Black & Blue Festival, Varese 22.7.2012

Mason Casey & Jaime Dolce / Mz Dee & Pugno Large Band

La serata conclusiva del Black & Blue Festival, alla fine di una programmazione cominciata il 5 luglio, ha proposto due set molto differenti fra loro.
Mason Casey e Jaime Dolce sono due autonomi rappresentanti del rock/blues di New York, ma qui si sono presentati come duo. Il primo è cresciuto musicalmente negli anni 1990 nello stesso ambiente di Popa Chubby, con il quale ha registrato i suoi primi tre dischi e, anche se non conosco a fondo i due personaggi, ho subito pensato che l’armonica di Casey come carattere può essere paragonata alla chitarra di Chubby.
Il termine “muscolare” usato nel volantino è appropriato, anche se là è in senso positivo, o forse neutro. Per me invece è un peccato che il muscolo sia appunto del genere di Chubby, e che quindi con l’arte del blues abbia poco in comune al di là del materiale dal quale pesca (lo stesso che hanno in eredità tutti i musicisti americani) o del richiamo alle grandi personalità del passato a cui sembra ispirarsi, più come approccio “viscerale” che come lezione musicale (da ciò che ho sentito quella sera, direi John Lee Hooker, Howlin’ Wolf, Hound Dog Taylor).
Jaime Scott Dolce è un italoamericano di Brooklyn e l’amicizia con Casey risale a molti anni fa, quando il chitarrista suonava nella sua band e in quella di Sugar Blue, avviando nel frattempo una carriera in proprio nell’area newyorchese e cominciando alla fine degli anni 1990 a esibirsi in molti festival italiani ed europei. È facile identificarlo come un ennesimo emulo di Hendrix e non solo perché usa una riedizione della sua Stratocaster bianca, con pick-up originali del 1969 ed effetto fuzz fatto costruire da un artigiano di Parma, dove ha trovato moglie e casa.
La produzione solista di Dolce è più lontana dal blues di quanto non sia quella di Casey, ma qui ha fatto le veci di accompagnatore, lasciando quindi la conduzione all’armonicista, il quale a un certo punto ha avvertito (o rassicurato) il pubblico: “In fin dei conti siamo a un festival blues”.

Il loro breve set si è svolto su alcuni classici, lasciando poco spazio ai brani originali di Casey; ciò non ha evitato sonorità di grana grossa, con volume piuttosto pompato.
Ancor più alieno è il canto da rocker, tanto che non ho capito se è la sua natura, da tipo pieno di nervo qual è, e questa è la sua visione del blues, oppure se l’approccio grintoso è una messinscena o, peggio, se è parte della convinzione diffusa sul fatto che la vecchia musica del diavolo debba aver sembianze banalmente rock per interessare le generazioni odierne. È stato un momento piacevole quando non ha cantato, esibendo la sua bravura all’armonica in uno strumentale dinamico a tempo di rumba, Cuban Groovin’, autografo ma ispirato ai brani con inflessione latina degli armonicisti neri degli anni 1950/1960, anche se Dolce non ha potuto rendere i ritmi cubani.
Per il resto, Boogie Chillen e It Serves Me Right to Suffer di John Lee Hooker hanno perso la magia ipnotica degli originali, diventando terreno fertile e aperto per sperimentazioni. Baby, What You Want Me to Do ha seguito la stessa linea, mentre in Five Long Years Casey ha sfoderato la cromatica per un suono ancor più spesso, che però non ha trasmesso la poesia della composizione di Eddie Boyd, e se poi la paragoniamo a quella di Kim Wilson ci esce come minimo con le ossa rotte. Come ha detto lui stesso ora vive a Los Angeles (sotto l’ala del produttore/autore Jon Tiven), ma per un paio d’anni è vissuto in Olanda: Goin’ Back to Amsterdam è il suo tributo all’esperienza. Soprattutto è il simbolo dei suoi ricordi migliori sulla città e della sua crociata per la legalizzazione della marijuana, anticipato da un piccolo e divertente discorso molto chiaro sulla sua posizione a riguardo.
Casey ha una simpatia istintiva, è attento agli umori del pubblico, con il quale dialoga in modo ironico e spiritoso, e sa usare al meglio fisicità e carisma per catturare l’attenzione dal palcoscenico e dalle copertine dei dischi, ma ama esprimersi in grassetto, non dosando la sua energia vocale e strumentale (quest’ultima per certi versi ricorda quella dei grandi William Clarke e Magic Dick, purtroppo per lui non la stessa classe) eludendo quindi profondità e dettaglio. La chiusura è affidata al tagliente Boogie All Night eseguito con il mordente necessario, ma dal suono sempre troppo voluminoso e aggressivo per i miei gusti.

