Greenville, Mississippi
Sull’Highway One per Greenville il cielo è grigiastro uniforme e piove a dirotto, così arrivati in città ci rifugiamo al Cajun Shotgun House and BBQ di Lucy Miller, ristorante afroamericano.
Swamp alle pareti e nel menu, con alligatore, cosce di rana, gamberi, gumbo, fagioli rossi, okra fritta, insieme a piatti più convenzionali di pesce o carne.
Jigger & Jug Package Store. L’epoca del Proibizionismo si concluse nel 1933, ma in Mississippi finì solo nel 1966, e non del tutto dato che ci sono ancora contee con il divieto di vendita alcolici, le cosiddette dry counties. La regione Delta però è wet, e Jigger N Jug, aprendo nel 1966, è stata la prima rivendita legale di liquori in Mississippi dal 1907, da quando cioè entrò in vigore il proibizionismo nello stato.
Naturalmente, in quei lunghi sessant’anni ufficialmente all’asciutto fiorì la produzione e la vendita illegale di liquori, e sappiamo quanto tutto ciò alimentò il blues, i juke joint, e quanti bluesman camparono con il moonshining. Fu la fine di un’epoca, il cui effetto sui contenuti testuali del blues è comparabile alla perdita avvenuta anni prima con la meccanizzazione agricola.
Uno dei fratelli proprietari originali del negozio, Joe Azar, era il padre del cantautore country Steve Azar, nativo di Greenville. Azar ha dichiarato d’aver imparato a suonare dai vecchi Sam Chatmon e Eugene ‘Sonny Boy Nelson’ Powell, che nella loro seconda vita musicale degli anni Sessanta suonavano fuori dal negozio.
The Levee: a Greenville l’argine è spettacolare. In cima c’è il marker “Mississippi River Levee”. L’argine sul Mississippi, lunga muraglia di terra che costringe il fiume nelle sue rive (quando non esonda comunque), è la più estesa opera di arginatura del mondo, costruita nel corso di un secolo da uomini e muli, carriola dopo carriola. Nei primi levee camp, i campi di lavoro dell’argine, presero spontaneamente forma gli holler, predecessori del blues, come nei campi di cotone. C’erano stati piccoli argini sul Mississippi dal 1720, e un argine più completo fu in funzione entro il 1912, ma il fiume straripò numerose volte con risultati disastrosi. Solo dopo la devastante piena del 1927, l’inondazione più distruttiva nella storia degli Stati Uniti, si affrontò il problema a livello nazionale, non più in modo frammentario, cominciando a costruire il grande Mississippi River & Tributaries Project.
David ‘Honeyboy’ Edwards ha raccontato che andava a suonare in questi campi di lavoro nei giorni di paga degli operai, quando i soldi giravano e arrivavano prostitute e whiskey; aveva un taccuino su cui annotava tali occorrenze nei vari campi fino a Vicksburg.
Welcome to Greenville, MS, Heart & Soul of the Delta.
Queste acque si chiamano Lake Ferguson, ma sono del fiume Mississippi che qui, dopo la piena del 1927, ha formato una specie di ansa, o cuscinetto, tra il suo corso e la città. È luogo di pescatori e la grande spianata inclinata e panoramica è per la calata delle barche e il parcheggio dei mezzi.
La metà lago segna il confine con l’Arkansas
Nella grande alluvione del 1927 morirono 246 persone (stima probabilmente molto al ribasso) in sei dei dieci stati interessati dalla piena, quindi apparentemente non moltissime rispetto alla sua estensione totale e ad altri grandi disastri, naturali e no, della storia statunitense. In compenso ne lasciò parecchie centinaia di migliaia senza casa o costrette ad andarsene, dato il numero impressionante di abitazioni ed edifici distrutti. Durante la piena i proprietari terrieri costrinsero i lavoratori afroamericani a rimanere sotto la minaccia di armi, a migliaia accampati sull’argine. Proprio vicino a Greenville, dove il muro di terra aveva retto, furono ammucchiati tredicimila rifugiati per diversi giorni senza cibo né acqua, deportati dalle zone agricole circostanti.
