Lonesome Sundown – I’m a Mojo Man

Cover of Lonesome Sundown CD "I'm a Mojo Man" (Ace Records)

Una raccolta ben fatta dall’inizio alla fine: divertente, varia, essenziale, e potrei continuare nelle qualità di questo ennesima e necessaria antologia Ace Records, etichetta inglese a cui auguro lunga vita. Finiti i meriti di ricerca, acquisizione, masterizzazione, pubblicazione e diffusione, andiamo a quelli propri di una figura come Lonesome Sundown e di chi lo accompagna, oltre che dell’uomo che permise esistenza e posterità a tutto questo: Jay D. Miller.
Raramente oggi l’aspetto commerciale può procedere così di pari passo e a lungo con tanta qualità musicale: l’irripetibilità di faccende come questa ne mette a fuoco il valore, l’universalità, il fascino, l’urgenza.

Nacque Cornelius Green il 12 dicembre 1928 in pieno Bayou Country, a Donaldsonville, cittadina sulla vecchia Highway 1 e allora nodo ferroviario, una quarantina di chilometri a sudest di Baton Rouge, nella Dugas Plantation. Da bambino cantava andando a scuola, e continuò a farlo più tardi mentre lavorava nei campi di canna da zucchero, oltre a impratichirsi da autodidatta sul pianoforte. Tra il 1946 e il 1948 partì per New Orleans con la sua chitarra economica e qui lavorò in diversi luoghi: come portiere in una casa da gioco nella Jefferson Parish (New Southport Club), e in un albergo, una riseria, una compagnia di costruzioni, come operaio e autista.
Nel 1950 tornò a Donaldsonville e di giorno riprese a lavorare nei campi, di sera s’applicava alla chitarra grazie alle lezioni di suo cugino. La prima canzone che imparò fu Boogie Chillun di John Lee Hooker e, secondo una sua dichiarazione, cominciò a sentirsi un bravo chitarrista nel 1952.
Nel 1953 si trasferì ancora e per un po’ lavorò in un’altra piantagione di canna da zucchero, vicino a Jeanerette, prima di spostarsi a Port Arthur, TX, dove trovò impiego alla Gulf Oil Refinery. Il tempo libero lo usava tutto per la musica, e alla sera andava a sentire suonare nei locali della zona, quando non suonava lui stesso:

There was a guy there playing Muddy Waters’ Still a Fool. The way he would introduce the number is where I got my style, but I already had a soul for the blues. I saw so many musicians playing on saturday night that I got better and better […] (1)

In uno di questi locali, il Blue Moon Club di Lake Charles, suona con uno dei suoi musicisti preferiti, Clifton Chenier, bisognoso di una formazione per andare in tour a promuovere il suo successo Specialty Ay-Tete-Fee. È il 1955, e Cornelius Green entra così nei Zydeco Ramblers come secondo chitarrista (l’altro è Phillip Walker). S’esibiscono nei locali della Gulf Coast e fino in California; durante i concerti Cornelius si rende conto che al pubblico non dispiace affatto il modo in cui interpreta il blues (la distinzione era tra brani pop, zydeco, ballate country/cajun e ogni genere di cosa la gente volesse ascoltare), così decide di dedicarvisi e di perfezionare lo stile.
A Los Angeles per registrare con il gruppo incontra ‘Bumps’ Blackwell, arrangiatore di Specialty, con il quale non riesce a ottenere un contratto da solista; in compenso ispira uno strumentale a Chenier semplicemente addormentandosi durante una sessione (The Cat’s Dreaming, incisa per la casa losangelena nella stessa occasione), e questo dice qualcosa sul personaggio, ben incastrato tra la proverbiale pigrizia di Lazy Lester e la flemma di Lightnin’ Slim.
Alla fine del 1955 lascia la band di Chenier, si sposa e si trasferisce a Opelousas, esibendosi come cantante e chitarrista in un trio guidato dal batterista Lloyd Reynaud, diventando di casa al Domino Lounge di Eunice e cominciando a comporre canzoni. Dopo aver sentito dell’attività di Jay Miller e dell’accordo che questi aveva con Excello Records, Lonesome prepara un demo casalingo e lo porta allo studio; Miller rimane ben impressionato e gli chiede di tornare con il gruppo. La prima idea del bluesman nei confronti del luogo è invece abbastanza confusa:

Era un negozio di riparazioni radio dentro uno studio di registrazione, e fra loro erano così mischiati che era difficile dire dove iniziava uno e finiva l’altro. (2)

Torna in studio con Lloyd Reynaud, cugino alla lontana di Clifton Chenier, che oltre ad esser bandleader è anche produttore e discografico, e registrano un paio di canzoni, Lost Without Love e Leave My Money Alone. Miller pensa al nome da dare al suo nuovo artista, segno che è intenzionato a spedire i nastri a Ernie Young per un singolo sul quale immagina un appellativo pittoresco stampato sopra.