In un’intervista condotta da Crystal White Mz Dee dichiara d’essere cresciuta in chiesa, avendo avuto mamma e nonna direttrici di coro. Racconta che la madre (Rochon Hemmans, nota nella Bay Area di San Francisco come organista e arrangiatrice di talento) la teneva in grembo mentre suonava l’organo, eseguendo oltre al gospel anche musica classica.
Nata a Oakland, California, come Dejuana R. Logwood e conosciuta nel vicinato con il nome di Little Dee, nella stessa intervista dichiara che agli inizi cantava canzoni popolari con una voce terribile (“tutti mi dicevano di non lasciare il mio lavoro diurno”), riuscendo poi a farsi l’orecchio grazie alle lezioni di pianoforte. Finirà nei quindici anni successivi a collaborare con diverse personalità della scena americana (tra le quali Ruth Brown), e incidendo il suo primo album, Real Woman, Real Soul, nel 2005.
Ho già parlato di Maurizio Pugno e Gio Rossi qualche anno fa dopo averli sentiti al Rootsway in compagnia di Lynwood Slim, avendone una discreta impressione pur se in quella occasione si trattò di una collaborazione estemporanea e non collaudata. In questo caso la situazione è diversa essendo il Pugno Organ Trio, con Alberto Marsico all’organo a coprire anche le parti di basso, il core della band di Mz Dee da un po’ di tempo, almeno per la situazione europea. La versione allargata del gruppo con la sezione fiati, Pugno Large Band, ha inciso con la cantante un disco, Letters from the Bootland, con l’aggiunta di un coro femminile (The Sublimes, nel disco si sente molto che è italiano), produzione in cui Pugno ha assunto anche il ruolo di coautore con Mz Dee di tutti i brani originali (otto su dodici) e di arrangiatore, ruolo quest’ultimo assunto anche da altri componenti la band.

Per annunciare Mz Dee, il gruppo, con una sezione fiati composta da Mirko Pugno, tromba, Cristiano Arcelli, sax alto, Diego Borotti, sax tenore e Andrea Angeloni, trombone, intona uno strumentale à la Bill Doggett, basato sul suono nodoso dell’organo portatile fake Hammond (a doppia tastiera ma senza pedaliera) di Marsico.
Scelta azzeccata proporre il bellissimo Drowning on Dry Land, brano che avevo quasi dimenticato dall’inimitabile Albert King, qui proposto con approccio funky/soul, mentre il jump a tempo medio Sugarman, Sugarman è uno swing originale tratto dal disco, anche questo di buona fattura, ma di concezione piuttosto mainstream.
È preso invece da Al Kooper il superbo lento I Love You More than You’ll Ever Know, ballata in cui Dee comincia a svelare le sue capacità interpretative, la naturale vena gospel/soul e una voce calda e umorale, capace anche di toni bassi, poi l’R&B a tempo moderato Sticky Situation, precisando che le è stato ispirato da esperienze reali (qui mi sembra di sentire l’influenza di Ruth Brown).
Autografo anche In All of My Dreams, un soul lento e melodico di stampo moderno, mentre in Desire Street la sezione fiati ha occasione di mostrarsi in un godibile uptempo ispirato al jazz tradizionale di New Orleans, ancora con approccio pulito e come da spartito, senza accenno a un’interpretazione che sia un po’ meno formale, qualcosa che odori di vissuto e non di scuola.

In un’epoca in cui si sente rock o altro nei festival blues dovrei accontentarmi e pensare che è molto meglio questo piuttosto che suoni sgradevoli o non inerenti a quella musica, ma è proprio nei casi in cui appare una certa attitudine che lamento di più il bisogno di sentire qualcosa che vada oltre il mestiere, oltre a come farebbe l’orchestra della RAI in un gala televisivo, qualcosa che ha a che fare con l’anima di un artista, il cosiddetto surplus.
Going Down Slow di Jimmy Oden è riconoscibile soprattutto dal suo tipico riff e dal testo, per il resto diventa un funky/soul mid-tempo; questo arrangiamento ci può anche stare, ma l’esecuzione è di nuovo patinata, senza spessore. Spazi solistici sono lasciati al chitarrista e all’organista, mentre Stormy Monday invece sembra proposta solo per permettere a Pugno, Marsico e Rossi un po’ di show.
Molto interessante A Mind to Give It Up, che non mi sembra d’aver sentito altrove; se è un originale è molto buono, sia dal punto di vista testuale che musicale. Pugno è un bravo chitarrista, ma è un po’ asettico e da Ronnie Earl ha preso abbastanza, purtroppo non la capacità di rilasciare emozioni.

