dell’one-eyed cat peepin’ in a seafood store, ma forse la scelta si spiega con il fatto che Haley era cieco da un occhio fin da bambino (a causa di un intervento che gli recise accidentalmente il nervo ottico), e quindi dotato di eventuale “scusante” oltre che ben motivato.
Invece Elvis Presley, nella sua versione rockabilly pubblicata per RCA nel 1956 (già incisa per Sun, ma rimasta inedita fino ai nostri tempi), mantenne quasi tutti i versi più allusivi, come “make some noise with the pots and pans”, “I’m like the one-eyed cat peepin’ in a seafood store”, e “over the hill, way down underneath”, togliendo solo “way you wear those dresses, the sun comes shinin’ through”, forse perché i primi tre erano comunque fantasiose allegorie non così immediate da cogliere da un orecchio disattento come quello di un genitore o di un dj indaffarati, mentre l’ultimo, anche se meno carnale, s’esprimeva letteralmente.

Quella di Shake fu una sessione memorabile anche perché produsse un altro R&B/rock ‘n’ roll di successo, Well All Right (retro Married Woman, Atlantic 1040, a. 1954, n. 9 della classifica R&B), una specie di seguito di Honey Hush accreditato a Stone, Ertegun, Wexler e alla coppia Charles Singleton e Rose Marie McCoy (su BMI), e con lo stesso carattere “good-time music” di Shake e degli altri brani delle successive sessioni Atlantic del 1955. L’atmosfera è sciolta, Harry Van Walls libero sulla tastiera mentre Connie Kay fa cadere piccole bombe sul canto spavaldo di Turner. Sam ‘The Man’ Taylor fa il solo di sax tenore e il baritono di Haywood Henry salta dentro al momento giusto, prima del finale con due chorus di chiamata e risposta tra Joe e gli altri.
Il mistero attorno al personale della sessione del 28 gennaio 1955 al quartier generale di Atlantic non è risolto, ma le citazioni che attribuiscono gli stessi musicisti chicagoani di TV Mama sono improbabili: il suono è compatibile con quello dei newyorchesi, inoltre il trasferimento a New York dell’intero gruppo non avrebbe avuto senso per mancanza di necessità, ed era passato più di un anno. Il tenorsassofonista Big Al Sears è uno dato possibile in questa sessione che produsse ben tre successi, e sicuramente il pianista Jesse Stone, come abbiamo visto arrangiatore di casa, autore di due di questi, di cui uno è Flip, Flop and Fly (retro Ti-Ri-Lee, Atlantic 1053, a. 1955), il primo dei dischi Atlantic di Turner a essere pensato più per la platea rock ‘n’ roll che R&B, e non a caso ricalcante la struttura (anche nel titolo, con i tre verbi all’infinito) e l’arrangiamento di Shake, Rattle and Roll. La batteria sembra la stessa, quella di Connie Kay, chitarra e piano non si sentono, la catena dei fiati è semplice ed efficace e il piccolo break di sax è gustoso, molto r ‘n’ r, mentre Turner crea un buffo nonsenso con la frase she’s so small she can mumble in a pay phone booth, “mumble” al posto di “mambo”. Il brano non ebbe il forte impatto sociale di Shake, ma arrivò al ragguardevole n. 2 della classifica R&B, e oggi è un classico tra i più ripresi.

