Castel San Pietro in Blues, 5.6.2011
Mandolin’ Brothers / Lil’ Ed Williams & The Blues Imperials
In forse fino all’ultimo momento a causa della pioggia insistente, l’ultima serata del festival di Castel San Pietro s’apre con una quindicina di spettatori temerari seduti in platea con gli ombrelli, mentre un discreto numero di persone assiste dal portico che da un lato chiude la piazza. È talmente tanta la riconoscenza del presentatore nel vederci lì, incuranti dell’acqua, che viene a stringere la mano a ognuno di noi.
Sono i Mandolin’ Brothers dall’Oltrepo pavese ad aprire in una situazione che appare surreale. In prima fila Jimmy Ragazzon (voce, armonica, chitarra acustica, washboard) e alla sua destra Paolo Canevari (chitarra elettrica), i fondatori di questo sestetto che un paio d’anni fa ha festeggiato il trentennale d’attività e che saltuariamente si presenta in versione acustica a quattro. Gli altri sono Marco Rovino (mandolino, chitarre, voce), Riccardo Maccabruni (fisarmonica, piano, voce), Joe Barreca (basso elettrico e contrabbasso) e Daniele Negro (batteria).
Hanno un repertorio vario, delineato soprattutto in ambito roots rock e americana con capatine nel blues tradizionale, quest’ultimo però non convincente dal punto di vista dei suoni, invariati e indistinguibili dal resto (rock). Un diverso approccio sarebbe necessario, altrimenti non ci sarà differenza alcuna tra un brano di ‘Sugar Boy’ Crawford e uno di David Crosby: non per rimarcare forzatamente le differenze, ma per risaltarne le caratteristiche. Se poi il fonico non sa distinguere, inevitabilmente tutto si appiattisce. Meglio quindi hanno fatto con il country-rock anni 1960/1970 (chiaramente più vicino anche come vocalità), sia direttamente che come fonte ispirante i brani autografi, da grandi songster americani a gruppi come Flying Burrito Brothers e CSNY.
Aprono con Dark Was the Night (Blind Willie Johnson), poi uno degli episodi più “coperti” del country blues, You Gotta Move (Fred McDowell) e a seguire Stompin’ My Blues, un loro brano alla Steve Earle. Proseguono sulla strada delle proposte autografe con Saigon, un po’ country/bluegrass, New York Blues, evocante certe ballate degli Stones, Hold Me, austiniana da highway e anche la più bella (con scarsa tensione però), Bombay Skyline, con sapore Dixie e solo di fisarmonica e slide.
Rimpolpano con rock californiano d’annata mediante l’epocale Almost Cut My Hair di David Crosby, mistico della generazione hippie e uno che ha saputo raccontare quei momenti con sonorità irripetibili.
Segue un medley tra I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters e la canzone più anomala di Robert Johnson, (Hot Tamales And) They’re Red Hot, omaggio del mito del blues al ragtime in voga quand’era bambino.
Riprendono poi il classico di New Orleans Iko Iko e la She’s Tuff di Jerry McCain portata alla notorietà dai Fabulous Thunderbirds. Buono l’insieme e discreto l’interplay; risaltano il cantante, con voce adatta al country/rock, nasale e aspra ma al punto giusto, la chitarra di Canevari e la fisarmonica di Maccabruni, anche pianista.
Una valanga di concerti, dischi e canzoni, eppure Lil’ Ed Williams sembra tuttora motivato e pieno di energia come quando da ragazzino, sul finire degli anni 1950, scorrazzava attorno alle gambe, altezza chitarra, del grande zio J.B. Hutto, al quale somiglia anche fisicamente. Da lui ha preso molto, dalla slide guitar al modo di stare in scena. Time will tell direbbero gli inglesi, ma anche se di tempo ne è passato parecchio da quando il piccolo Ed s’è messo a suonare seriamente, ancora non ha su di sé l’attenzione che forse meriterebbe.
Sulle spalle il debito del paragone illustre e l’esser considerato ancora troppo “giovane”, ed è probabile sconti anche il suo atteggiamento dato che per primo sembra non prendersi troppo sul serio, nonostante avrebbe il potenziale per aspirare a qualcosa di più di un semplice funny act.