Keep Your Girlfriends Away from Me è un altro piacevole swing tratto dal disco, in stile Route 66 (ad es., l’elenco dei nomi delle girlfriend al posto delle città), buon terreno per l’organo di Marsico, mentre sento di nuovo I’d Rather Go Blind di Etta James in una versione troppo allungata. Sembra che le cantanti moderne non ne possano fare a meno (il nucleo originale attira a essere sviluppato) e sentano l’esigenza di sfruttarla al massimo anche su disco, tirandola, dimenticando che qui il rendimento non ha a che vedere con la durata.
La versione originale di Etta, rilasciata negli studi di Muscle Shoals, dura poco più di due minuti e mezzo; vero è che come singolo all’epoca doveva esser così per motivi discografici, eppure è molto più forte di quelle di oggi che durano il doppio o il triplo: condensa l’idea, non la tiene lunga e arriva molto di più. Rimane un bellissimo brano, ben fatto anche qui, ma solo se non si conosce l’originale, perché la concisione, se non manca d’efficacia comunicativa, è ancora un gran talento.
Nothing but the Radio On è un blues/funky/soul autografo, qua uno dei brani meglio concepiti e riusciti, carico e divertente, mentre la chiusura è affidata a That’s the Way God Planned It di Billy Preston, canzone che soddisfa il bisogno gospel di Mz Dee, con accelerata finale.
E forse Dio o chi per lui non ha previsto la nostra fine quella sera, dato che sull’autostrada del ritorno, alle due di notte, abbiamo evitato un incidente che avrebbe potuto andare a finire molto male. Ho visto e capito poco, nel buio: ricordo solo un camion fermo in mezzo alla corsia di marcia, i fari rossi suoi e di una macchina lì vicino che sono diventati di colpo vicinissimi nonostante la nostra lunghissima frenata, un uomo in piedi con in mano un tubo fosforescente, e uno sbandamento dovuto a della ghiaia sull’asfalto. Mentre evitavamo l’impatto trovando via libera nella corsia destra, c’è stato un ulteriore spavento quando sulla macchina è piovuta una fitta sassaiola da non so dove, forse tirata su da noi o da un’altra macchina. That’s the way it is!

Confermo l’impressione su Maurizio Pugno leggibile nell’altro articolo, devo però marcare ancora la mancanza di un approccio old school a favore di un suono aggiornato, cioè un modello imitativo di musicisti bianchi americani contemporanei che hanno sviluppato un proprio linguaggio partendo però direttamente dalla matrice. Sembra che i punti di riferimento siano solo nei dischi degli anni 1980/1990.
E non si può dire che Gio Rossi non sia un buon batterista, però non è un batterista dalla sensibilità blues, così come Marsico non è un pianista blues, ma entrambi potrebbero diventarlo se volessero. Per quanto riguarda i fiati il discorso è ancora più accentuato. Capisco la difficoltà di trovare buoni sassofoni, tromboni e trombe di ambito southern soul o R&B tradizionale (proprio perché manca la scuola, la cultura), e allora dove li si pesca? Anche loro tra i jazzisti, che poi quasi sempre in Italia jazz significa musica formale per piccole orchestre.
Chiaro è che per “scuola” intendo una cultura diffusa che spinga coloro che vogliano avvicinarsi in modo pertinente al blues a farsi le proprie ricerche e lezioni nell’immensa eredità che gli afroamericani hanno lasciato, quando non sia possibile anche studiare direttamente in USA dai pochi maestri rimasti e suonare con loro. E qualora si suonasse a fianco di uno o più grandi, che sia per caso o merito, bisognerebbe ritenerla sempre come una lezione primaria, non come punto di arrivo. Il problema è anche che molti suonatori di “blues” nostrani si mettono in testa di viverci con la musica e allora fanno i turnisti, invece di studiare e applicarsi alla materia a occhi bendati e orecchie aperte, con il risultato che s’adattano a suonare con chiunque e in svariate situazioni, che solitamente in Italia hanno ben poco a che fare con quella musica.
Non è così che il blues si vive e si suona e non è così che si forma una classe di musicisti blues, di solisti e di accompagnatori, al di là che ci si continui a mantenere o no con un “vero” lavoro, come da sempre hanno fatto i bluesman.

Scritto da Sugarbluz // 1 Agosto 2012
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10 risposte