Salì invece al 3º posto Hide and Seek (retro di Midnight Cannonball), equivalente del gioco infantile da noi noto come “nascondino”. È più rock ‘n’ roll che R&B, con ancora un breve solo di sax, e citazione nel testo di Lawdy Miss Clawdy, nome di donna ormai entrato nella schiera delle eroine del r ‘n’ r dopo il successo dell’omonimo brano di Lloyd Price nell’estate 1952. Gli autori erano Ethel Byrd e il marito Paul Winley, fratello di Harold, voce di basso dei Clovers, per i quali scrisse Got My Eyes on You (e Smooth Operator per Ruth Brown), e collaboratore di Atlantic prima di lanciare la sua Winley Records nel 1956, in cui i due confezionarono classici del doo-wop per i maggiori gruppi dell’etichetta, i Paragons e i Jesters. Anche Hide and Seek fu ripresa più veloce dai Comets di Bill Haley, cantata dal chitarrista Billy Williamson, e da diversi altri, perfino da J.B. Hutto, irriconoscibile nelle liriche e nel suo stile travolgente.
Il terzo hit di questa sessione fu Morning, Noon and Night (retro The Chicken and the Hawk, Atlantic 1080, a. 1956, 8º posto R&B). Anche qui Stone adotta un titolo di tre parole, stavolta sostantivi, ma evita le dodici battute a favore di una struttura ABCD, con ogni strofa intervallata dal chorus e un frizzante accompagnamento jump blues caratterizzato da ritmica robusta pepata dai riff dei fiati, con piccolo solo di baritono, pianoforte boogie sullo sfondo e chitarra udibile solo con pochissime note.
La sensazione che questi brani siano tutti simili fra loro, soprattutto per chi non è abituato al genere o non fa caso ai dettagli, è dovuta al fatto che sono tutti brevi e con tempi medio-veloci, nati per le nuove piccole orchestre e le piste da ballo, e per le feste private di chi acquistava il disco, ripetente il cliché di successo. Sono tutti singoli d’epoca che, appunto, uscivano come singoli e nel momento in cui oggi li si raccoglie in gruppo vanno per forza a formare un insieme omogeneo, ma in realtà ognuno di loro contiene la sua propria piccola idea concisa, e tutti hanno lasciato tracce preziose raccolte da chi è venuto dopo, come s’evince dall’influenza che hanno avuto sul rock ‘n’ roll e su tutti i musicisti a seguire.

Doc Pomus and Joe Turner
Doc Pomus e Joe Turner

La sessione del 3 nov. 1955 fu sempre a New York, ma al Coastal Recording Studio, ancora con i sessionman di famiglia: Van Walls al piano, Henry al sax baritono, Kay alla batteria, De Paris al trombone, sconosciuti gli altri. In quel periodo Jerry Leiber e Mike Stoller erano agli inizi della loro carriera sulla scena newyorchese, dopo aver avuto successo sulla costa ovest a Los Angeles come giovani autori per artisti R&B e come produttori con la loro etichetta Spark, in particolare per The Robins, che poi saranno The Coasters.
Atco, nuova sussidiaria di Atlantic nelle mani di Herb Abramson, aveva acquistato da Spark la fantastica Smokey Joe’s Café dei Robins, firmata dal duo, per lanciarla sul mercato nazionale e farne un successo, così drizzò le antenne quando Leiber e Stoller mandarono una canzone spensierata, The Chicken and the Hawk (Up Up and Away), innocente storia d’amore alla Disney tra una gallina e un falco ambientata nel cielo blu, con un antagonista rappresentato da “un’aquila dalla testa pelata”. È un jive elastico e irresistibile (con solo di nuovo azzeccato di Haywood Henry), dalla struttura blues, che facilmente si presta a varie reinterpretazioni, dove comunque il nucleo rhythm and blues è ben saldo; scalò la classifica R&B fino al n. 7.
Della stessa sessione è lo scioltissimo uptempo Boogie Woogie Country Girl (retro Corrine, Corrina, Atlantic 1088, a. 1956), agile jump boogie spinto da una ritmica economica ed efficace mentre Van Walls volteggia effervescente sui tasti. Il fatto che abbia una struttura ABCD dove CD è il chorus in ogni strofa favorisce l’orecchiabilità per mezzo della ripetizione cadenzata, e non a caso fu un altro ingresso in classifica. Ha ragione Big Joe a esclamare That’s a good rockin’ band!, prima di approvare con un istintivo Yaaa-hoo!
Uno degli autori era Doc Pomus (Jerome Felder), figura unica nel circuito newyorchese nota agli appassionati di R&B d’annata (adoro la sua Lonely Avenue) e ammiratore di Turner, per il quale scrisse anche le ballate blues Still in Love, uno dei primi successi avuti in Atlantic, e Don’t You Cry, uscite nei singoli del 1952 citati sopra, lenti che avrebbero potuto essere inseriti qui per variare il ritmo, ma così facendo Bear Family non sarebbe stata del tutto in linea con il titolo della serie (“Rocks”). Sulla sedia a rotelle a causa di una poliomielite infantile, Doc era un blues shouter bianco che collaborò alla creazione di molti successi dell’epoca post-Tin Pan Alley, spesso associato a Mort Shuman. L’altro credito di Boogie Woogie Country Girl va a Reginald Ashby, pianista incaricato di scrivere lo spartito e nella cui band c’era il già nominato Wilbur De Paris, veterano del jazz come bandleader e trombonista.

