Bobby Bland – Two Steps from the Blues
La scusa per parlare di Bobby ‘Blue’ Bland è un recente dischetto che al suo sorprendente primo album solista (Duke LP 74, 1961) originariamente con dodici tracce, ne aggiunge altrettante pescate tra le registrazioni effettuate per la stessa etichetta tra il 1955 e il 1960.
Non c’è nessun inedito dato che il suo corpus discografico Duke, prodotto in vent’anni, è stato ripubblicato in tre doppi CD, The Duke Recordings (Vol. 1, I Pity the Fool, Vol. 2, Turn on Your Love Light e vol. 3, That Did It!), ma anche avendo quei volumi vale la pena disporre delle dodici tracce originali a parte per rendersi conto del valore del disco così come si presentò, compresa la bella copertina rappresentante Bland letteralmente a due passi, o a due gradini, dal blues.
Non so se quei due sono la breve distanza dal baratro esistenziale evocato dal blues, oppure una definizione per distanziarlo dalla forma blues in senso musicale, o semplicemente la piccola barriera che lo separa da un’ulteriore sessione in studio, ma certamente il disco era già fondamentale il giorno dopo la sua uscita, mentre oggi si può parlare di pietra miliare sia per la sua qualità che per l’ispirazione donata a più di una generazione, aprendo le porte al southern soul degli anni Sessanta. Dicono bene nel libretto quando parlano di musica la cui qualità resiste nel tempo: questo è il materiale con cui Bland costruisce la sua reputazione, amalgamando blues, soul e gospel così bene da non capire dove inizia uno e finisce l’altro.
Robert Calvin Brooks viene al mondo il 27 gennaio 1930 a Rosemark, Tennessee, sedici miglia a nord di Memphis. Il padre, I.J. Brooks, abbandona presto la famiglia e sua madre, Mary Lee, si risposa quando Robert ha sei anni con Leroy Bridgeforth, noto anche come Leroy Bland, cognome che Robert adotta da adolescente.
Dovendo raccogliere e tagliuzzare cotone, e fare commissioni alla sgranatrice di Barretville dove lavora il patrigno, non frequenta a lungo la scuola e non impara a leggere e scrivere, (1) ma si interessa presto alla musica. Ai tempi pur di emettere suoni usa uno scacciapensieri, non imparando però mai a suonare alcun strumento: una rarità in ambito blues, come il fatto che non abbia composto quasi nulla dei versi che ha cantato. Anche per questi motivi Bland, puro cantante, si identifica più come soulman, ma se lo strumento principe dei protagonisti del soul è la voce, è anche vero che diversi soulman noti come cantanti, dietro le quinte erano multi-strumentisti, compositori, autori, arrangiatori, produttori.
Al sabato il giovane Robert canta per le mance sotto il portico dell’emporio di Barretville le canzoni country che sente alla radio, alla domenica canta con la madre e la nonna nella chiesa battista, e a questo proposito nelle note si legge una sua dichiarazione su quanto l’influenza della chiesa sia stata fondamentale per “sentire certe cose”, mentre nel testo di Guralnick Bland testimonia la vena country che poi nutrirà le sue belle soul ballad:
I used to listen to the radio every morning, to people like Roy Acuff, Lefty Frizzell, Hank Williams and Hank Snow. I think hillbilly has more of a story than people give it credit for. (2)
Vedendo che a Bobby piace tanto cantare e in conto alla sua scarsa propensione allo studio, la madre decide di spostare la famiglia nella prospera Memphis del primo dopoguerra, sapendo che se fossero rimasti in campagna il destino del figlio sarebbe stato nei campi.
A Memphis, troppo impreparato per inserirsi alle superiori e troppo in imbarazzo per riprendere dalle elementari, Bobby abbandona l’idea scolastica preferendo fare il fattorino, avendo due benefici immediati: cominciare a conoscere il suo quartiere e mettere da parte denaro per comprare un’automobile.
Nel 1946 la famiglia si sposta in un appartamento a tre blocchi da Beale Street, e forse in questo periodo uno dei più potenti stimoli gli arriva dal successo di Roy Brown Good Rocking Tonight, che conta una vasta schiera di imitatori in tutta la nazione e dà ufficialmente inizio all’R&B di New Orleans. Bobby comincia a cantare spirituals con gruppi vocali locali e bazzica l’eccitante vita notturna di Beale Street insieme a un gruppetto di amici, tra i quali forse ci sono Junior Parker, Earl Forrest, o altri tra quelli che conosciamo come Beale Streeters, non mancando di esibirsi all’Amateur Night del Palace Theater, dove Rufus Thomas fa le veci di emcee. (3)
La storia insegna che nei Beale Streeters, gruppo non ben definito e del tutto informale (originariamente Blues Boys, di fatto la band di B.B. King), si alternano Johnny Ace, Rosco Gordon, B.B. King, Junior Parker, il batterista Earl (Lacy) Forrest, il sassofonista (Adolph) Billy Duncan, il batterista e cantante Willie Nix. Bland ha affermato che nel primo periodo lui è ai margini, e più che altro ha le funzioni di valletto di Rosco Gordon e autista di B.B. King in quanto l’unico a possedere l’auto, necessaria per raggiungere gli scalcinati juke joint sparsi nelle piccole città del Tennessee (a dire il vero, nel 1949 B.B. King gira con una macchina di WDIA).
Secondo il racconto di Bland, pare che abbia avvicinato B.B. King al Mitchell’s, offrendosi come autista e tuttofare, mentre King ha dichiarato di non ricordare come conobbe Bobby e ha decisamente smentito di averlo adottato come autista, valletto o altro; comunque sia Bobby impara molto stando attorno a B.B., di cui ammira il canto.