  1. Gio Rossi ha detto:

    Peccato. per qualche momento ho addirittura pensato di trovarmi di fronte ad un articolo ben fatto. Critiche, appunti, analisi. Come succede sempre all’estero. Invece purtroppo, questo giornalista decide di stabilire cosa è blues e cosa non lo è, che tipo di musicisti siamo e cosa potremmo diventare e addirittura come dovremmo comportarci per essere dei veri bluesman, e non dei prezzolati turnisti colpevoli oltretutto di saper suonare del jazz.
    Discorsi così, it Italia, ne sento da sempre. Mai invece all’estero nè negli Usa dove i bluesman, quelli veri, con i quali da collaboriamo da 20 anni, non si sono mai sognati di spartire le acque e stabilire il bene o il male. Alberto, considerato tra i maggiori organisti del pianeta proprio nell’ambito blues (ma non solo) in Italia diventa “uno che non è un pianista blues (comunque sarebbe un organista) ma che potrebbe eventualmente diventarlo. Stessa cosa per me, osannato dai bluesman di mezzo mondo ma che stranamente a Varese sono solo un jazzista che purtroppo tenta di suonare del blues. Maurizio invece, che è probabilmente una delle persone più colte e preparate in fatto di “old school”, pare non abbia neppure un suo stile personale e che si rifaccia ad un non meglio specificato chitarrismo bianco anni 80/90. Mah…
    Riassumendo, le critiche, le analisi, i commenti ci stanno sempre e sono sempre ben accetti. Ma che un giornalista debba stabilire cosa siamo e come dovremmo vivere la musica questo è decisamente inaccettabile. Suggerisco un pò di umiltà e limitarsi magari a fare il proprio mestiere, che è quello di raccontare cià che si è visto o sentito senza stabilire le regole del mestiere altrui, in questo caso quello di musicista. Così, mentre noi ci occuperemo di diventare bravi musicisti (magari blues) l’autore di questo articolo diventerà un bravo giornalista. Ancora non lo è ma..

    Gio Rossi

  2. Sugarbluz ha detto:

    Peccato. Purtroppo, nel “mio” concetto di musicista rientrano anche il talento di comunicare emozioni e l’umiltà – quell’umiltà che lei non sfiora neppure (“[io sono] osannato dai bluesman di mezzo mondo”!?). In ultimo luogo la tecnica. Il possesso o no di quest’ultima non m’importa granché, mentre la mancanza delle altre due è confermata, una durante il concerto e l’altra con il tono di questo commento – probabilmente sono strettamente connesse.
    Continuando a parafrasare, discorsi e atteggiamenti come il suo ne sento da sempre: è il più grande difetto dei musicisti italiani darsi delle arie fuori luogo, con spiacevoli effetti collaterali. Ridicolo davvero. Questo atteggiamento ingloba anche la raccomandazione, il nepotismo, l’esibizionismo, l’insulso “io ho suonato con”, l’assurda guerra tra poveri.
    Basta che qualcuno ascolti una decina di dischi di blues e vada sul palco un paio di volte che già si sente chissà chi: si sente un bluesman. Figuriamoci lei, Rossi (si usa dar del tu qui, ma in questo frangente temo che verrebbe preso come mancanza di rispetto), che ha avuto la fortuna di suonare con musicisti esteri egregi in visita. Basta poco e sente d’essere superiore a tutto e tutti, perdendo il senso della realtà allo stesso modo del principiante.
    Cosa questa che non esiste negli Stati Uniti: né quando capita di conoscere qualche bluesman, maggiore o minore che sia, né con chi ha a che fare con la diffusione di questa cultura.
    Non è abbastanza “cool” essere modesti e sentirsi gratificati, non quanto il ritenersi offesi o incompresi.

    Il “potrebbero diventarlo” è stato letto con ottica distorta. Non era “dovrebbero”, ma semplicemente la portata di una possibilità (o un’evoluzione…) che può o non può esser cercata o colta. Beato regno del fraintendimento! E non parlo solo di “generi” o di stile, ma di comunicatività, di anima ed “entità” di un artista. A mio parere, ovviamente, non secondo coloro che liquidano i concerti con poche parole di maniera, come si legge *ovunque*, anche dall’estero caro Rossi, si chiama politically correct: giusto due righe neutre per non creare dissapori e che in definitiva non dicono niente, o forse è così perché non ne sanno davvero niente; ai mediocri va bene.
    Anche all’estero tra gli scribacchini regna l’incompetenza e il buonismo; se vuole mi può accusare della prima cosa, dalla seconda sono ben lontana, così come non esercito il ruffianesimo.
    Mi dispiace Rossi, ma deve sapere che mi rendo conto direttamente dal palco del sentimento, della sensibilità, della cultura e della preparazione del musicista senza bisogno di conoscere cos’ha fatto, dov’è nato, con chi ha suonato (sempre tenendo presente: sul suolo italico), eccetera.
    Che poi prima di scriverne io m’informi sui dati bio-anagrafico/musicali, se già non li conosco, questo è altro discorso. Non conosco vita e “miracoli” di voi ma anche fosse non cambierebbe la sostanza della mia impressione, e dico impressione non a caso. Ho anche preso il disco dopo il concerto, non l’avrei fatto se non fossi stata interessata ad approfondire.
    Peccato che si lasci prendere dalla rabbia per non essere abbastanza apprezzato. Ed è un peccato che nella critica legga un’intenzione negativa, che oltretutto in finale è estesa a un discorso più generale: è triste che non comprenda o non accetti le differenze o la buona fede che ci sono dietro, ma alla fine è affar suo. Forse dovrebbe prendere esempio da uno dei ragazzi organizzatori del festival, il quale, nonostante le critiche che ho fatto al concerto di P. Staten, ha reagito in modo positivo e costruttivo.