La sessione del 24 febbraio 1956 ai Capitol Studios (151 W 46th Street) presenta una novità. È, infatti, la prima volta che Big è sostenuto da un coro femminile, già in Atlantic: le favolose Cookies, trio vocale di Brooklyn che nel 1956 era composto da Darlene McCrea, Dorothy Jones e Margie Hendrix (o Hendricks) per il background in studio di Ray Charles e non solo (nel ’54, anno di formazione del trio, e fino al ’56, al posto di Hendrix c’era la cugina di Dorothy, Beulah Robertson). McCrea e Hendrix formarono poi The Raelettes nel 1958, con Pat Lyles. (13)
Cambia anche il nome della band di supporto, non più The Blues Kings per ragioni di mercato (le case discografiche in quel periodo inseguivano i teenager, non il popolo del blues), ma un generico All Stars: l’alto-sassofonista Earle Warren, ex dell’orchestra di Basie, di nuovo Sam ‘The Man’ Taylor al tenore, George Barnes e Billy Mure alle chitarre, Ernie Hayes al piano, Lloyd Trotman al contrabbasso, David ‘Panama’ Francis alla batteria e Jimmy Nottingham e Dick Vance alle trombe.
Risale a quest’occasione Corrine Corrina, il cui originale del 1928 uscì per Brunswick da Charlie McCoy e il multistrumentista Bo Chatmon (aka Bo Carter) della nota famiglia musicale mississippiana Chatmon, fratellastro di Charlie Patton e membro di varie band, tra le quali i Mississippi Sheiks. Drive di chitarra ritmica e batteria, pregevoli voci corali e di fiati che si fondono, ‘The Man’ Taylor con un solo all’altezza del grandioso ambiente sonoro e della portentosa voce di Big Joe; arrivò al secondo posto della classifica R&B e al quarantunesimo di quella pop. Joe l’aveva già messa su 78 giri anni prima (Corrine, Corrina / Lonesome Graveyard, Decca 8563, a. 1941) prestando la sua voce alla band di Art Tatum con Joe Thomas, Oscar Moore, Bill Taylor e Yank Porter.

