Jimmy Witherspoon with The Duke Robillard Band
L’etichetta canadese Stony Plain ha pubblicato nel 2000 questo dischetto registrato dal vivo nell’autunno 1995 in un locale di Vancouver: una buona cosa dopotutto, anche se condotta sul filo della decadenza e a cui risulta facile attribuire il solito tempismo dovuto alla scomparsa del protagonista.
Si tratta di morbido jazz/blues after hours con un Jimmy Witherspoon romanticamente (o spietatamente) catturato sul viale del tramonto, e una band che sostiene il suddetto in modo pregevole. Il rischio latente c’era e da subito sembra pronto a evidenziarsi, ma è dimenticato sempre più dopo ogni minuto, cancellato dalla pacata distillazione di note pressoché perfette, escluse quelle di Witherspoon, legate fra loro da un patto di sopravvivenza siglato da un’incertezza quasi ostentata, e da una fibra minata già molti anni prima da un tumore alla gola.
Qui non bisogna aspettarsi di sentire qualcosa di simile alle registrazioni Modern Records, e sicuramente il neofita deve pescare là come prima cosa (v. il link sopra). Però l’effetto è discordante, biforcuto direi: da una parte la triste constatazione della fine di una voce meravigliosa e del personaggio ed epoca a cui era legata, dall’altra l’attrazione di un pathos quasi insostenibile che persiste orgoglioso, e l’occasione di sentire ‘Spoon ancora una volta prima della sua definitiva scomparsa, un paio d’anni più tardi.
Questo disco è sillabato, mormorato, con un suono che s’ostina a voler uscire in modo autonomo quasi come se lui, il cantante, non ci fosse già più e fosse un fantasma che guarda la scena. Esce con note afone, spiriti notturni in cerca tra i meandri di quella vibrazione che prima defluiva senza difficoltà, a piccoli tratti riuscendoci ancora.
Il primo impatto è scioccante, poi si trova un filo conduttore, qualcosa che sostituisce, un’evanescente bellezza insita nel cantante e non ancora sepolta, o semplicemente la voce si scalda, prima di non potercela fare davvero proprio più.
Il filo di salvezza arriva sotto forma di note tremule, indecise se rimanere spavalde sul rigo o scivolare giù, proprio come le gocce di sudore che imperlano la fronte del nostro blues singer. Lui lo sa, e allora le prende proprio lì, le note, a metà strada, tra lo stare su e il venire meno, tra il guizzo vitale e l’abbandono, nel breve spazio angoscioso di quello che si vorrebbe fare e non riesce più.
Breve testimonianza, sette tracce e solo sei cantate, ma nonostante tutto succosa, con sbuffi vitali soprattutto sui toni più sostenuti e sugli attacchi, che viceversa scompaiono sulle note basse e nelle chiuse, trasformati in rantolo. Una performance strappata alla resistenza di Witherspoon a chiusura di una carriera svoltasi nel periodo più glorioso della musica afroamericana, con una rivalità costante in un contesto talmente creativo da non aver eguali in nessun campo. Il merito del ritrovato senso di tutto ciò non è solo nella tenace forza residua di un baritono non più brillante, ma salta fuori soprattutto grazie all’accompagnamento della Duke Robillard Band, sempre attenta a non sopraffarlo.
Sensibilizzati maggiormente forse proprio dalle limitate risorse del cantante, confortati dal suo valore umano e artistico, gli uomini di Robillard sono un ideale e aderente contorno, un’onda lunga che scorre imperturbabile adattandosi a tutto. Scavano note precise, corpose, invecchiate come se fossero state chiuse anni nell’attesa dell’occasione speciale, con Gordon Beadle ai sassofoni baritono e tenore ispirato e ricco di spunti meravigliosi, non meno della chitarra di Duke Robillard, che nei momenti buoni sembra superare confini emozionali invalicabili. In quegli attimi di stasi quasi monotona, in cui si rischia d’arenarsi nell’attesa di Witherspoon, la band costruisce un comodo cuscino in cui il cantante può comodamente abbandonarsi con i suoi tempi reattivi e il suo stile laid back, un sostegno salutare per riposare la voce in quegli attimi in cui ha bisogno di recuperare, riconsegnandocela poi un poco più grassa e comunicativa.