    Non sono giornalista e non aspiro a diventarlo. Sono un’appassionata di blues senza titoli accademici e gestisco da sola questo sito sia dal punto di vista amministrativo che editoriale, non pubblico per fare favori a nessuno e ancora meno, e ancora meno, per castrare qualcuno, e non percepisco un centesimo, anzi ne spendo diversi per mantenere questo “vizietto”, così come farà lei con la sua passione, volendo augurarle che almeno in parte sia ancora così, una passione, non solo un mestiere. Quindi, se mi permette, nel mio spazio libero da vincoli scrivo ciò che voglio e penso e lo farò finché vorrò o potrò, e con la stessa volontà e libertà le ho permesso di fare altrettanto nello stesso spazio.

    Per finire, io credo che i batteristi “osannati dai bluesman di mezzo mondo” e dai veri appassionati abbiano altri nomi, oppure io allora faccio parte dell’altro mezzo mondo e mi sta benissimo. Ad esempio quelli di Fred Below, S.P. Leary, Francis Clay, Willie Smith, Al Jackson Jr… Mi fermo, perché l’elenco potrebbe diventare lungo anche includendo bianchi viventi, e immagino – spero – li conosca già.

  3. Alberto marsico ha detto:

    Buongiorno a tutti… Volevo solamente precisare un paio di cose… Le nostre esperienze – italiane o estere che siano – sono servite a formarmi e a capire la mia direzione musicale. Che è una direzione dichiaratamente non legata ad uno stile solamente, ma a quello che il mio cuore e il mio divertimento mi indicano.
    Fin dai tempi dei Kingbees ( trio degli anni 80 in cui suonavo il pianoforte con l’armonicista Sal Bonasoro e il batterista Gianni Chiaretta) sono stato attratto dal Kansas City blues. Era il sound di pianisti come Jay Mc Shann, Count Basie, di sassofonisti come Lester Young e cantanti come Jimmy Rushing che suonavano jazz affondando a piene mani nel blues. O suonavano blues affondando a piene mani nel jazz. O forse non lo avevo capito all’epoca ma era un tutt”uno, un “melting pot”. Quindi ho intuito che non dovevo muovermi “a settori” ma fregarmene delle etichette. Ho ascoltato Parker,Johnny Hodges, Duke Ellington, Dinah Washington, Louis Jordan ed eano tutti musicisti “a cavallo” tra i due mondi, che a questo punto si univano sempre di più.
    Le critiche sono ben accette, e fra l’altro apprezzo il fatto che le sue sono opinioni circostanziate e motivate, però quando lei mi dice che non sono ma potrei diventare un pianista di blues non coglie quello che è il mio spirito. Io non voglio avere una etichetta appiccicata addosso, voglio suonare la musica che mi piace, che mi fa stare bene, che mi dà felicità. Questo è il mio obbiettivo, non il fatto di essere etichettato come pianista blues o organista jazz o gospel. La felicità vera di un musicista secondo me è suonare le cose che ti divertono.
    Io ho la fortuna di farlo, e se questo avviene sul palco con Mz Dee, con un gruppo jazz ocon un gruppo di amici in cui si suonano i Deep Purple…
    Conosco bene Otis Spann, Pinetop Perkins, Memphis Slim… Ma anche Oscar Peterson, Count Basie e Phineas Newborn, e poi Jon Lord, Brian Auger e Jimmy Smith.
    Da tutti questi personaggi ho attinto a piene mani, rubando e ispirandomi a loro.
    Ma cerco sempre di mantenere la mia identità. Non mi interessa essere etichettato come blues, jazz, rock, gospel… Semplicemente sono un organista.

  4. Maurizio Pugno ha detto:

    Mi scuso per l’intromissione… ma a questo punto è d’obbligo visto che sono stato in qualche modo chiamato in causa…anche solo per il fatto che il progetto porta il mio nome..

    Non mi metto a parlare dei singoli musicisti che collaborano con me..ognuno possiede la propria peculiarità sia musicale che umana e reagisce come LIBERAMENTE crede..
    Io mi sento semplicemente di ringraziarli per condividere con me questi progetti (con Dee non è l’unico), per suonare umilmente le mie canzoni e per contribuire ad arrangiarle…oltre che per l’amicizia che ci lega al di la della musica!

    Le scrivo solamente due brevi considerazioni in merito ad aspetti che mi stanno a cuore e che vanno oltre il concetto “razziale” di genere musicale…

    La prima è estetica… ed è un semplice scambio di opnioni….
    La seconda è di stomaco….