La citazione del Mitchell’s (Hotel) non è casuale perché, insieme al Club Handy, fu un luogo cardine per l’R&B di Memphis, il primo per il sostegno ai musicisti, il secondo in quanto “accademia”, come riporta il libro di Charles Farley (v. fonti). Si trovavano in Beale Street ed erano di Ernestine e Andrew ‘Sunbeam’ Mitchell, e i musicisti in erba frequentavano il posto perché alla fine dello show ufficiale (sempre con grandi solisti, ad es. dalle band di Ellington o Basie) c’era la jam session. Arrivavano con gli strumenti ma stavano ad ascoltare, decidendo o no se unirsi in base a quanto si sentivano all’altezza; B.B. King ha dichiarato di aver passato molte notti solo ad ascoltare, e questo rivela qualcosa dell’etica musicale di quegli uomini.
La house band del club era guidata da Bill Harvey, esperto sassofonista portato per l’insegnamento che poi fornirà gli uomini per le band di King, Johnny Ace e Bland, oltre che per le sessioni Duke. Il club era piccolo e le camere erano al piano superiore, i musicisti vivevano lì e la cucina di Ernestine sempre in attività, mentre Harvey istruiva; dozzine di artisti negli anni si formarono, tra i quali Calvin Owens, Phineas Newborn, e Joe Scott, quest’ultimo, come vedremo, fondamentale nello sviluppo di Bland.
Dai Mitchell i Beale Streeters spesso s’esibiscono per “cinque dollari a notte e tutto il chili che potevano mangiare”, (4) e le influenze si manifestano a seconda di chi è il leader quella sera, dallo stile crooner à la Charles Brown e Nat ‘King’ Cole di Johnny Ace a quello shouter alla Wynonie Harris di Rosco Gordon, dal jump blues di B.B. King ispirato da T-Bone Walker, al supporto occasionale a chiunque si trovasse sulla scena. Intanto Bobby aiuta nel ristorante soul food comprato dalla madre con i risparmi, lo Sterling Grill sulla Third Street, quando non lavora come parcheggiatore al Bender’s Garage, dietro il Malco Theater (oggi Orpheum Theater).
È anche grazie ad Ike Turner, assunto giovanissimo da Lester Bihari come talent scout per l’area di Memphis, se B.B. King prima, Rosco Gordon e poi Bland cominciano a registrare per la californiana Modern Records (RPM). Turner produce gli artisti in studi di fortuna e poi manda il registrato ai Bihari, che se approvano acquistano i brani o mettono sotto contratto l’artista, oppure organizza le date e poi Joe Bihari arriva ottimizzando con un solo viaggio più registrazioni.
Nell’estate 1950 Saul e Jules Bihari vengono in città a prendere accordi con l’ancora inesperto Sam Phillips per registrare King e Gordon al suo neonato Memphis Recording Service (Sun Records), ma anche Chess cerca talenti nel sud e chiede a Phillips di mandargli dei master. Così nell’agosto 1951 Phillips invita Bobby a una sessione di Rosco (Gordon a quel punto ha già fuori tre singoli RPM incisi allo studio), sperando di vendere qualcosa ai Bihari o ai Chess. Con Rosco al piano, Billy Duncan e Willie Wilkes ai sax tenori e John Murray Daley alla batteria nascono il successo di Gordon Booted e la prima incisione di Bland, Love You ‘Til the Day I Die, accreditata a Robert Bland ed eseguita in duetto con l’amico; le due escono sul 78 giri Chess 1487 nel dicembre 1951. Quella di Bland passa inosservata, mentre Booted raggiunge il primo posto della classifica R&B nel febbraio 1952 nella versione pubblicata successivamente da Modern/RPM. Phillips infatti manda una versione a Modern e un’altra a Chess: dalla questione nasce un contenzioso, e il rapporto di Phillips con Modern s’interrompe.
I Blues Boys/Beale Streeters appaiono nei primi dischi Modern di B.B. King fino al suo successo nazionale del 1952 Three O’Clock Blues, che porta King via da Memphis per sviluppare la carriera che conosciamo. Nell’occasione di Three O’Clock (sett. 1951) sono presenti Billy Duncan e Richard Sanders ai sax tenore, Johnny Ace al piano, Earl Forrest alla batteria e Richard ‘Tuff’ Green al basso, (5) e la stessa giornata registrano anche Johnny Ace, Rosco Gordon (No More Doggin’ è l’altro hit della sessione) e Bobby Bland, forse anche Ike Turner stesso, tutto in uno stanzone alla YMCA di Memphis su un registratore portatile e un pianoforte verticale scordato: i Bihari, che girano in Cadillac ma non hanno ancora uno studio, per registrare a Memphis usano la YMCA o il salotto di Tuff Green. (6) Le registrazioni di Bland non sono pubblicate, mentre King dopo il successo è costretto dall’agenzia ingaggi a lasciare la band, così il chitarrista la mette nelle mani di Johnny Ace; è qua che, secondo King, Johnny Ace conia il nome The Beale Streeters (mai però usato formalmente) e Bobby ne diventa il cantante dividendo il ruolo con Ace, sempre per ingaggi locali.
La prima sessione prodotta da Turner per Modern seguita da una pubblicazione a nome di Robert Bland è nel novembre 1951 e produce il disco Crying All Night Long / Dry up Baby (Modern 848, 1952) a casa di Tuff Green. (7) La qualità audio è rozza, ma i brani sono interessanti.
Il primo è un lento che comincia a mostrare il suo canto piangente, ancora lontano dalla piena realizzazione (e qualche problema di falsetto nel tentativo di imitare King), bel solo di sax e atmosfera ominosa alla Bob Geddins, il secondo un uptempo tra R&B e rock ‘n’ roll in cui si sente l’influenza di Roy Brown, con il piano di Turner, la batteria e voce in risposta di Earl Forrest e la splendida chitarra di Matt Murphy.