Nella stessa sessione nasce anche il disco Rock a While / Lipstick, Powder and Paint (Atlantic 1100, a. 1956). Il primo titolo arrivò al n. 12 tra gli R&B del momento e fu portato dal cantante Billy Nightingale, che nel 1955 aveva licenziato un singolo Atco registrato a New Orleans (Thank You, Thank You Darling / The Price of Love). Le Cookies si fan sentire nell’intro (troppo pop) e nel chorus, ‘The Man’ esegue il suo solo impeccabile e Turner come sempre avvolge il suo savoir faire attorno alle strofe: è lui, con la sua voce autorevole e matura, il valore persistente, ciò che fa sì che questa musica sia arrivata fin qui, a cinquemila miglia e cinquantasei anni di distanza. L’aspetto pop era aggiunto per traghettare il “vecchio” Turner nella costellazione degli adolescenti bianchi, e comunque rispetto alla banale, sterile porcheria che viene diffusa oggi, e non solo nella cosiddetta musica commerciale, questo è un capolavoro assoluto.
L’altro, l’ultimo di Jesse Stone con titolo “ternario” (sempre non considerando la congiunzione, usata per scorrevolezza), come gli altri suoi brani è vivace e infettivo: Cookies perfette, stessa chitarra ritmica elastica di Corrine Corrina, e break bollente di Taylor al sax. Con liriche tra innocenza e lieve erotismo il brano piacque ai teenager e si piazzò al n. 8, tanto che fu ripreso nel film del 1956 Shake, Rattle & Rock, uno dei primi a base di rock ‘n’ roll a far breccia nel circuito dei drive-in. Il protagonista è un dj e presentatore di uno spettacolo televisivo musicale osteggiato da oppositori della generazione precedente, convinti che tale musica favorisca la ribellione dei giovani. La trama è la solita del conflitto generazionale in una miriade di film e telefilm americani, però la cosa interessante sono le riprese riguardanti Turner e quelle di Fats Domino, che s’esibisce in tre brani con Herbert Hardesty e Walter ‘Papoose’ Nelson ben visibili. Turner nel film fa il lip synch sul brano, ma è un’altra versione, come per Feeling Happy.

Big Joe Turner in "Shake, Rattle & Rock" film
Durante le riprese del film Shake, Rattle & Rock

Nella pellicola la band dietro Joe era quella del tenorsassofonista Walter ‘Choker’ Campbell, che in quel periodo andava in tour con lui, e comprendeva il batterista David ‘Chick’ Booth, il trombonista Melvin Juanzo e il futuro trombettista jazz di Ray Charles, Phil Guilbeau di Lafayette.
Questo magnifico combo (mancano i nomi degli altri), sicuramente in grado di far più di ciò che si sente qua, suonò per Turner anche nella sessione del 13 maggio 1957 che generò Love Roller Coaster (retro A World of Trouble, Atlantic 1146, a. 1957) e I Need a Girl (retro Trouble in Mind, Atlantic 1155, a. 1957), altre due di Doc Pomus e Mort Shuman.
Sono entrambe puro, direi liscio rock ‘n’ roll, con backbeat accentuato e senza altre pretese che il ballo. La prima salì al 12º posto e ha uno spensierato break di chitarra e sax all’unisono occupante due chorus, la seconda pure; la prima presenta un’immagine tipica degli anni 1950, la coppietta sulle montagne russe, la seconda anela all’ideale americano altrettanto caratteristico dell’epoca, come un lavoro da sogno e un’automobile ultimo modello, oltre che soldi in tasca, ma soprattutto, dice il nostro, a fine little girl: sono decisamente rivolte ai giovanissimi travolti dalla tempesta ottimistica degli anni Cinquanta, e dal canto e ritmo portanti di Big Joe.

Inizia con i colpi ben assestati di David ‘Panama’ Francis Teen Age Letter (retro Wee Baby Blues, Atlantic 1167, a. 1957), incisa il 2 ott. 1957 ai Capitol Studios con l’orchestra attribuita a Jesse Stone, e continua con ficcante ritmica rockabilly in cui spicca l’immancabile contrabbassista Lloyd Trotman. (14)
Ertegun e Wexler ai controlli, Mike Stoller nella parallela attività di pianista, ‘The Man’ Taylor al suo posto con il sax tenore. Gli altri erano Allen Hanlon e Mundell Lowe (chit.), e Jerome Richarson (sax-a). Fu scritta da Renald (o Reynaud) Richard, già trombettista di Ray Charles (e coautore di I’ve Got a Woman), e poco dopo casuale scopritore di Lee Dorsey (Richard lo sentì cantare sotto la sua macchina in riparazione all’officina del dj di New Orleans Ernie ‘The Whip’, e lo portò a registrare la sera stessa da Matassa il suo primo singolo, Rock Pretty Baby).
(I’m Gonna) Jump For Joy (retro Blues in the Night, Atlantic 1184, a. 1958) fu prodotta nella sessione del 22 genn. 1958 e riporta all’inizio della storia perché è Roll ‘Em Pete ammodernata. Il piano provvede all’introduzione, forse di Howard Biggs, leader dell’orchestra, e troviamo ancora Barnes e Mure, Trotman e ‘Panama’ Francis; Hilton Jefferson è al sax alto e King Curtis al tenore offre un breve solo incendiario. È inoltre segnalata la (strana) presenza di un’armonica al nome di Mike Chimes: se c’è forse soffia il riff insieme ai fiati, ma è inudibile. Fu l’ultimo salto, appunto, di “300 pounds of joy” Turner nella classifica R&B, al n. 15 per una sola settimana.