    PRIMA:
    Gentile Sig./ra SugarBluz (mi scuso ma non so il suo nome), io NON sono qui per autoreferenze di merito o cose di questo tipo, capisco benissimo e rispetto TOTALMENTE le sue critiche in merito alle cose che scrivo o che arrangio (quasi tutto quello che ha sentito viene dalla mia “penna”, la stessa “A mind To Give It Up” scritta insieme a Sugar Ray Norcia)…
    Capisco le sue reticenze in merito alle esecuzioni che non le hanno trasmesso emozioni (guardi che lo sto dicendo con il cuore!)…e le rispetto profondamente in quanto
    1. provengono da un essere umano che è posizionato davanti a me (che provo a comunicare delle emozioni), in modalità assolutamente LIBERA di percepire emozioni diverse da quelle percepite dall’essere umano posizionato a 1 metro da lui/lei ma alla stessa distanza da me;
    2. (relazionandola a me medesimo) vengono da due punti di vista totalmente opposti… lei parla di Blues… io di Musica…

    In merito al secondo punto….
    Per me parlare di Blues o di Musica è come parlare di Cinesi, Nigeriani, Norvegesi o di razza umana…..
    Preferisco continuare a pensare che esistono Culture singole, colori della pelle, condizioni ambientali e religiose diverse, geograficamente lontane, le rispetto le studio ma poi amo vederle mescolate ed interagenti…
    Non ci posso far niente…sono un romantico amante del polpettone;
    so di averci messo del parmigiano grattato, del pane, una noce moscata, del latte, del sale e due foglie di prezzemolo….ma poi lo amo come polpettone!

    La Musica dovrebbe funzionare da volano per tutto ciò….

    Ellington lo aveva capito…disse: “Non esiste Blues, Jazz, Rock ecc..queste cose le utilizzate voi storici per limiti orizzontali e per convenzione; esistono solamente la MUSICA CLASSICA e LA MUSICA LEGGERA…all’interno di queste due categorie esiste LA BUONA MUSICA e LA CATTIVA MUSICA!”
    Stop.

    Detto ciò, ci sta in pieno Tutta la sua critica e la libertà con cui lo fa…e approvo in pieno quando lei (riassumo il concetto) definisce NON BLUES il mio/nostro progetto..
    Infatti NON è un progetto tipicamente Blues, si appoggia li…ma poi non so cosa è… e amo non saperlo!
    Quando scrivo, sento che arriva ma non so più da dove parte… non posso a quel punto domandarmi se “In all Of My Dreams” proviene da Al Green, dalla donna con cui sto attualmente, dal fatto che ho ballato da ragazzo con gli Earth Wind & Fire o amato i Deep Purple… o da tutte queste cose messe insieme…che cazzo di limiti mi porrei…
    E’ come pisciare TUTTO il contenuto della vescica in diverse provette a seconda della bevanda liquida bevuta in precedenza….solo la mira sarebbe elemento troppo “tecnico”…

    Io mi affaccio la mattina e vedo un palazzo del 1200, un Bar che fa cappuccini mediocri, e l’unico delta che conosco è il secchio del barista che lava l’uscio…
    Ho studiato il BLUES a fondo, con meticolosità e rispetto, l’ho suonato per 20 anni…non quello degli anni 80/90…Ronnie Earl!?… ODIO il concetto di Guitar-Hero,..e il mio lavoro lo testimonia.

    Ho studiato Otis Rush, Magic Sam, Tiny Grimes..allo stesso modo con cui ho studiato George Harrison ed Amos Garret, allo stesso modo con cui ho amato Grant Green e Ritchie Blackmore allo stesso modo con cui ho studiato Jimmie Vaughan e Alex Schultz (questi si… gli unici chitarristi “moderni” che mi hanno influenzato).

    Continuo però a rispettare la sua opinione… lei vuole il blues…e noi non rispettiamo il suo cliché.. ci sta..anzi ben venga la sua critica…

    Ma mia arrabbio SOLO per due motivi….e qui vendo alla questione “Di STOMACO”

    IL PRIMO:
    Ripeto la libertà di opinione è lecita ma quando LEI si spericola nel sottolineare e/o giudicare gli aspetti tecnici….mhmm….terreno pericoloso.. non sta solamente parlando di linguaggio giusto o sbagliato.. esempio:
    LEI SCRIVE:
    “…Per quanto riguarda i fiati il discorso è ancora più accentuato. Capisco la difficoltà di trovare buoni sassofoni, tromboni e trombe di ambito southern soul o R&B tradizionale (proprio perché manca la scuola, la cultura), e allora dove li si pesca? Anche loro tra i jazzisti, che poi quasi sempre in Italia jazz significa musica formale per piccole orchestre…”
    sta parlando di fiati alcuni dei quali suonavano con SOLOMON BURKE…attenzione…penso che se li ha scelti è perché erano se non altro al DENTRO di tale circo stilistico…o no!?
    Ripeto qui entra nel ambito tecnico… e qui ESIGO competenza… il Southern Blues/Soul a cui si riferisce poco ci azzecca con gli arrangiamenti e le canzoni da me pensate e scritte..
    E’ come se sopra James Brown mettessimo un arrangiamento alla Memphis Horns, o sopra Otis Redding un arrangiamento alla Tower of Power…(anche se le confesso che dal MIO punto di vista potrebbero essere degli esperimenti interessanti… 