La sessione seguente forse è del dicembre 1951, divisa con Rosco Gordon. La seduta si tiene nello studio di Phillips (non ancora Sun) e fa uscire un disco, Crying / Letter From a Trench in Korea (Chess 1489), di qualità latente. Nella prima la voce è Bland, ma equivale al precedente “Crying”, nell’altra è Gordon, con Willie Sims e Willie Wilkes ai sassofoni, John Murry Daley alla batteria, Gordon al piano.
Torna da Phillips nel gennaio 1952 per la bella, tipicamente memphiana Love My Baby, a metà con Junior Parker, (8) presenti anche Johnny Ace, Matt Murphy e Earl Forrest, ma non è pubblicata (esce nell’87 su un LP Ace). Nell’aprile dello stesso anno c’è la sua (credo) ultima sessione per Joe Bihari, a West Memphis, ancora prodotta da Turner e anche questa tipica del blues cittadino. Escono tre 78 giri Modern, uno a testa per Bland (Drifting from Town to Town / Good Lovin’, Modern 868, 1952), Junior Parker e Ike Turner, quest’ultimo supportato dalla Ben Burton Orchestra. Tra gli accompagnatori si sa di Matt Murphy, L.C. Dranes (batteria), Ben Burton (basso), oltre al piano di Turner. Bland mostra ancora qualche instabilità (intonazione e tempistica), ma il disco è buono, la chitarra soprattutto. I singoli Modern, come quelli Chess, non hanno successo: “He’d better stop singing and buy a plow”, sono parole di Joe Bihari. (9)
Il suo primo contratto (né Bihari né Chess gli fanno un contratto, a quanto pare) Bobby lo firma nel 1952 con la neonata Duke Records di David James Mattis, direttore alla WDIA e dj, e una sessione è organizzata al Sun Studio producente il bel disco I.O.U. Blues / Lovin’ Blues (Duke 105), primo di una lunga e fortunata serie per l’etichetta, forse con gli streeters Billy Duncan, Johnny Ace, George Joyner, Earl Forrest. Sono blues lenti con bel pianoforte, sax malinconico e batteria leggera, Bobby con canto straziante e soulful, pregno di gospel, nel secondo c’è una chitarra jazzy (il sito 706 Union Avenue Sessions segnala B.B. King).
Nello stesso anno il nostro va sotto le armi, servizio che lo terrà lontano da Memphis per ben due anni e mezzo interrompendo l’inizio della sua carriera, ma in una fase ancora senza successi e non nuocendo del tutto dato che quando torna è più maturo e pronto a migliorare.
Intanto Duke è venduta da Mattis al suo collaboratore, Don Robey, losco uomo d’affari di Houston prosperato con le maniere forti, i night-club e i dischi gospel e R&B della sua etichetta Peacock, e durante un congedo in novembre Bobby registra (il sito sopracitato dice alla Sun) tre tracce abbastanza diverse dalle precedenti: sono i suoi primi blues con arrangiamento più orchestrale.
Data la diversità si fanno risalire queste belle incisioni al passaggio definitivo a Don Robey, ma forse lui acquisisce solo i nastri a Houston, e il produttore potrebbe essere ancora Mattis dato che sono accreditati entrambi per le royalty. C’è comunque un cambiamento evidente, Bland affiancato da una favolosa band di Memphis, Johnny Board Orchestra (dei cui componenti qui è segnalato solo Johnny Board, sax tenore), la stessa nei dischi di Johnny Ace che, sempre nel suddetto sito, è indicato all’organo.
Mi sembra però più compatibile che i brani provengano dalla WDIA, non dalla Sun, dato che nel libro di James M. Salem (v. fonti) leggo che Mattis di solito registra Ace in quella sede, dove il produttore ha un Hammond noleggiato per le sessioni gospel. Dato che il periodo di questa sessione è lo stesso in cui Ace incide la sua Cross My Heart dove per la prima volta suona l’organo (“non ne aveva mai toccato uno”), è possibile quindi che sia Ace sullo stesso organo, somigliante nel suono e nell’approccio nell’unico non pubblicato nonostante la sua bellezza, il lento Wise Man’s Blues, con tappeto leggero di Hammond e, ulteriore sorpresa, colpetti di vibrafono.
Gli altri due escono nel 1953 sul 78 giri (Duke 115) Army Blues / No Blow No Show, il primo un grave lowdown blues alla Lowell Fulson, il secondo un jump blues che s’apre in modo caratteristico con i fiati imitanti il fischio del treno, e splendido suono anni Quaranta. (10)
Robey diventa l’unico proprietario di Duke nel 1953 rilevando anche i contratti, e le sessioni dei primi tempi sono sempre a Houston, non so se nella sede del Bronze Peacock Club o nel quartier generale Duke in Lyons Avenue; più avanti avvengono ovunque non ci sia Robey, il perché lo spiega Bland:
Well, it was the sound. It was Robey, really. He was always mixing in, and he didn’t know a damned thing about it. It really pissed me off, man. (11)
Questo non significa che Bland non abbia riconosciuto a Robey i suoi meriti, come la scelta delle canzoni e l’aver creduto nelle sue possibilità, a differenza degli altri discografici. Si può aggiungere che Robey era davvero orgoglioso dei suoi artisti e che, insieme a Evelyn Johnson, creò un consistente circuito live attraverso l’agenzia Buffalo: ne è testimonianza proprio Bland, che tra il 1958 e il 1968 fece più di trecento concerti l’anno. (12)
Nel 1955 Bland termina la leva, passando il periodo finale negli Special Services, ramo intrattenimento dell’esercito, esibendosi con materiale di Nat ‘King’ Cole e Charles Brown. Tornato a casa comincia a far tournée come spalla di Junior Parker – “facevo un po’ di tutto, guidavo, sistemavo il palco, aprivo lo show” – (13) diventato la maggior stella di Duke dopo la scomparsa di Johnny Ace, in un revue denominato Blues Consolidated che durerà diversi anni, tenuto insieme da un pubblico fedele e dai Blue Flames, la band di Parker con sette elementi della Bill Harvey Orchestra in cui figurano alcuni nomi ossatura delle sessioni Duke, come il bassista Little Hamp Simmons e il batterista Sonny Freeman.