In quegli anni Turner era uno degli ultimi della sua generazione a navigare l’hit parade, perché ormai gli altri cantanti jump blues erano fuori dal gioco, con il pubblico coinvolto per i più fotogenici giovani idoli dei teenager bianchi piuttosto che per i blues shouter di mezz’età, ma i tempi stavano cambiando velocemente anche per lui. Il vertice di Atlantic era perplesso sul da farsi, più per rispetto a quello che Big aveva fatto per la crescita dell’etichetta (come Ruth Brown e i Clovers) che per la speranza di una rinnovata possibilità commerciale.
Nel 1960 pubblicarono un secondo album (15) in stile K.C. sound, Big Joe Rides Again, che non andò male e Turner addirittura riuscì a fare un ultimo viaggio nella classifica pop quell’anno con un remake di Honey Hush, ma a quel punto ad Atlantic interessava, sul fronte R&B, il soul urbano più sofisticato e ricco di violini dei Drifters e di Solomon Burke, così come Ben E. King sulla sussidiaria Atco.
Turner ricominciò a vagabondare tra etichette, facendo un paio di singoli per Coral prima di unirsi al vecchio amico e suo ammiratore Bill Haley (Joe non aveva nessun rancore verso Haley per avergli soffiato il potenziale pubblico pop di Shake, Rattle and Roll) rivisitando con il supporto dei Comets alcuni suoi classici in una sessione in Messico nel 1966, per il mercato locale.

A fine anni 1960 anche Stan Lewis di Ronn con base a Shreveport pubblicò una coppia di singoli per gli USA, Bluesway (ABC) fece uscire una raccolta, e sessioni per Blues Time e Kent rivisitarono suoi successi passati. Negli anni 1970/1980 ci furono altri remake, ma anche diverse sessioni (1974/1978) con materiale jazz/blues per Pablo, etichetta di Norman Granz, con grandi musicisti (ad es. Lloyd Glenn, Roy Eldridge, Dizzy Gillespie, Eddie Vinson, Clark Terry, Pee Wee Crayton e tanti altri).
Ricordo anche un album inciso a Parigi nel 1971 per Black & Blue con Milt Buckner, Slam Stewart e Jo Jones, rieditato su CD, e un’ottima collaborazione del 1983 su Muse con i Roomful of Blues (epoca Ronnie Earl) e Dr John ospite, Blues Train, prodotta da Doc Pomus e Bob Porter; nello stesso anno entrò nel Blues Hall of Fame. Durante l’ultimo periodo della sua vita soffrì di poca salute, ma continuò a cantare potentemente fino al 24 novembre 1985, quando morì d’infarto a Inglewood, California.
Una carriera lunga sessant’anni e un corpus discografico immenso, nel 1987 The Boss of the Blues entrò anche nel Rock ‘n’ Roll Hall of Fame.

(Fonti: Bill Dahl, libretto a Big Joe Turner Rocks, BCD 17215 AR, Bear Family, 2011; Soulful Kinda Music; Marc Ryan, note a The Big Three, Big Joe Turner/Joe Houston/L.C. Williams [incisioni Freedom], CDBM 095, The Magnum Music Group, UK, 1992.)