    Ma mi arrabbio DI PIU’ quando pretende da me/noi che il BLUES sia nel nostro stile di vita…qui mi arrabbio….
    QUANDO LEI DICE
    “…Il problema è anche che molti suonatori di “blues” nostrani si mettono in testa di viverci con la musica e allora fanno i turnisti, invece di studiare e applicarsi alla materia a occhi bendati e orecchie aperte, con il risultato che s’adattano a suonare con chiunque e in svariate situazioni, che solitamente in Italia hanno ben poco a che fare con quella musica.
    Non è così che il blues si vive e si suona e non è così che si forma una classe di musicisti blues, di solisti e di accompagnatori, al di là che ci si continui a mantenere con un vero lavoro, come da sempre hanno fatto i bluesman.”
    O ancora…
    “… così come farà lei con la sua passione, volendole augurarle che almeno in parte sia ancora così, una passione, non solo un mestiere.”…

    ..a parte l’ortografia, PER NOI E’ UN MESTIERE PER DIOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!!!!!
    Noi dobbiamo mantenere dei figli e pagare le bollette con QUESTO… altro che cazzate romantiche e stilistiche!
    FARE UN’ALTRO LAVORO?! Ma che cazzo sta dicendo?

    Anche se ci infiliamo nel ginepraio del “That’s The Blues, Baby!”…le dico solamente che Muddy Waters, faceva un’altro lavoro prima della FAMA..poi era un MUSICISTA…Ha lottato per cambiare la sua condizione iniziale e sociale…una volta riuscitoci l’ha fatto diventare il suo “business” come lo chiamava LUI!….smettiamola con queste stronzate tipo “Prima Catechesi sull’origine diavolo!”….Lo sforzo dell’umanità deve essere quello di tirare fuori le persone dal disagio e non ficcarcele perché cosi deve essere il blues… vada a parlare con BUDDY GUY… poi vede come reagisce…
    Ho visto con i miei occhi CLARENCE “GATEMOUTH” BROWN (Pistoia Blues 1988) tirare un paio di stivali ad un noto giornalista italiano alla domanda :
    “…lei che è un Bluesman…”
    Lui l’ha interrotto tirandogli dietro dei pesanti stivali TEXANI….”BLUESMAN!? BASTA!!!!!!!!!!! IO SONO UN MUSICISTA!!! La dovete smettere !!!…ecc. ecc…”

    Quindi… di che cosa stiamo parlando?

    La mia carriera musicale non va neppure menzionata, non esiste… lo so da solo… io non sono un chitarrista bravo…. mi reputo un umile artigiano della musica con una forte amore per il Blues e per TUTTA la musica nera e roots americana…
    La mia discoteca testimonia la mia PASSIONE… la mia chitarra però è il mio datore di lavoro!

    Mi eclisso di-nuovo scusandomi con tutti e con lei che è LIBERO/A di esprimere le sue opinioni.

    Però… quando si scrive..occhio!.. a volte rovinate il LAVORO dei LAVORATORI (anche se di artisti si tratta) solo per il gusto di far notare di essere eruditi..
    Questo SI che è tipico del Blues Italiano.. ma è anche tipico del potere senza potere nel costringere alla massoneria artistica gente che ha TALENTO..
    Io non ho il Blues la mattina quando mi alzo
    Quando mi alzo mi girano semplicemente i coglioni..fino al caffè (Tipico dell’uomo medio dell’Italia centrale..poco biblicamente attinente al dizionario del Manuale del Blueman del Mississippi…)

    Con rispetto
    Maurizo Pugno

  5. Sugarbluz ha detto:

    @Marsico: D’accordo su tutta la linea, è quello che dico io in altre parole.
    Proprio per questo, data la penuria di batteristi e organisti/pianisti nell’ambito blues, sarebbe bello vederne qualcuno impegnato e coinvolto più direttamente in quell’idioma. Non sto dicendo che Marsico dovrebbe suonare come pare a me – mi pare ovvio che non si tratta di questo – sto solo dicendo che la mia speranza sarebbe quella di sentire più piano blues (e posso aggiungere batteria blues) fatto da gente che proviene da lì e non dal pianobar, ad esempio, o dal Conservatorio. Di gente che suona Deep Purple ne abbiamo a volontà come di chitarristi che provano a suonare Hendrix – sarà anche divertente per chi suona, ma lo è meno per chi ascolta glielo assicuro – e abbiamo a volontà musicisti diciamo “colti” assoldati al brutto jazz moderno. Non voglio mettere nessuna etichetta (anche perché non saprei proprio dove mettervi, nel caso…), ma un bluesman è un bluesman e anche quando canta Quel mazzolin di fiori fa blues. Punto.