Lil’ Ed non è profondo e tormentato, e forse questo i puristi del blues non lo accettano. A me pare un tipo sincero e genuino, che magari se solo fosse nato e morto qualche decennio prima oggi avrebbe un altro bagaglio e sarebbe ricordato come lo zio, che ha comunque avuto la sua buona dose di sottovalutazione, sia da vivo che da morto. Vedendo il bicchiere mezzo pieno, per fortuna oggi a Chicago c’è ancora qualcuno che suona blues, bisognerebbe dire, anche se non è Chess a registrarlo ma Alligator, e quest’ultimo è il vero gap di Lil’ Ed Williams: le sonorità.
Affonda la sua natura in modo più evidente nel blues elettrico west side di Chicago, ma non solo e non troppo. Dispensatore di risate, acrobazie in punta di piedi e di una simpatia istintiva e contagiosa, Lil’ Ed è un chitarrista slide dalla vocalità blues grassa ed espressiva, amante di torridi slow blues alternati a mid-tempo vivaci e robusti, e che non disdegna boogie trascinanti, tutto spesso accompagnato da una mimica esplicativa. Peccato per la mancanza dell’altro “nipotino” di Hutto, di tutt’altra stazza rispetto a Lil’ Ed, James ‘Pookie’ Young, suo fratellastro e compagno dallo stesso vissuto, insieme da sempre.
A sostituirlo un altro bassista non con la familiarità e l’intesa di ‘Pookie’ verso gli altri membri storici, Mike Garrett e Kelly Littleton, chitarra ritmica e batteria, i Blues Imperials.
A uno strumentale incalzante seguono un paio di blues lenti, tra cui la celeberrima Early in the Morning. Dopo questo inizio serio comincia ad arrivare qualche concessione allo spettacolo e alle tipiche sonorità della sua casa discografica, ad esempio con il soul di Woman, Take a Bow, e la travolgente, divertente Icicles in My Meatloaf, ricordante Hound Dog Taylor.
L’immancabile tributo a uno dei maggiori ispiratori, Jimmy Reed, con What You Want Me to Do, e a Rosco Gordon con l’immortale No More Doggin’, confermano le sue varie influenze, ma forse è con brani autografi ben riusciti come Check My Baby’s Oil che viene fuori il vero Lil’ Ed Williams, qui attaccato alla tradizione mediante un innuendo automobilistico espresso con un rovente, prosaico Chicago blues a tempo lento.
Il tema motoristico nel blues ha molti esempi, dalla Terraplane di Robert Johnson che non funziona, alla Rocket 88 di Jackie Brenston e Ike Turner che invece va benissimo, dalla gelosia di Memphis Minnie in Me and My Chauffeur Blues, alla piena esaltazione di Helen Humes per un uomo “supersonico” in Jet Propelled Papa. Lil’ Ed attacca con una frase inequivocabile come I gotta check my baby’s oil / Somebody’s sticking their dipstick in the oil pan, e rivolto al pubblico chiede – Sapete cos’è un dipstick? Ma la maggior parte non coglie queste “finezze”.
Anche Life Is like Gambling è un episodio felice, giocato sulla tensione, prima di dare spazio solista al fedele chitarrista, Mike Garrett, che interpreta due classici, Too Late di Willie Dixon e The Things that I Used To Do di Guitar Slim. Sulle note di She Don’t Love Me No More, dall’andatura ancheggiante, scende per un piccolo show in platea (mossa che non paga mai escludendo buona parte del pubblico), poi torna su per uno scatenato boogie up-tempo, Take Five.
Il gran finale tocca a un altro brano dosato lentamente, ma soprattutto alla pressante Pride and Joy, buon esempio dello stile della formazione, in cui Lil’ Ed Williams chiede la collaborazione del pubblico, e al favoloso boogie di Bluesmobile, corsa su un’ipotetica macchina del blues insieme ai grandi della musica di Chicago, adatto a presentare i membri della band.
Ora che il Piazza Blues di Bellinzona sembra scomparso nel nulla, il Roots ‘n’ Blues Festival di Parma siede sugli allori e il Deltablues di Rovigo ne sembra purtroppo inglobato con la stessa tendenza “viva lo sconosciuto e l’outsider” a oltranza, mi auguro che il festival di Castel S. Pietro prima o poi torni agli antichi splendori.
Un altro appunto al fonico (Lil’ Ed ha avuto problemi con la pedaliera per tutto il tempo – oddio, non che fosse necessaria, anzi…) e, per quanto riguarda il fumo e le coloratissime luci sul palcoscenico devo dire che sì, sono sicuramente più da MTV Awards, ma almeno hanno permesso interessanti effetti fotografici.
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