Dopo l’esperienza militare si ritrova cresciuto, pronto a sfruttare le sue caratteristiche vocali uniche per timbro e venatura, dal tono di velluto ma aspro all’occorrenza, misurato sul vibrato, flessuoso, intimo, ricco di passione e controllo allo stesso tempo: doti su cui lavorerà parecchio, e con cui riuscirà a creare un ponte diretto con l’ascoltatore trasmettendo vere emozioni.
Dietro a lui c’è Don Robey che gli assegna materiale di qualità e una componente più urbana e sofisticata accoppiandolo con l’orchestra di Harvey, e soprattutto c’è il trombettista e arrangiatore Joe Scott, architetto del suo nuovo stile, tanto che Charles Keil nel 1966 (in The Urban Blues) arriva a dire che Bland è una vera e propria “creazione di Joe Scott”. (14)
Houstoniano di nascita, Scott è leader del gruppo che accompagna Johnny Ace in tour nel 1953/1954, fino alla nefasta sera del Natale 1954 in cui avviene il suicidio involontario del molto promettente cantante/pianista, e sarà la figura principale dietro il successo di Duke nel ruolo di A&R man: mette insieme le band, seleziona i brani, ed è talent scout, arrangiatore, autore, e produttore anche delle sessioni gospel.
Scott passa molto tempo a rifinire il fraseggio e la dizione di Bland (forgiate anche dall’ascolto di Nat ‘King’ Cole, Perry Como e Tony Bennett), consigliandolo sull’approccio alle liriche e ai versi particolari, o riscrivendo gli stessi abbreviandoli (“Non riuscivo a sostenere frasi lunghe”), (15) di modo che arrivi in studio pronto; è sempre Scott ad aiutarlo a superare il “canto piatto” e la tendenza all’accelerazione, canzone per canzone. La maggior parte dei brani li porta Robey (accreditati a suo nome o con lo pseudonimo ‘Deadric Malone’) comprandoli da vari autori. Su testimonianza di un altro allievo di Joe Scott e membro della band, il pianista Teddy Reynolds, “Joe Medwick scrisse le canzoni per Bobby Bland”. Joe Medwick (aka Joe Veasey) era cantante e autore bandmate di Reynolds allo Shady’s Playhouse nel Third Ward, e incise anche come solista. Di solito “Joe canticchiava la melodia che aveva in testa” e Reynolds la eseguiva al piano, mentre Medwick aggiungeva le parole. (16)
Tra le centinaia di canzoni cedute per pochissimo a Don Robey e altri produttori, ci sono Farther on up the Road, I Pity the Fool, Don’t Want No Woman, Call on Me, Yield Not to Temptation, I Just Got to Forget You, Cry Cry Cry, Turn on Your Love Light: nel testo di Govenar, Johnny Copeland ha dichiarato che Medwick vendeva a Robey le canzoni a dieci-quindici dollari l’una. Avrebbe potuto vivere di diritti d’autore dato che i successi furono diversi.
Il cambio atmosferico e la confidenza si sentono già nella prima sessione del 1955, producente quattro fantastici blues di cui solo due pubblicati (Duke 141), il rovente swing It’s My Life Baby, con urletti incitanti di Bobby e insidioso solismo del texano Roy Gaines, il primo chitarrista a caratterizzare i suoi brani Duke, e il retro Time Out, lento dal muro di ottoni avvolgente e falsetto melismatico da brividi. I non pubblicati ai tempi sono Honey Bee, uptempo jump con Gaines protagonista, e Lost Lovers Blues, in cui s’evidenzia ancora il falsetto piangente, la scuola di T-Bone Walker, e la favolosa cornice di fiati, sezione su cui Scott si concentra per i suoi arrangiamenti, sempre al meglio nel sostenere il cantante senza sopraffarlo; è anche dal livello degli esclusi che si capisce quanto la qualità fosse l’ultimo dei problemi.
Adoro le ballate di Bland, ma non c’è niente come i blues del periodo 1955/1957.
Oltre a Bill Harvey, tenorsassofonista, Scott e Gaines, ci sono Pluma Davis al trombone, Connie Mack Booker al piano, Hamp Simmons al basso e Sonny Freeman alla batteria, e pur su base orchestrale sono essenzialmente blues/R&B con suono urbano dall’evidente radice gospel, in cui il lato melodico non è ancora preminente.
Risale forse al 1956 un’altra sessione con i canonici quattro brani, dove ancora solo due sono scelti per un disco (Duke 146), You or None / I Woke up Screaming. Il primo (Paul Clifton) è un lento da crooner romantico piuttosto classico, il secondo (Willie Lee Headen) è un altro bollente jump blues marchiato a fuoco dal nuovo eccellente chitarrista, il diciannovenne Milton Howard Clarence Hollimon, mentre il resto sono come sempre membri della Bill Harvey Orchestra. I non pubblicati sono una versione alternativa di You or None e A Million Miles from Nowhere (Daryl Petty).
Le tracce più vecchie di questo dischetto sono tra i bonus, e le prime che incontriamo sono relative a una sessione (1955 o 1956), allo studio ACA di Bill Holford in Washington Avenue. Si tratta del maestoso slow blues I Can’t Put You Down Baby e del bel jump blues carico di swing You’ve Got Bad Intentions (Joseph Scott), sempre con l’orchestra di Harvey (Hollimon, Davis, Mack Booker, Simmons, Freeman) e il doppio contributo di Scott (strumentista e arrangiatore); andranno insieme sul Duke 153.