Essendo le vittime più del 90% afroamericane, furono i neri per la maggior parte a documentare la tragedia attraverso sermoni, prosa, poesia, e naturalmente blues. Come nel 1929 Kansas Joe e Memphis Minnie in When the Levee Breaks, e Charlie Patton in High Water Everywhere, esteso sui due lati di un 78 giri, rilevante anche per la cronaca dei tempi citando una dozzina di luoghi nel Delta colpiti dal disastro.
Una blueswoman locale, Alice Pearson, dedicò all’alluvione due episodi: Greenville Levee Blues e Water Bound Blues.
Altre impressioni in musica sull’avvenimento furono South Bound Water di Lonnie Johnson, Rising High Water Blues di Blind Lemon Jefferson, High Water Blues di Blue Belle (Bessie Mae Smith), The Flood Blues di Sippie Wallace, Lonesome Refugee e Mississippi Blues di Laura Smith, Mississippi Heavy Water Blues di Barbecue Bob.
Fu però Back Water Blues di Bessie Smith ad aver maggior successo, anche per la contemporaneità con l’alluvione, ma in realtà non si riferiva a quella dato che il brano fu registrato pochi mesi prima (febbraio 1927) ispirandosi a un altro evento al quale l’Imperatrice assistette durante un tour, cioè la piena del Cumberland River che colpì Nashville, Tenn., la mattina di Natale del 1926, secondo le ricerche effettuate da David Evans.
Si ferma davanti a noi questo pickup trainante una barca a motore, con due pescatori che la calano in acqua per poi sparire oltre l’isolotto.
Non prima di essersi gentilmente sottoposti alla mia curiosità e aver posato per una foto ricordo.
Non bisogna uscire dal centro città per lo spettacolo sull’argine, trovandosi dietro Walnut Street, l’odierna via dei locali notturni.
Greenville ha vissuto il suo splendore musicale negli anni 1940/1950, quando vi si poteva ascoltare country blues, gospel, il jump blues e lo swing delle big band. Prima delle sue numerose scalate nelle classifiche, nel 1928 Louis Jordan si esibiva in città con il bandleader Winchester ‘Little Wynn’ Davis (che istruì anche Eddie Shaw).
S.B. Williamson II incontrò a Greenville nei primi anni 1940 il suo pianista, Willie Love, il quale fu partner anche del cantante e chitarrista locale Charley Booker. Il Nelson Street Blues (1951) di Willie Love, hit per Trumpet Records, è un racconto sulla vitalità di Greenville e in particolare di quella che era la via degli intrattenimenti citata nel titolo, inneggiante la sua fauna, le diverse attività e il Silver Dollar Café, che stava “right on the corner”.
James ‘Son’ Thomas ha ripreso il brano di Love nel 1986 per i francesi di Black & Blue (Nelson Street, CD Hard Times del 2000).
Eddie Cusic, scomparso nel 2015, era un bluesman (della vicina Leland) attivo a Greenville, e recentemente il Mt Zion Memorial Fund gli ha posato la lapide al Greenlawn Memorial Gardens (711 Highway 82 E). Little Milton fu nella sua band negli anni 1950 (in seguito Cusic abbandonò l’elettrica e si dedicò all’acustica), come in quella di Willie Love. ‘T-Model’ Ford abitava a Greenville, dove è morto nel 2013.
E allora andiamoci nella malfamata, oggi deserta, Nelson Street, dove la città più grande del Delta coltivò l’eredità blues quando la via era il centro diurno delle attività commerciali afroamericane e ritrovo notturno con i suoi tanti club e caffè. Il blues marker è davanti al Southern Whispers, locale credo d’epoca recente che solo saltuariamente aveva musica live, chiuso da un po’. La strada è piuttosto depressa e gode di brutta fama, anche se non mi è sembrata più pericolosa di altre nelle stesse condizioni, almeno di giorno; di notte può esser altra cosa, anche perché la scena musicale oggi sta nella rinnovata e turistica Walnut Street, nei pressi dei casinò e dell’argine.