Esemplari anche negli interventi solisti, Robillard e Beadle, come esemplare è il materasso “ortopedico” di ritmo, Marty Ballou e Marty Richards, su cui gli altri possono far rimbalzare le loro capacità con parsimonia ed esperienza. Sembra abbiano azionato un cruise control dinamico che fornisce il suono in modo coerente per tutto lo show, secondo la strada, le curve e gli ostacoli. Una specie di cambio automatico insito nei musicisti: niente sprechi d’energia, rare deviazioni distraenti; nel complesso un’economia ammirevole.
Dopo Glide On – introduzione strumentale di quattordici minuti in cui la band presenta le sue possibilità, la satura lucentezza, la compostezza della chitarra del Duca, gli espliciti discorsi al sax tenore del secondo front man Beadle, e i virtuosismi di buon gusto della sezione ritmica – Robillard presenta Witherspoon, esordiente con una sommessa Going Down Slow sul filo del rasoio, in bilico su delicati equilibri vocali: I have had my fun, if I don’t get well no more.
L’atmosfera “perfettina” cambia così di colpo, con un artista abbastanza malato da impensierire un po’ (neanche troppo vecchio, 73 anni, rispetto alla media degli uomini di blues tradizionale), ma ancora tanto grande da disperdere un’emozione incontrollabile, un calore impensabile che esce dalla voce impastata. If you see my mother tell her the shape I’m in / Tell her to pray for me, forgive me for all my sins. Robillard e i suoi tirano i fili, incanalando una tensione che sembra possa esplodere scomposta da un momento all’altro: forse non c’è canzone più adatta a lui in questo frangente.
Segue una temperata Big Boss Man che toglie quasi il fiato a Jimmy, risalente a stento sui gradini ritmici e tonali, ma che lo stesso riesce a portare avanti con leggerezza.
Tutto ciò è preludio al suo atteso cavallo di battaglia, l’Ain’t Nobody’s Business cantato mille volte ma pur sempre coinvolgente, e qui Beadle dà una grandissima mano. Un lento two, three, four scandisce il tempo per le prime inconfondibili parole sull’altrui curiosità e disprezzo.
Con il mid-tempo I’ll Always Be in Love with You si raggiunge il picco d’energia del nostro, il quale sul ritmo jump sembra rinascere al ruolo di crooner torbido e ammaliante sulle donne della prima fila. Dopo questo brillante exploit i compagni diluiscono con i loro solismi il suo impeto iniziale, ma il vigore è ripreso sul finale dell’assolo di batteria e poi su quello del basso, utili per farlo cavalcare di nuovo glorioso sulle ultime frasi.
La prova più difficile arriva con un’intensa Stormy Monday Blues, pane quotidiano per le corde di Robillard, ma calvario per l’incerto Jimmy, che a un certo punto sembra abbandonare le tonalità originali in un’interpretazione di “ripiego”, riuscendo ad arrivarci in fondo: davvero è un miracolo se va bene lo stesso, e il miracolo si chiama anche Duke Robillard Band.
Arriva sul palco Long John Baldry (scomparso nel 2005 a Vancouver, dove viveva da anni), e Spoon rammenta d’averlo incontrato a Londra trent’anni prima mentre registrava Times Are Gettin’ Tougher Than Tough (o Time’s Gettin’ Tougher Than Tough, in originale Money’s Getting Cheaper, di Jessie Mae Robinson): sul rassicurante e solido swing della band e l’aiuto della voce più soda e bluesy (un po’ forzatamente armstronghiana) del collega inglese, si completa l’ultimo set discografico di Jimmy Witherspoon.
Il pubblico è attento alle sfumature, rispettoso, riconoscente, e non si lascia sfuggire ogni piccolo richiamo che possa scaldare il freddo autunno canadese. Meglio farne tesoro, potrebbe nevicare fuori.
Un disco che si rende necessario solo ai collezionisti di Witherspoon per chiudere il capitolo o a quelli di Robillard come ulteriore testimonianza della sua classe, ma in fondo utile a tutti per vivere meglio le solitarie wee-wee hour. Suadenti, dolci, saporite, indimenticabili ore piccole blues.
È vietata la riproduzione anche parziale di questo articolo senza autorizzazione