Le atmosfere sono alla B.B. King, ma nel trattamento dei versi si nota quell’ostentazione di sé e allo stesso tempo quella vulnerabilità che insieme saranno il suo miglior viatico per il ruolo di tombeur de femmes, confermando l’uso del falsetto, adottato all’inizio per esser riconoscibile con un suo marchio di fabbrica, che però dopo il 1957 perde a causa di una tonsillectomia. Lo sostituirà con un elemento che svilupperà nel tempo, un urlo gutturale che Bobby, nel libro di Guralnick (pag. 77), attribuisce all’ascolto dei sermoni del Rev. C.L. Franklin, e per il quale conia un nome: squall, un caratteristico rantolo combinato con un rapido vibrato che diventa il suo segno distintivo, il suo shout personale. Purtroppo continuerà a usarlo anche quando negli anni si trasformerà in una specie di gargarismo dell’epiglottide, disturbando le performance nella fase avanzata della carriera (v. periodo Malaco); come un suono tra gola e naso, forse diventato tic involontario, che prenderà a somigliare a un grugnito.
Un altro superlativo singolo (Duke 160) tra i bonus è quello con I Don’t Believe e I Learned My Lesson, quest’ultima di Johnny Copeland, da una sessione del 10 nov. 1956. Il primo è un mid-tempo jump con la stessa urgenza di It’s My Life e Woke Up, e sezione fiati magistrale, il secondo un medio-lento in cui il falsetto si riduce sfociando in vibrato (dunque più simile a quello di King), ed entrambi gli episodi sono tra i suoi blues-con-ritmo più appassionati, a “due passi” dal gospel e dal soul. Le note dicono che torna Roy Gaines alla chitarra, con il resto dei musicisti di Bill Harvey, quelle di The Duke Recordings invece segnalano la Onzie Horne’s Orchestra, (17) e alla chitarra mettono forse Clarence Hollimon, non identificati gli altri. Se quest’ultima line-up è possibile, è tuttavia difficile sapere le circostanze di questo temporaneo cambio.
La traccia più anziana dell’album risale a una sessione probabilmente degli inizi 1957, e si tratta del mid-tempo jump I Don’t Want No Woman (ideale seguito di It’s My Life), con Hollimon stratosferico e Bland sicuro di sé, con bellissimo tono tra morbido e graffiante, giusta tempistica e come sempre convinto di ciò che canta; del resto è proprio questa la base del suo successo, non ancora del tutto esploso a livello commerciale, ma già consacrato dal pubblico che lo segue. La sua incitazione durante il solo, Look out Clarence!, conferma Hollimon come complice in questa bellezza che esce sul Duke 167 con I Smell Trouble e gli usuali accompagnatori della Bill Harvey Orchestra anche in quest’ultimo fumante, drammatico slow blues che forse ispira Otis Rush, e in cui per la prima volta sento l’urlo di cui sopra. Che scuola!
È segnalata agli studi ACA nel 1957 la sessione che gli consegna il primo successo da classifica, Farther up the Road, qui inserita tra i bonus e uscita con Sometime Tomorrow (Duke 170), quest’ultima firmata da Joe Scott e LaCharles Harper.
Dove c’è Scott ci sono anche Bill Harvey e la sua band, e qui si assiste all’unica apparizione del chitarrista Auburn ‘Pat’ Hare (ai tempi nei Blue Flames di Parker) (18) per il disco che annuncia la sua grandiosa fila di successi e una vena più morbida, vedi l’aria doo-wop e pop di Sometime Tomorrow, aggiunta di un coro femminile standard.
Farther è un affascinante jump blues a tempo medio tirato da una ritmica shuffle “flat tire” che forse non avrebbe raggiunto il n. 1 della classifica R&B per due settimane nell’agosto 1957 (e complessivamente per quattordici settimane) se non gli fosse stato tolto lo stesso inutile coro. Circoscritto dall’assolo e dalle sottolineature di Pat Hare e dai fiati in funzione squisitamente ritmica, Bobby fa suo questo blues dalla storia leggibile e condivisibile da molti, portandola con classe insidiosa e coolness proverbiale.
Dopo il balzo in cima alla classifica nazionale non potevano non far uscire (Duke 182 e 185) tutti e quattro i brani della sessione successiva, ancora di qualità eccelsa, nel 1957 agli studi ACA. Di questi nei bonus troviamo la ficcante richiesta Loan Me a Helping Hand, uptempo completo di bassi ambulanti e rientrante nei suoi “soulful blues” dal drive incandescente inaugurati con It’s My Life. Tra la compagine di Harvey di diverso figura Johnny Board al sax, mentre torna Hollimon pungente e discorsivo più che mai. Gli altri qui non compresi sono Bobby’s Blues, continuo di Farther up the Road che, citando anche il retro Sometime Tomorrow, pare un richiamo totale a quel disco, ma è anche dotato di personalità grazie di nuovo alla chitarra e al riff di sax oltre che all’irresistibile voce di velluto di Bland, l’elastico You Got Me (Where You Want Me), di nuovo con efficace combinazione chitarra/fiati, e Teach Me (How to Love You). Tutti insieme paiono un’orgogliosa affermazione di sé dopo un inaspettato successo.
La prima sessione del 1958 (ACA) produce cinque brani (uno è alt. take), tutti pubblicati, e porta qualche novità, dalla maggiorazione della sezione fiati e la pacata introduzione di un flauto, all’esecuzione di Little Boy Blue.
Il primo che esce è il singolo (Duke 196) Last Night / Little Boy Blue, con il secondo titolo che troverà posto anche sul vinile in oggetto dato che sul finire dell’anno è il suo secondo maggior hit R&B (n. 10).
