Big Mama Thornton in Europe
Uscito su CD nel 2005, circa un anno dopo rispetto a Big Mama Thornton with the Muddy Waters Blues Band, In Europe fu registrato qualche mese prima, il 20 ottobre 1965 ai Wessex Studios di Londra, cogliendo Chris Strachwitz l’occasione durante l’American Folk Blues Festival. La differenza con l’altro Arhoolie è che questo è più formale sia come repertorio che come esecuzione, probabilmente nell’ottica di una presentazione ufficiale al mercato inglese. Meno ruspante e meno improvvisato quindi, ma non di minor intensità o bellezza, anzi, è superiore.
Il line-up è ancora superlativo, vi troviamo infatti Buddy Guy, Eddie Boyd, Fred Below, Jimmy Lee Robinson e in qualche traccia Big Walter Horton e Fred McDowell. A parte l’ospite McDowell, il resto si può considerare, con o senza Horton, la band di Buddy Guy del periodo, tanto come quella di Eddie Boyd.
Thornton qui è più efficace nei lenti, con la prima preziosa conferma della sempiterna Sweet Little Angel. La sua inebriante interpretazione è accompagnata da un grande, espressivo Buddy Guy à la B.B. King, dalla tensione drammatica di Eddie Boyd al piano, dai passi lenti e leggeri di J.L. Robinson e Below.
Mama, chiara, forte e ricca di sfumature, governa le note e le sue calde urla, lanciandole come stelle filanti che rimangono sospese a mezz’aria, continuando a risuonare. Gli howl di Big Mama Thornton sono quelli che Janis Joplin riprese, rendendola tanto famosa. Una differenza sostanziale è che Joplin si sforzava, a Thornton invece uscivano senza fatica, possenti e sinuosi. Basta guardare un suo filmato, o anche solo le foto di questa copertina: se ne stava lì, dritta come una colonna, e il canto le defluiva potente senza sforzo.
Il giovane Buddy Guy era ancora sotto contratto Chess come session man. Sentendo come suonava il blues quando lo faceva in modo tradizionale, non si può biasimare Leonard Chess per non avergli permesso in studio d’essere il chitarrista solista ch’era dal vivo nelle infuocate notti del West Side di Chicago.
Il breve e robusto R&B The Place (Morris/Rutledge) è come una piccola interiezione ritmica in mezzo a due intensi slow, con colpi di Buddy Guy alla Ike Turner e Below come al solito ben tarato, punteggiante le esclamazioni di Big Mama, mentre J.L. Robinson infila groove.
L’altro lento è una delle pietre miliari della sassy mama, Little Red Rooster di Willie Dixon, classico del blues postbellico ma già inciso dalla grande ispiratrice Memphis Minnie nel 1936 con il titolo If You See My Rooster (Please Run Him Home), da cui Dixon sembra aver preso spunto anche melodicamente. A prima ancora, 1933, risale un Red Rooster Blues, di Sonny Scott.
In questa specie di poema omerico Boyd è all’organo in leggero crescendo, facendolo sembrare una preghiera. Se, Memphis Minnie docet, nel Bumble Bee californiano Thornton scongiura il ritorno a casa al più presto del suo bombo preferito, coadiuvata da Muddy Waters che di queste faccende era ghiotto (ne fece una sua versione con Honey Bee), qui cerca disperatamente il suo galletto, perché “non c’è pace nel cortile da quando se n’è andato”, nonostante poco prima dica che ha fatto razzia di tutto quello che lì vi ha trovato.
(If you see my red rooster, please send him back home è la stessa supplica di Robert Johnson in Milkcow’s Calf Blues: “Se vedete la mia mucca, per favore conducetela a casa”).
Rooster è un piccolo campionario di versi di animali, cani, galline, gallo. Mama Thornton, in chiave realistica, imita l’abbaiare del cane dei vicini, come a significare il nervosismo del quartiere, l’ululato del suo segugio nella notte, mentre esorta le “gallinelle” a stare attente, perché il suo galletto è in cerca di prede. Buddy Guy è fondamentale nel percorso della cantante, perché sembra beccare, guardarsi intorno con fare scattante, razzolare nell’aia a testa bassa, tutto questo naturalmente con la chitarra.