    @Pugno: Mette molta carne al fuoco: non è il caso addentrarsi nel suo personale caos. Quando torno a casa magari risponderò meglio, ma non credo perché non ho molto da aggiungere; il suo è un “discorso” personale molto, molto confuso e non c’è granché da ribattere. Per il resto, se avesse letto qualche altro mio articolo – e non solo quelli che parlano di lei – avrebbe potuto e dovuto, e sicuramente voluto, risparmiarsi quelle cose che dice riguardo al mio pensiero sulla musica. Se proprio sente il bisogno di straparlare, parli di quello che pensa lei e non di quello che penso o dovrei pensare io. Qualche precisazione:

    1) Anche Zucchero ha suonato con Solomon Burke, con Miles Davis, eccetera, ma s’è trattato di marketing, non di arte.
    2) Ho apprezzato le cose con Dufresne e Norcia e le doti di arrangiatore e autore, e ho detto che A Mind To Give It Up è un bel brano. Norcia mi piace molto come cantante e armonicista.
    3) Non ho mai detto che suona come un guitar-hero. E non ho neanche mai detto che Ronnie Earl è un guitar-hero, o almeno non lo è nel modo che non mi interessa.
    4) Anche il discorso dei fiati non l’ha capito.
    5) Conoscevo già l’episodio di Clarence Gatemouth Brown: personalmente non mi sarei mai rivolta a lui in quel modo, ma certo non perché “blues” è offensivo.
    6) “Volendole” è un refuso con due battute in più pensando alla parola successiva, che prevedeva il “le”, dovuto anche al riflesso e alla velocità perché si stava scaricando la batteria. Conosco l’ortografia. Non glielo avrei mai detto ma dato che fa il furbo le faccio presente che è un grave errore ortografico mettere l’apostrofo tra “un” e “altro”, e avendolo fatto più di una volta il suo non è un refuso. Per non parlare dell’infantile profusione di puntini di sospensione… e di tutto il resto.

  6. maurizio pugno ha detto:

    ..la prego di non replicare più…almeno a me…
    a questo punto io non ho più NULLA da aggiunggere..e la discussione sta diventando veramente noiosa e poco interessante…a tratti acida…
    Io non cerco pubblicità..quindi MI IGNORI!
    Comunque, sono arrivato qui non perchè cercavo il mio nome ma semplicemente perchè lei lo ha arbitrariamente taggato…
    grazie
    distinti saluti
    maurizio pugno
    (a lettere minuscole per vezzo poetico!)

  7. Gio Rossi ha detto:

    Ah ma che caratterino ! 🙂 massì, in fondo hai ragione. Uno non dovrebbe mai scrivere cose tipo “tutti mi osannano”…

    riassumendo :

    1)non sono un batterista blues
    2)non sono umile anzi me la tiro
    3)sono un uomo in preda alla rabbia
    4)varie e variopinte

    Oh, finalmente qualcuna che mi capisce. Senti, vuoi sposarmi ?

    🙂 dai, complimenti il magazine. Mi sembra anche ben fatto.

    Gio

  8. Sugarbluz ha detto:

    @Pugno. Si tratta di organizzazione, non di arbitrio. Tra le tante cose che facebook rovina c’è il lessico: l’uso del “tag” in un blog non ha lo stesso costume che ha sull’insulso fb. I tag identificano gli argomenti di un articolo e servono per gli utenti che li cercano, in parole povere formano un archivio di argomenti.
    Non ho nessun problema a togliere il suo ininfluente nome dal mio archivio: a me causerà qualche errore 404, ma passerà, mentre i motori non lo indicizzeranno più come nome/tag, però lo stesso il nome sarà indicizzato in altro modo essendo in un articolo che è indicizzato.

    Se vuole tolgo anche tutte le foto sul sito che la ritraggono da solo.

    È un sollievo sapere che non abbiamo niente da aggiungere. La piega storta l’ha data lei con il suo sfogo acido da maestrino, ma soprattutto è andato di parecchio fuori, a tratti alzando pure la voce (dovrebbe sapere che nel commentario web il maiuscolo equivale a urlare). La cattiva pubblicità se la fa da solo. Le teste calde non portano mai niente di buono.

    EDIT: Il suo nome non appare più nella lista di tag a fine articoli.

  9. J.D.Caracal ha detto:

    “elllamadonna!” come direbbe Renato Pozzetto.

  10. deep ha detto:

    E’ stato emozionante. Quel “la prego di non replicare più” mi ha fatto scendere una lacrima.

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