Little Boy Blue, attribuita a Joe Scott e LaCharles Harper, è molto significativa non solo per la prodezza vocale, segno della maturazione del nostro ‘blue boy’, o per giungere al momento giusto riconfermando a breve distanza il suo nome tra i top-ten, ma anche perché racchiude ciò che Bland è, con il suo gospel shouting in un blues ballad ricco di quel pathos e di quell’intimità che saranno la ragion d’essere della musica soul, compresi il crescendo e la struttura armonica. È un crescere emotivo, avvolgente spire di desiderio attorno al suo nome, personalizzando il messaggio e rendendolo palpabile in particolare quando, dopo lo spelling di BOBBY, esplode in quel grido soffocato ereditato dal Rev. Franklin. Last Night è l’altra faccia della medaglia (e del disco): la richiesta di remissione via canto pop, chitarra jazzy e soffuso clima after-hours.
I Lost Sight on the World esce con You Did Me Wrong sul Duke 300; la prima ha due versioni, una per il singolo e una per un album (Duke LP 86). Qui c’è la versione LP, quella del singolo ha un flauto aggiunto e ciò che fa il flauto nell’altra lo fa il piano, ma la sostanza non cambia in questo maestoso “requiem” con effetto eco, batteria a passo lento e colpetti di ride, sezione fiati funebre, canto vibrante e finale drammatico come tutto il resto. Il secondo titolo è un uptempo shuffle con walking bass e vetrina per il chitarrista, che potrebbe essere Wayne Bennett alla sua prima sessione con Bland, infilzante un’invasiva serie di lick, e l’altro nome nuovo è il suddetto pianista e organista Teddy Reynolds:
Le sessioni migliori furono quelle di Bobby. Furono bellissime. Fu un momento eccitante esser capace di metter dietro Bobby Bland quei pattern che Joe Scott m’insegnò. (19)
Gli altri sono i soliti pilastri Bill Harvey, Joe Scott, Hamp Simmons, Sonny Freeman, Pluma Davis, Mack Booker, aumentati da due trombe, Melvin Jackson e Floyd Arceneaux, e due sax tenori, Bobby Forte e Jimmy Beck. Nonostante il successo di Farther up the Road e Little Boy Blue, Bobby continua ad andare sulla strada con Junior Parker e complessivamente lo farà per sei anni. Nel testo di Govenar, è ancora Reynolds a offrire uno sguardo su un tipico “pacchetto” dei tempi:
Mr Robey had a package with Bobby Bland, Junior Parker, TNT Braggs and Miss Eloise. One of the greatest shows you’ve ever seen. It was just beautiful, and the musicians were just great. Hamp Simmons on bass, Wayne Bennett on guitar, Joe Scott on trumpet, Pluma Davis on trombone, Melvin Jackson on trumpet. Jabo played drums, and I was on piano, and we had L.A. Hill, the boy who left home with me, on tenor. We had about three tenor players. We had such a big sound. (20)
La perdita del registro alto dopo l’intervento non lo penalizza, anzi, guadagna una vena ancor più ombrosa e sexy che scatena l’immaginazione delle sue fan. Bobby Bland non è bello, non balla, non ha un bel fisico e sul palcoscenico sta praticamente fermo: impensabile per un cantante pop di oggi. Lui se ne sta semplicemente lì, tutto voce e cuore, trasmettendo qualcosa oltre la superficie, e il pubblico apprezza. Puro magnetismo.
I’m Not Ashamed / Wishing Well (Duke 303) sono attribuite a una sessione del 1959 con incertezza sul personale (Scott, Simmons, Freeman, Reynolds, Hollimon e Rayfield Devers, sax baritono, sconosciuti i sax alto e tenore). Pur essendo molto diverse fra loro, entrambe sembrano sfruttare alcune soluzioni di Little Boy Blue. La prima è una bella ballata romantica stile Sam Cooke che per un attimo sembra destinata a salir d’intensità con lo stesso crescendo, poi smorzato e rimanendo così serena e rassicurante fino alla fine. La seconda è molto lirica ed esplora una gamma dinamica inusuale, con sonorità massicce e un testo simbolico offrente varie interpretazioni, sezione fiati densa, piano insistente e chitarra virtuosa in distorsione dalla tinta blues/jazz, di Wayne Bennett.
Non c’è nessun rappresentante qui della sessione successiva, sempre del 1959, producente tre brani che andranno su tre diversi singoli (Duke 310, 314 e 318) e che s’allontanano dal R&B.
Il migliore è l’originale Is It Real?, ricordante Otis Redding, con riff caratteristico di flauto e ritmica duttile, insipido invece il classicissimo That’s Why (Joseph Koss) con coro e ancora flauto, mentre Hold Me Tenderly è un’altra puntatina nel pop, con violini dominanti. Le note mettono probabili Reynolds, Bennett, e John ‘Jabo’ Starks alla batteria, sconosciuti gli altri.
Sugli altri lati di questi tre andranno rispettivamente Someday (J. Green), ballata soffusa con chitarra jazzy e piano sul tema ricorrente del “someday baby”, con canto che sembra potersi spezzare in pianto (solo l’incipit meriterebbe un Grammy), e due brani poi inseriti nell’album in oggetto.
Sono I’ll Take Care of You di Brook Benton, talmente bella che non è rovinata nemmeno dall’overdub d’organo (al posto della chitarra, perfetto all’inizio, ma poi troppo scattante e in primo piano), anzi ne diventa segno distintivo anche se il punto forte sono i versi e il canto di Bobby, e la drammatica Lead Me On, con i non identificati flauto, coro e violini che stanno a pennello, ancora con atmosfera Sam Cooke e gospel. Siamo nel campo delle ballate soul e pop, ma la qualità è superiore rispetto alla precedente sessione e anche qui, oltre ai soliti, ci sono probabilmente Melvin Jackson, tromba, L.A. Hill, sax tenore, Rayfield Devers, sax baritono, Teddy Reynolds, piano e organo, John ‘Jabo’ Starks, batteria, e Wayne Bennett.