Ho sempre cercato di cogliere il nome che s’adattasse alla personalità dell’artista, come Lazy Lester. E Lightnin’ Slim, era così lento in tutto quello che faceva […] Lonesome Sundown […] non arrivava mai troppo presto la maggior parte delle volte. Arrivava tardi, oppure arrivava presto, ma poi spariva e tornava tardi, e questa fu una cosa che mi colpì, Sundown era lo pseudonimo giusto per lui. (3)

Il debutto fu con l’ineluttabile Lost Without Love (Excello 2092, 1956); riff di chitarra ipnotico e riverberato, piano di Talton Miller trillante in sottofondo e scansione funerea di Reynaud alla batteria, anch’essi in eco come se il suono provenisse dall’androne di un palazzo. I crediti d’autore segnano Green e Miller (quest’ultimo nel suo pseudonimo West), e qui s’apre un mistero, almeno per me. La prima strofa (Just like a bird without a feather baby / You know I’m lost without your love (x2) / Well I need your lovin’ baby / Just like an angel needs heaven above) è uguale a quella di Just like a Bird without a Feather di R.L. Burnside la quale, a quanto ne so, è stata registrata la prima volta nelle sessioni di George Mitchell del 1967. È un’invenzione di Green, e Burnside s’è ispirato a questo brano, o era una consuetudine del blues e/o dell’Hill Country blues (cioè una “rima errante”), alla quale lo stesso Green (o Miller) s’è ispirato, e che Burnside ha pescato dai suoi maestri e sul territorio? Non si tratta, tra l’altro, solo del testo; anche la melodia, oltre che l’andamento ipnotico, è la stessa di Lost; in definitiva è lo stesso brano. Riprenderò il discorso sotto, dato che il mistero continua con My Home Is a Prison.
Un’altra cosa che ho notato mi rimanda invece a Late Last Night di Slim Harpo (v. in Disc 1), che m’è capitato di sentire poco prima (altrimenti forse non ci avrei badato), dove il pianoforte somiglia a questo di Lost, con veloci trill in sottofondo in contrasto con l’andamento lento; un contributo all’effetto drammatico. Harpo lo registrò alla fine del 1959, e il piano è attribuito a Sonny Martin o Katie Webster, molto probabilmente in overdub, mentre qui come abbiamo visto il pianista era Tal Miller, almeno secondo le note di copertina. I crediti delle sessioni di Miller sono da sempre fonte di dibattito e mancanze (soprattutto quelle relative ad Harpo, le cui annotazioni sono andate perse): in questo caso è dunque possibile che sia lo stesso pianista, pur a distanza di tre anni, o esisteva un’impronta idiomatica propria a un certo tipo di brani, richiesta dal produttore, per quanto riguarda soprattutto il piano? Il fatto che Miller sovraincidesse quasi sempre il pianoforte (come le percussioni aggiuntive) dopo la registrazione della traccia in studio potrebbe allinearsi con la seconda ipotesi.

Nel lato B Leave My Money Alone Sundown avanza elasticamente sul ritmo, poi intona la melodia del ritornello senza parole, tutto su un’eco che fa ondeggiare il suono, prima di ordinare il solo al pianista con Play that thing, boy! Queste due segnano l’ingresso del suggestivo Lonesome Sundown nell’olimpo sonoro di Crowley e in definitiva confermano lo stile swamp blues prodotto nello studio di Miller (il secondo, aperto dopo aver usato il negozio del padre, e quello dove nacquero tali sonorità). La voce di Sundown poteva rappresentare una novità, il lato morbido dello stile (Slim Harpo non aveva ancora registrato, avrebbe cominciato di lì a poco) e, pur sufficientemente infettiva, era più cittadina rispetto a quelle rustiche di coloro che a quella data avevano pubblicato su Excello, cioè Lightnin’ Slim, Lazy Lester e Guitar Gable (quest’ultimo cantava solo dal vivo, ricordo solo una volta la sua voce su nastro).
Il talento di Jay Miller come produttore e tecnico del suono è indubbio, ma quello come autore non era inferiore, anche se è difficile separare i talenti di Miller da quelli dei suoi interpreti, coloro che trasformavano in suono le sue o le loro idee e le concretizzavano attraverso un alfabeto che univa vite più che diverse, opposte: il bianco sudista vecchio stampo dalle convinzioni segregazioniste (4) e il nero ancora invischiato nell’epoca Jim Crow in cerca di identità e riscatto. È dagli esempi migliori usciti da quello studio (ma anche dai minori) che si coglie come il processo fosse spinto da un motore invisibile ben oliato. Miller lasciava libertà ai suoi artisti dal punto di vista creativo:

(…) Non volevo che gli artisti suonassero una canzone come io desideravo che la suonassero, ma se non erano ispirati o non la sentivano io cercavo di cambiare la canzone o di spiegare ciò di cui avevamo bisogno. (…) (5)

My Home Is a Prison (Excello 2102, 1957) è uno degli esempi di questa collaborazione. Miller scrive la canzone in studio in pochi minuti (poi la darà anche a Slim Harpo), e qui sono le altre due strofe che compongono Just like a Bird di Burnside, il quale usa la quarta e la seconda (con piccole variazioni). La melodia è la stessa di Lost, e in pratica è un’altra versione con parole diverse. Il produttore, ispirato dal disagio di Sundown al telefono con la moglie arrabbiata (essendo molto religiosa era contraria alla carriera mondana del marito), ricama sulle faccende personali del bluesman usando wandering rhyme della tematica carceraria, ma non so quanto cliché ci sia e quanto di originale; in ogni caso coglie il segno e confeziona un abito su misura:

My home is a prison
and I'm living in a world of tears
I've been in misery since the judge
gave me ninety-nine years

I had a real pretty woman
who said she loved no one but me
But I caught my baby cheatin',
now my home ain't where it used to be

I've got bread and milk for breakfast,
milk and bread every suppertime
And the food I got for dinner
is a low-down dirty crime

Yes it's true I shot my baby (Lord have mercy)
But I did it 'cause she did me wrong
Now the only thing I got
is this lonesome jail that I call home

Lonesome è vagamente triste, rassegnato e un po’ canzonatorio, attento alle sfumature, perso nella pietà per se stesso. Un canto malleabile e una certa dose di confidenza che non manca di attrarre l’ascoltatore, il tutto corredato da una chitarra altrettanto irresistibile, spessa, eloquente, sopra una ritmica che scandisce il tempo di un condannato all’ergastolo.
Solo tre minuti ed ecco che un velo di angoscia mista a quieta rassegnazione ci fa entrare nella sua cella, dove lo immaginiamo (o immaginiamo noi stessi) scontare i prossimi novantanove anni — la stessa fatidica pena che tutti i giudici infliggono ai bluesman e alle blueswoman imputati di omicidio forse perché, a parte la suggestiva iperbole blues, ninety-nine ha pronuncia dolce, come un’ironica ninna nanna.
Pure il retro, Lonesome Whistler, si fa notare, nonostante anche qui si tratti chiaramente di derivazione esterna, ancora dai vasti mari musicali del sud, dalla tradizione più prossima. Lonesome fischietta sopra un seducente ritmo habanera fornito dall’affidabile Clarence ‘Jockey’ Etienne, più Tal Miller al piano, Guitar Gable alla chitarra e ai woodblock probabilmente Lazy Lester dato che risulta presente in questa sessione d’inizio 1957; nel già citato vinile Flyright (Lonesome Whistler, v. nota 3) invece s’ipotizza sia Vince Monroe. Anche questo episodio è a firma Miller, in stile New Orleans sia per il ritmo che per il fischiettio rimandante a Professor Longhair, e non ultimo per il carattere fatalista:

Now folks just 'cause you hear me whistling
don't think I'm feeling glad
No, the matter of fact is
I'm feeling awful bad

My gal gone and left me
with some other guy
But what good would it do
for me to sit and cry?
Newspaper ad for Excello Records