Non posso parlare di avvenuta riqualificazione di Nelson Street, ma affreschi come questo dicono che qualche tentativo di nobilitare il luogo attraverso la musica è stato fatto. In questo grande edificio aveva sede il Flowing Fountain (al nº 816, il civico attuale però è 828), che nella sua più grande stanza ospitava l’Annie Mae’s Cafe immortalato da Little Milton nel brano omonimo (1985, Malaco), anche se uno degli autori, George Jackson, ha dichiarato il riferimento a un club di Memphis. Tuttavia Milton dice, in un parlato chiaramente udibile prima del solo di chitarra: “In my hometown they call it the Flowing Fountain”, come è anche vero che all’inizio specifica che di Annie Mae’s Cafe ce n’è uno in ogni città. Il proprietario del Flowing Fountain, aperto negli anni 1970, era Perry Payton (scomparso nel 2000), di giorno becchino come era stato suo padre; i due nel 1940 contribuirono alla composizione delle centinaia di salme dopo il terribile incendio a Natchez del Rhythm Night Club.
Roosevelt ‘Booba’ Barnes, il bluesman di Greenville per eccellenza, lavorò al Fountain come barista e performer prima di aprire il suo Playboy Club al civico 928. Questa malandata ex roulotte si trova vicino a dov’era il club di Booba, entrambi nel documentario Deep Blues in cui l’allora sindaco di Greenville, seduto al bar del locale, dice al regista Palmer d’aver iniziato (era il 1990) un’opera di rinnovamento e salvaguardia della storica Nelson Street. L’intenzione era buona, ma il recupero non è mai davvero cominciato, anche se credo che le cose siano migliorate rispetto ad allora. Il club era nel primo blocco a nord di questa “minicasa”, ma l’unico edificio lì presente, una chiesa Vessel of Mercy, è al nº 932, quindi non so se il locale era dov’è adesso la chiesa o nel lotto vuoto accanto.
Altri bazzicanti Nelson Street erano il sassofonista Oliver Sain (figliastro di Willie Love), Eddie Shaw, ‘Big Moose’ Walker, Burgess Gardner, Alex ‘Lil’ Bill’ Wallace, Willie Foster, Lil’ Dave Thompson. Il Little Wynn Nelson Street Festival e il Delta Blues & Heritage Festival in settembre sono le uniche occasioni per vivere la strada tra musica e festeggiamenti.
May’s Cafe II, alla fine di Nelson Street, oltre la ferrovia, “full blues restaurant”.
Walnut Street nei pressi del Levee. Cheseborough (nel 2009) scrive che negli ultimi anni la vita notturna della città è aumentata, spronata dallo sviluppo dei casinò sorti nei pressi della riva. Non m’è sembrato; c’era pochissima gente in giro, di notte come di giorno. Forse erano tutti confinati nelle case da gioco, o forse hanno chiuso perfino quelle (e in questo caso non sarebbe un danno).
Walnut ricopre oggi il ruolo di via dei divertimenti che era di Nelson, ma non vive come un microcosmo autonomo, e non sembra un quartiere autentico con le sue botteghe e le sue storie, è solo una via piena di bar rimessa a nuovo per i turisti, vuota di giorno e poco vibrante di sera.
Non mi pare ci siano locali afroamericani qui, ma è Walnut Street il posto in cui venire a cercare musica dal vivo, naturalmente di musicisti locali e non necessariamente blues. Un paio di bluesman sulla scena recente di Walnut Street erano (non so se ancora sono) John Horton, con vestiti sgargianti e stile alla Albert King, e Mississippi Slim, noto anche per dipingersi i capelli in accordo con gli abiti di scena (probabilmente ispirato da Guitar Slim).
Placche sui marciapiedi per onorare diversi musicisti storici in connessione con la città.