L’autobiografica, rabbiosamente amara Unlucky Girl, accreditata a lei e a ‘Champion’ Jack Dupree (l’accoppiata pare strana, ma i due s’incontrarono durante il giro europeo), è caratterizzata dal classico stop-time e dall’armonica di Walter Horton nello sfondo, presente anche nella prima delle due versioni di Hound Dog.
Qui Mama Thornton è nel suo regno suggestivo e non importa se i colleghi sono coperti dalle sue esortazioni. Ad esempio, su quello che avrebbe potuto essere il solo di Horton, dopo avergli dato il via con Ah, play, a cui fa seguire un ululato, esclama: Ah, swing just a little bit… Aaah, shake it, but don’t break it!… Everything’s gonna be allright!… C’mon in baby, let’s have a good time tonight… Aaah, get it, buddy… That’s what I’m talkin’ ‘bout… Yeeeah, make it good to the feet (forse) e Yees man!
È il suo signature song e può farci quel che vuole. Il suo micidiale, perentorio shouting è una minacciosa katana sopra le nostre teste, con una distaccata e allo stesso tempo complice ritmica latina della band, in cui Horton saltella come uno spiritello, dando ariosità al brano.
Nella seconda versione c’è Buddy Guy swingante e tagliente accompagnato da nuove esortazioni di Mama, tra cui le colorite do the messaround e wag your tail, quest’ultima presa dal testo. Risulta ancora una volta irresistibile in entrambi i take, al bivio tra blues e rock (in altre parole, puro R&B), mentre in finale saluta tutti con And bau-au to all of you! Impossibile superare l’Hound Dog di Big Mama Thornton.
I wish that I was an apple, hangin’ from the tree / hang ‘pon that sweet little man, reachin’ out to me. Anche Swing It on Home, dall’anima western swing, è presentata due volte, attribuita come autografa. È ricca della sua persona, ma è pescata nella tradizione folk (Cindy Cindy, la ricordo interpretata da Ricky Nelson benissimo [come tutto quello che ha toccato Nelson, del resto] in un western con Dean Martin).
È una filastrocca aperta a strofe aggiunte o cambiate a piacere (come Shake Sugaree di Elizabeth Cotten, solo che questa non è per bambini), dove la cantante parla in terza persona e il ritornello si conclude fedele all’“originale” con Big Mama / Is gonna marry you someday, e nella cui trama fa entrare il nome di Buddy Guy (He’s gonna marry you someday in questo caso). Nella seconda, poco più lunga versione, è lei a promettere di sposare tutti i presenti, chiamandoli uno a uno: Marry you someday Eddie Boyd e così via con Buddy Guy, Jimmie Lee, Shakey Horton, Below, Fred McDowell, Jim Moore, Big Chris (Chris Strachwitz) e un certo J.B. o J.D., forse il tecnico del suono, raggiungendo così anche lo scopo di annunciarli, in questa rappresentazione viva e circostanziata.
Cambia registro per un’altra segnata come autografa, la meditabonda Your Love Is Where It Ought to Be dall’andamento funebre, lei all’armonica in stile urbano e la band cassa di risonanza alla sua lamentazione, Buddy Guy elegante e impeccabile. Dalla generosa, immensa chanteuse, emozioni che colano come miele.
In Session Blues torna Horton, libero tutto il tempo mentre lei è al canto e alla batteria in stile mississippiano minimalista e secco. Da lì governa tutti quanti, e Boyd, chiamato a intervenire, esce con un piccolo solo guardingo, come preso contropiede. Sembrano divertirsi: è straight Chicago blues rifilato al bronzo su classico andante riflettente il battito della città; è firmato Thornton e, dato anche il titolo, pare improvvisato per l’occasione, esemplificando la sua incondizionata voglia di fare musica e di farla con musicisti come quelli. È formidabile tutta questa energia così ben incanalata, che alla fine esplode in un grido esultante: eccola là, più di 300 pounds of joy.