I’ll Take Care of You diventa il terzo top ten hit, raggiungendo il 2º posto delle classifiche R&B (nello stesso 1959 altri due entrano in classifica, I’m Not Ashamed al 13º e Is It Real al 28º), e sulla scia di questi successi (ai quali nel 1960 s’aggiunge Lead Me On, altro top-ten) Bobby e la band si fermano a Chicago il 3 agosto 1960 agli Universal Studios per lavorare su un album.
A quei tempi è convenzione credere che i fan di R&B non comprino album, ma il precedente Blues Consolidated di Bland e Parker vende invece molto bene, così come una compilazione Duke, Like ‘Er Hot, e Don Robey vuole uscire con un album solista di Bland con quanti più brani nuovi possibili. Di canzoni nuove ne conto ben nove, ma sono sette ad andare sul disco insieme a cinque tra i brani già visti, e tutti a parte due escono anche su singolo tra il 1960 e il 1961.
Le sessioni a Chicago, di qualità eccellente, sono due, il 3 agosto e il 12 novembre 1960, e gli accompagnatori la formazione base di questo periodo: Joe Scott e Melvin Jackson, trombe, Pluma Davis trombone, Robert Skinner e L.A. Hill sax tenori, Rayfield Devers, sax baritono, Teddy Reynolds piano, Wayne Bennett chitarra, Hamp Simmons basso, John ‘Jabo’ Starks batteria.
Le due escluse dall’LP e qui nei bonus sono How Does a Cheatin’ Woman Feel (Duke 336 e 352), bellissima ballata soul/blues di velluto, sempre con aderente collaborazione delle sezioni ritmica e fiati, e Close to You, allegro uptempo un po’ hillbilly e un po’ jubilee, in cui si nota la flessibilità di Bennett, chitarrista fluido, elegante e sottile, ideale per questa nuova fase tanto come Gaines e Hollimon per quelle precedenti. Quest’ultimo brano appare su singolo insieme alla memorabile I Pity the Fool (Duke 332), splendida quintessenza di Bland. Nel 1961 sarà il suo secondo numero uno, costruito su pattern oscillante simile a quello annunciato in Wishing Well, con esplosione vocale nel bridge mentre fiati e chitarra s’intersecano, tutto con elastico lavorio ritmico.
Cry, Cry, Cry, (21) entrata nei top-ten nel novembre 1960, è ricca di mordente ed è un altro bell’esempio della tipica soul ballad di Bland del periodo, dotata di uno “squall” disperato e del pieno controllo del suo baritono nell’arrivarci (e poi uscirne) da un tono più morbido; ben udibile il basso, che sembra scandire il ritmo sordo del cuore mentre Bennett offre il meglio di sé e i fiati la consueta alleanza. Va anche su singolo con I’ve Been Wrong so Long di Ray Agee (Duke 327), dalla ritmica particolare che durante il bridge diventa quasi tango.
La stupenda coppia mai uscita su singolo è quella di Two Steps from the Blues, bellissimo di Texas Johnny Brown con fraseggio garbato ed emozionante, accompagnato magistralmente da Bennett e da una splendida sezione fiati (con affascinanti e tristi ondate di trombe mariachi), e I’ve Just Got to Forget You, che in quanto a fiati non è da meno, come sempre del resto. Insuperabili anche il “quadrilatero ritmico” e il colore e la portanza del canto, intriso di gospel e soul.
Nelle sue canzoni c’è spesso qualcuno che piange o deve piangere, ma in questo caso c’è chi deve smettere perché Don’t Cry No More (antesignana di Turn on Your Love Light) è inno all’amore ritrovato, sopra riff incalzanti di chitarra, fiati e accentazione ritmica di Jabo Starks, che sostiene un paio di stop-time a Bobby per risaltarne le dichiarazioni, il quale di solito offre i suoi migliori shout (o squall) proprio sulla parola “cry”. Uscì anche su due singoli (Duke 336 e 340), forse perché fu un altro grandissimo successo, n. 2 nel 1961.
St James Infirmary è il classico di Joe Primrose (uscito anche su singolo 340), brano sempre toccante, figuriamoci cantato da Bland. Ancora soddisfazione infinita dai fiati, con incipit a metà strada tra Messico e New Orleans, quest’ultima richiamata dall’incantevole break di trombone di Pluma Davis sopra gli staccato dei fiati, prima di un finale al bacio.
Per tutti gli anni Sessanta Bland continuerà a essere la macchina sfornasuccessi di Duke; i suoi singoli escono ogni pochi mesi e regolarmente vanno nella classifica R&B: a fine carriera ne potrà contare sessantré, di cui più di quaranta anche nella classifica pop.
Nel 1961 rinuncia al ruolo di supporto di Parker uscendo dal Revue portandosi via alcuni degli uomini di Harvey che lo accompagnano in studio, come Hamp Simmons, Sonny Freeman o Jabo Starks (che più tardi va con James Brown), il sassofonista Bobby Forte e il trombettista Melvin Jackson, quest’ultimo unitosi verso la fine degli anni Cinquanta dopo una tappa a Nashville; anche Scott lascia l’incarico di A&R man per andare sulla strada con lui, situazione più remunerativa. L’orchestra si scioglie nel 1968 per vari motivi, l’alcolismo di Bland, una lite con Scott e non ultimo il calo delle vendite. Wayne Bennett si trasferisce a Chicago a fare il session man, Melvin Jackson va con Johnnie Taylor per poi tornare con lui negli anni Settanta come organizzatore, manager, bandleader, P.R. e confidente.
Robey vende Duke ad ABC/Dunhill nel 1973, ma Bobby continua a registrare negli anni 1980/1990 con Malaco Records entrando in classifica regolarmente (appoggiandosi ad autori come George Jackson e Larry Addison), continuando a fare concerti come influente icona soul-blues, tra chitlin’ circuit e casinò, rozzi juke-joint ed eleganti supper club.
Scomparso nella sua Memphis il 23 giugno 2013, Bobby Bland con il suo supplichevole, rabbioso romanticismo esistenzialista traghettò l’esperienza e la poetica blues nel nuovo secolo, fornendo un modello che ha regnato a lungo sullo scenario del soul/blues urbano moderno.
