Fred Duna and The Full Optional – Got Some More
Inauguro la sezione Made in Italy con un disco registrato nel giugno 2009 a Terni, la “città dell’acciaio” citata nel sottotitolo.
La formazione è di vecchia data, partita da una concezione R&B con fiati, ridotta poi a quattro elementi (voce/armonica, chitarra, basso, batteria) e infine trovando la giusta miscela a cinque con l’aggiunta di un pianoforte, vale a dire la classica blues band così come Muddy Waters ha insegnato.
Ed è proprio il blues elettrico urbano della metà del secolo scorso la fonte ispirante, radicato nelle campagne del profondo sud ed emigrato in cerca di una vita migliore.
Emerge già con il primo brano, Some More, il respiro d’insieme, facilitato dall’affiatamento e dallo stesso approccio a beneficio di un serrato shuffle swing con connotati di blues californiano. Asciutto, ben eseguito e senza protagonismi perniciosi, del resto assenti anche negli altri episodi, che potrebbero minare la compattezza e la chiarezza del messaggio.
Loro sono Michele Zacaglioni (aka Fred Duna), armonica e voce, Riccardo Diomedi, chitarra, Alessandro Deflorio, piano, tastiere e fisarmonica, Daniele Ponteggia, basso e contrabbasso, Tiziano Tetro, batteria.
Il più diluito e quasi pigro jump blues If She’s Your Woman rimane in zona, in stile Fabulous Thunderbirds, con gustosi riff di armonica e chitarra, e piano ritmico ad aggiungere brio.
Gangster of Love è il primo cover di Johnny ‘Guitar’ Watson: la scelta è bella e particolare, ma non facile. La parte vocale difetta, forse scontando la presenza di un accompagnamento che, a mio parere, avrebbe dovuto essere minimale per dar spessore a un recitativo più che a un cantato; bene nel break strumentale e nel chorus. È ben distribuito e nelle corde di tutti invece il mid-slow It’s Your Own Fault. Chitarra alla B.B. King, accompagnamento di piano e fake organ, canto tra crooning e shouting.
Decisamente meglio riuscito l’altro cover di Johnny ‘Guitar’, l’uptempo Telephone Boogie, anticipato da una risposta dell’operatrice (il leggendario centralino americano, così efficiente da rispondere a qualsiasi richiesta) e carico di molto godibili sonorità texane.
Meet Me in the Bayou ha tanto potenziale, da ‘Pops’ Staples a Lazy Lester, ma non è sfruttato a fondo. Il sapore dello swamp blues c’è, peccato che la fisarmonica non sia coinvolta di più e che l’andamento ritmico sia forse troppo netto. Bene le parti rarefatte e acquose, come la chitarra con tremolo e l’armonica, entrambe con giusto tocco onirico. Side Pocket è il terzo e ultimo brano altrui, strumentale di Fred Kaplan in stile Chicago blues che mette in evidenza il pianista.
President Wants Me Dead, andatura cittadina a tempo medio, ha diversi meriti, uno è quello di richiamare la “bestia” Howlin’ Wolf senza essere un rifacimento di un suo brano, ma autografato, come gli altri, da tutto il gruppo. Originale il narrato e bravi i narranti, fondamentale il contrabbasso, e nelle corde del cantante, leggermente trasfigurate per avvicinarsi all’asprezza dell’ispiratore, con buoni risultati essendoci già vicino per natura.
Chicago Memories è chiaramente un luminoso tributo alla Windy City e ai suoi protagonisti, con citazioni-omaggio di chitarra, armonica e piano. “Evocativa” è forse la più bella cosa che si possa dire di una musica e qui Chicago si sente, tra lucido e trasognato, com’è invece reale in President l’immagine di qualcuno braccato da qualcuno o qualcosa.
Due appunti riguardano le note interne e la lista degli strumenti, entrambe non corrette, ma questo non intacca le cose che premono di più e cioè la qualità della musica, la sincerità e la chiarezza della proposta, l’appartenenza a uno stile che non rincorre le tendenze e la presenza di sei brani autografi su nove.
Indiscutibilmente una blues band senza ambiguità, lo si sente dall’approccio agli strumenti, old school, parco ed espressivo, dal tono vocale e strumentale, dal repertorio. Tra le doti migliori ci sono la voce del cantante, con bel timbro e adatta per il blues, una chitarra che dovrebbe essere d’esempio a molti, il pianista e la sezione ritmica portati per lo swing, un’armonica grassa quel tanto che basta e mai invadente.
Gusto, passione, rispetto, senso della misura, attenzione per la ricerca; non se ne ha mai abbastanza, ma qui la soddisfazione in tal senso è garantita.
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