Come Abie ‘Boogaloo’ Ames, pianista boogie-woogie (forse) georgiano scomparso a Greenville, sua città adottiva, nel 2002.
O David ‘Honeyboy’ Edwards. Nei suoi ultimi anni attirò di più l’attenzione come testimone vivente, attraverso l’autobiografia e le interviste. Essendo nato nel 1915 a Shaw, Mississippi, e sopravvissuto fino al 2011, per qualche tempo è rimasto pressoché l’unico a parlare, per conoscenza e frequentazione diretta, di miti del blues morti e sepolti in un’altra epoca, da Charlie Patton a Tommy Johnson e Robert Johnson.
La via è relativamente breve, il tratto dei locali lo è ancora di più.
Spectators, uno di quelli in cui facciamo ricognizione per sapere se in serata c’è musica dal vivo, e l’unico con risposta positiva; decidiamo quindi di tornarci quando farà buio.
Consiglio però di più il Walnut Street Blues Bar. Non avevamo intenzione di entrarci perché quella sera non era prevista musica dal vivo, ma succede che non avendo nient’altro da fare torniamo in Walnut Street piuttosto presto (se le ventuno di un giovedì sera si può considerare presto, per un popolo che cena tra le diciotto e le diciannove) così non andiamo subito da Spectators e, passeggiando, siamo intercettati dal proprietario di questo locale, che si trovava all’interno con le braccia appoggiate sporgenti dall’inferriata di una di quelle finestre, per richiamare i passanti (non c’erano altri passanti).
Gli dico che stiamo andando dalla concorrenza perché nel pomeriggio ho saputo dalla donna che gestisce con lui il locale che quella sera non c’è musica live. Quando sa che siamo diretti da Spectators mi dice di lasciar perdere, che non è così bello come il suo locale, e si offre di farcelo visitare e fotografare.
Il Walnut Street Blues Bar è anche un piccolo museo, e in quanto ad accoglienza forse non ha rivali nella via.
Un unico avventore. Il proprietario si chiama Danny e la gestione è familiare, una coppia di mezz’età che si è reinventata qui. I dollari appesi al soffitto mi incuriosiscono, così mi mostra come fa.
L’azione è così fulminea che non colgo come funziona: Danny avvolge velocemente una banconota da un dollaro attorno a qualcosa passatogli dalla donna, e poi in un sol colpo la lancia verso l’alto, piazzandola di netto sul soffitto insieme alle altre, mentre qualcosa ricade giù.
Una mossa divertente che deve aver perfezionato facendola decine di volte. Voglio provarci anch’io, e mi spiega come farlo con una puntina e un quarter; il mio tentativo va a buon fine la seconda volta!
Il motto di Danny è: “Enter as a stranger, leave as a friend”.
Passiamo da Spectators, sicuramente più pulito ma anche più anonimo, niente da ricordare.
Noi e una coppia afroamericana siamo gli unici clienti
Ascoltiamo per un po’ questo tizio. Non mi piace molto, ma s’è mosso da casa per venire a suonare gratis a quattro gatti, quindi si merita una mancia.
Idem. Questo non è neppure tanto bravo con la chitarra.
La musicalmente quasi morta serata in Walnut Street finisce qui. La cosa migliore è rimasta Danny del Blues Bar.
A meno di non voler provare tutti i bar, ma non è il nostro caso.
Entrata al Tropicana Casino, verso l’argine.
Walnut Street di notte
Marker storico davanti all’edificio precedentemente sede del Delta Democrat Times, immortalato in Where Main Street Meets the River (1952), memorie di Hodding Carter, novellista e redattore premio Pulitzer, impegnato nella giustizia razziale e nella tolleranza religiosa. Addio Greenville, a presto Leland.
(Fonti: Steve Cheseborough, Blues Traveling, The Holy Sites of Delta Blues, University Press of Mississippi, Jackson, 2009, III ed.; Mississippi Blues Commission, Blues Trail Markers.)
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