(Fonti: Charles Farley, Soul of the Man: Bobby “Blue” Bland, Univ. Press of Mississippi, 2011; Peter Guralnick, Lost Highway. Journeys and Arrivals of American Musicians, Back Bay Books/Little, Brown & Company, New York, 1979-2012; Gary Blailock, libretto a Bobby Bland, Two Steps from the Blues (remastered edition), Soul Jam Records, 2012; Alan B. Govenar, Texas Blues, The Rise of a Contemporary Sound, Texas A&M University Press, 2008; James M. Salem, The Late Great Johnny Ace and the Transition from R ‘n’ B to Rock ‘n’ Roll, University of Illinois Press, 2001; Sito 706 Union Avenue Sessions [Agg.to: link rimosso perché non più esistente].)
- Fu poi Evelyn J. Johnson, manager di Duke/Peacock e presidente della Buffalo Booking Agency di Don Robey, a insegnargli abbastanza per poter leggere e memorizzare le parole delle canzoni.[↩]
- Da P. Guralnick, op. cit. nelle fonti, pag. 21.[↩]
- Nel Guralnick, a pag. 61 Rufus Thomas dichiara d’aver scritto una canzone per Bland, con cui vinse la competizione del Palace. Thomas prese a cuore Bland, al Palace ma anche in WDIA, “Mother Station of the Negroes”, concedendogli uno spazio radiofonico dentro il suo stesso breve spazio.[↩]
- Da C. Farley, op. cit. nelle fonti, pag. 26.[↩]
- Dopo il successo il brano sarà rifatto con la band di Tuff Green.[↩]
- King ha ricordato le sessioni a casa di Green, con coperte sui muri come isolamento. Iniziò a integrare la sezione fiati allora, ispirato proprio dalla band di Green.[↩]
- Al 1293 di Quinn Ave a Memphis. Green era insegnante di musica, bassista e bandleader, noto per avere sempre ottimi musicisti nella sua band, The Rocketeers, come il sassofonista Ben Branch, il batterista Phineas Newborn Sr e i suoi dotati figli Phineas Jr al piano e Calvin alla chitarra. Junior era stato il tipo di bambino prodigio che suona Chopin e Mozart a occhi chiusi; era chiamato il “nuovo Art Tatum”. La band di Tuff lavorava tantissimo solo in base alla reputazione non avendo mai fatto dischi a loro nome, e piacevano sia ai bianchi che ai neri poiché a seconda della situazione spaziavano dal country allo swing, dal blues al bebop.[↩]
- Non la Love My Baby più compiuta registrata da Parker e i Blue Flames l’anno dopo sempre da Sun, con la chitarra hillbilly di Floyd Murphy, precursore del rockabilly e fratello di Matt. Il riff di Murphy è tra i più imitati del genere, ed influenzò Scotty Moore.[↩]
- Da C. Farley, op. cit. nelle fonti, pag. 38.[↩]
- Johnny Board veniva da Chicago (aveva suonato con Coleman Hawkins, Lionel Hampton e nell’orchestra di Count Basie), e stava ai sassofoni alto e tenore nelle band in supporto ai cantanti Peacock di Robey, nelle quali figurava anche il chitarrista houstoniano Milton Hopkins. Dal libro di Salem, Hopkins ricorda che gli altri membri erano (l’onnipresente) Joe Scott, tromba, Milton Bradford, sax baritono e tenore, C.C. Pinkston, batteria e vibrafono, e Curtis Tillman, basso, ai quali bisogna aggiungere anche Paul Monday, piano. Fu Robey a nominare la band “Johnny Board Orchestra”, e a permettere che ricevessero i crediti per l’accompagnamento nei dischi di Johnny Ace anche quando non vi suonavano; diverse esecuzioni accreditate alla JBO sono effettivamente, dice sempre Salem, di Johnny Otis e la sua band.[↩]
- Da P. Guralnick, op. cit. nelle fonti, pag. 81.[↩]
- Robey al picco della carriera aveva più di cento artisti (individuali e gruppi) sotto contratto, e nel corso di un anno usufruiva dei servizi di più di cinquecento musicisti in studio.[↩]
- Da P. Guralnick, op. cit. nelle fonti, pag. 77.[↩]
- Ivi, pag. 78.[↩]
- Ivi, pag. 79.[↩]
- Da A.B. Govenar, op. citata nelle fonti, pag. 295.[↩]
- Onzie Horne, pianista, era stato allievo di Ellington ed era conosciuto sulla scena di Beale Street, rispettato come direttore d’orchestra. Fu anche arrangiatore per B.B. King e in seguito per Isaac Hayes.[↩]
- Da più parti in rete si legge che si tratta di Wayne Bennett. È possibile, e farebbe rientrare la stranezza di Pat Hare su un’unica traccia, anche se il mostrarsi uguale e ripetuto “da più parti in rete” significa solo che la stessa informazione, vera o falsa che sia, è ricopiata ovunque senza preoccuparsi dell’affidabilità, quindi anche se moltiplicata per mille vale sempre e solo uno.[↩]
- Da A.B. Govenar, op. citata nelle fonti, pag. 295.[↩]
- Ibidem.[↩]
- Da qualche parte ho letto che al pianoforte qui c’è James Booker, ma non credo, anche se Booker ha accompagnato in studio tanti artisti in giro per gli States. La stessa settimana in cui Cry va in classifica vi arriva anche Booker con Gonzo, il suo unico hit, e forse è l’unica associazione.[↩]
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Gran bell’articolo come sempre!!! Ho ritrovato molte cose lette nel libro che citi: “Soul of the man: Bobby “Blue” Bland” di Charles Farley che ho letto poco tempo fa… 😉
Tra le cose che ho letto su Bland mi sembra la fonte più affidabile.