  1. Da Eileen Southern, La musica dei neri americani, Il Saggiatore S.p.A. Milano, 2007, pagg. 386-387.[]
  2. William Henry Joseph Bonaparte Berthloff Smith, detto The Lion per il coraggio dimostrato nella prima guerra mondiale. Insieme a Fats Waller, fu di grande influenza su Count Basie.[]
  3. Il primo sciopero indetto da J. Petrillo contro le etichette discografiche durò dal 1º agosto 1942 all’11 novembre 1944.[]
  4. William M. Moore (1918-1983), altro vitale sassofonista texano, ha il suo Savoy del ’47, We’re Gonna Rock, We’re Gonna Roll, in lizza per il titolo di primo disco rock ‘n’ roll.[]
  5. Dal libretto del disco, v. fonti.[]
  6. Bayou 015, 1950, The Blues Jumped the Rabbit / The Sun Is Shining – Rouge 105, 1949, Wish I Had a Dollar / Fuzzy Wuzzy Honey.[]
  7. Freedom Records fu fondata a Houston nel 1948 da Solomon M. Kahal, sua moglie Gladys e dal genero Henry Gupton. Sebbene l’etichetta visse solo fino al 1952, pubblicò più di cinquanta dischi e un’altra decina con l’affiliata Independent.[]
  8. Il texano Conrad Johnson è stato recentemente omaggiato in un lungometraggio, Thunder Soul, che racconta la sua storia a capo della Kashmere Stage Band di Houston, un ensemble di genuino funky-soul di spessore artistico fuori dal comune per esser nato in ambito scolastico.[]
  9. Big Joe rifarà il brano per Atlantic nel 1956[]
  10. Secondo il libretto del disco, e le parole di Jerry Wexler nel suo libro Rhythm and the Blues, A Life in American Music, la sessione fu da Matassa, mentre secondo altre fonti fu in uno studio radiofonico.[]
  11. “Hi-yo, Silver, away!” era il motto che chiudeva i popolari episodi radiofonici e televisivi di The Lone Ranger (in Italia andati in onda negli anni 1950 come Il cavaliere solitario), rivolto dallo stesso al suo cavallo in fin di scena, al tramonto.[]
  12. Dal libretto del disco, v. fonti.[]
  13. Nel film “Ray” la figura di Margie, interpretata da Regina King, è giustamente ricordata. Margie era leader del gruppo, cantò diversi duetti con Ray (il più noto, Hit the Road, Jack) ed era un’ottima voce solista. Era anche l’amante di Ray e gli diede un figlio, Charles Wayne. Quando nel 1964 fu costretta ad andarsene avviò una carriera solista, ma nel 1973 morì per overdose di eroina. Nel film, quando Ray riceve la notizia sta dando una festa a casa.[]
  14. Lloyd Trotman, oltre a fornire i suoi poderosi rimbalzi a Big Joe, come sessionman all’Atlantic servì molti artisti della casa, tra cui Ray Charles (ad es. in Mess Around, ma non solo) e Ben E. King contribuendo al successo di Stand By Me con la sua linea di basso. Lavorò per molte altre etichette e artisti, fin dall’epoca pre-rock ‘n’ roll con Billie Holiday, Errol Garner, Duke Ellington, per dirne solo alcuni, e in seno a big band come quelle di Lucky Millinder e Cab Calloway; fu inoltre nell’house band dell’Apollo Theater, e girò anche negli altri teatri del chitlin’ circuit accompagnando i grandi nomi dell’epoca.[]
  15. Il primo fu “The Boss of the Blues: Joe Turner Sings Kansas City Jazz”, nel 1956. Atlantic saviamente chiamò Pete Johnson ad accompagnarlo: solo un paio d’anni dopo il pianista non fu più in grado di suonare a causa di un infarto che fermò per sempre la sua attività, scomparendo poi nel 1967.[]
Scritto da Sugarbluz // 13 Settembre 2012
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