La guardia non s’abbassa per Down Home Shake Down, Thornton e Horton alle armoniche per un duetto strumentale trasportato su un altro trainante mid-tempo “ventoso”, più impassibile, sofisticato e leggero, tornando Below. La ritmica è a quattro: Jimmie Lee e Below sono sincronizzati, mentre Buddy Guy interseca con il leggerissimo organo di Boyd creando una trama ancor più fitta, ma sempre distinta nelle singole voci.
Nel bel filmato dell’American Folk Blues Festival volume 2 la fa insieme a Horton, J.B. Lenoir, J.L. Hooker e Doctor Isaiah Ross, tutti e cinque all’armonica. È bello vederli, in fila per i turni al microfono, ondeggiare a ritmo ognuno con il proprio stile, Horton disarticolato come una marionetta di quelle con il filo, Hooker plastico e felpato a pavoneggiarsi da rocker.
Altro mondo, altro blues: la voce si fa ombrosa e sgranata, accompagnata dalla chitarra slide di Fred McDowell, risaltante l’eco naturale del suo canto vetroso, ripiegato su se stesso, in pieno downhome. Li immagino seduti accanto a inventare My Heavy Load, con una stupenda Willie Mae rintanata a casa nel rigoglioso stile chitarristico di McDowell. A tratti lui, con il suo bottleneck incantatore, sotto ipnotici fraseggi, sembra agitare granaglia dentro un piatto di metallo, far tintinnare piccoli oggetti vetrosi o, ancora, pare un crotalo che muove il suo sonaglio. L’atmosfera estraniante e ominosa richiama una notte pesta senza bagliori, né scampo, dove una penosa idea suicida, non chiaramente espressa, è l’unica speranza di lasciar giù il pesante fardello, sulla strada solitaria.
Segue il confidenziale, familiare stomp School Boy, ancora in catartica simbiosi. McDowell, in crescendo, è un vortice conturbante di note e ritmo, trascinante con forza gravitazionale tutto ciò che ha intorno, compresa Big Mama che sembra cadere in trance e prendere il volo.
Per ultimo i due si concentrano sul cupo e minaccioso Chauffeur Blues di Memphis Minnie, in cui Mama rimette fuori la sua grinta. È un altro double entendre, stavolta automobilistico e covante propositi di vendetta: tipico quadretto da blues prebellico.
Con il nervosismo elettrico (Buddy Guy) e la magistrale compiutezza ritmica (Below, è tutto nelle sue mani e nei suoi piedi, lui parla attraverso la batteria con un’oratoria che non lascia dubbi) di I Need Your Love si torna a tutto vapore sul lago Michigan, dove lei riprende l’armonica.
Nella seconda e ultima parte della sua carriera, circa da questo periodo in poi (qui ha sui quarant’anni), Big Mama Thornton s’accosterà al blues di Chicago sempre più, stimolata dalle esperienze con i musicisti della città e dalle nuove possibilità che le si aprirono con il blues revival. Anche Good Time in London, come Session Blues, pare nata all’occasione essendo una dedica-saluto alla città che l’ha ospitata, in cui lei dovrebbe essere alla batteria.
Chiude una chiacchierata di un quarto d’ora con Chris Strachwitz ripercorrente la sua carriera, da cui ho tratto parte delle notizie contenute nella recensione di Big Mama Thornton with the MWB, e dove ho realizzato che “Plumber” Davis, nome che ho visto più di una volta nella discografia Modern come accompagnatore, è Pluma Davis, trombonista, bandleader e autore sulla scena texana dei tempi in cui Big Mama stava a Houston. Lui e i suoi Houserockers sostituirono la precedente band con la quale lei s’esibiva all’Eldorado Ballroom di Houston, dove la sentì Don Robey.
Un disco di blues schietto e di prima qualità dove ci si può lasciar trasportare da una twister & shouter impareggiabile, rimasta senza lavoro per molto tempo quando le sarebbe bastato poco, come racconta lei stessa a fine intervista: “(…) Just let me sit down, take my time, put some good background behind, and let me the show to work, that’s all I want”.
Ascolta la versione originale di Hound Dog (#1612) di Big Mama Thornton, registrata a Los Angeles il 13 Agosto 1952 con alcuni componenti del combo di Johnny Otis: il chitarrista Pete Lewis, il bassista Albert Winston, Otis alla batteria
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