Nasce nella stessa occasione anche il mid-tempo Don’t Say a Word, un lato del terzo singolo (Excello 2117, 1957). Lester è all’armonica con suono altissimo e lontano, direi ottenuto nel suo echo chamber.
La camera d’eco in origine era la camera oscura; sviluppare fotografie infatti era uno dei servizi che l’attività familiare (Miller & Sons Electric) forniva alla clientela. Fu Lester a stendere ben quattordici strati di pittura a olio sulle pareti dello sgabuzzino, dove poi sistemarono gli speaker e di fronte al muro i microfoni, in modo che il suono fosse catturato al rimbalzo, onda per onda, come un’eco naturale. Secondo le parole dell’armonicista, «se schioccavi le dita là dentro potevano saltarti i timpani». (6)
Ace mette queste cinque alla fine della raccolta, forse perché di qualità audio inferiore essendo state duplicate dai dischi, le uniche delle quali non è stato trovato il master originale.
Nel novembre dello stesso anno sono prodotti altri tre brani pare con la stessa, ficcante formazione, dalla quale uscì il disco (Excello 2132) con Lonely Lonely Me e I’m a Mojo Man.
La prima inizia con lo stesso riff di My Home Is a Prison. L’atmosfera è rarefatta e carica di umori pesanti, con percussiva delle spazzole e credo di washboard, la chitarra riverberata e il pianoforte trillante, forse sempre Talton (detto Tal) Miller.
Fantastico il retro, I’m a Mojo Man, che si può considerare il suo signature song e connubio tra swamp blues, pop e hillbilly/rockabilly. La ritmica è quanto di più efficace si possa ottenere, il basso è elastico e profondissimo, nel senso di lontano (come se fosse altrove, in altra stanza o forse a Memphis) e l’armonica di Lester calza così a puntino da esser il respiro stesso del brano, la sua anima volatile. C’è un lieve calo sonoro circa a metà del brano, forse un difetto di registrazione.

Il già citato FLY LP 587 del 1982, Lonesome Whistler, contiene dodici tracce, tra le quali nove originali (pubblicati anche qui) e una Mojo Man alternativa addirittura più veloce, un rockabilly intrusivo dal tiro prodigioso.
Le altre due invece sono titoli sconosciuti. Uno è California Blues, che secondo le note del vinile sarebbe del 1956, quindi con ancora Tal Miller, Lloyd Reynaud e allo slapping Vince Monroe. Il motivo per cui non fu pubblicata è forse da attribuire alla troppa somiglianza con K.C. Lovin’ di Little Willie Littlefield (vale a dire Kansas City, di Leiber & Stoller), ma se si pensa che nel 1959, cioè tre anni dopo California Blues, Wilbert Harrison fece di Kansas City un gran successo (da lì il brano è diventato uno standard, con centinaia di versioni), si può pensare alla versione inedita di Sundown come a un’occasione mancata; buona anche l’alternativa con lo stesso titolo presente su un altro vinile Flyright dedicato a Sundown. (7)
L’altro inedito è l’uptempo da sala da ballo à la Big Joe Turner Give It Up del 1957, in cui c’è armonia vocale, forse dei Gaynotes, senza batteria ma con percussioni varie, forse di Vince Monroe se non si tratta di overdub, perché Lester intanto era nel suo echo chamber con l’armonica, mentre il piano è attribuito a John Johnson e la chitarra a Guitar Gable. Sempre secondo le note del vinile questa risale a una sessione del 10 giugno 1957, la stessa che avrebbe dato Lonely, Lonely Me, Don’t Say a Word e Mojo Man, le quali invece nelle note di questo CD sono appunto attribuite a due sessioni distinte del 1957, una dei primi mesi dell’anno e una di novembre, e il piano dato a Tal Miller. In questo periodo il suo gruppo live era formato da John Hart e Roland Lewis, sax tenori, John Gradego, armonica, Albert Lazard, chitarra, Milton Lazard, basso, Harry Sew Jr, batteria.
Tornando a questa raccolta, il terzo brano pubblicato dalla sessione del novembre 1957 è la sbuffante (grazie ai pronunciati effetti di slapping e washboard) You Know I Love You, che sarà un lato del sesto singolo (Excello 2154, 1959). È appena al di sopra dei due minuti, quasi uno stacchetto: c’è una base di pianoforte in walkin’ bass, l’armonica a registro acuto e un piccolo solo finale di chitarra.

I Stood By e Don’t Go arrivano da una sessione del settembre 1958 con Lazy Lester, Tal Miller, ‘Jockey’ Etienne, il fratello più giovane di Guitar Gable, ‘Fats’ Perrodin, al basso e forse Leroy Washington alla lead guitar. Nel vinile FLY 587 invece si legge John Johnson al piano, e che la registrazione fu del tardo 1957.
Il primo titolo è un lento dal passo pesante ben incorniciato da una chitarra un po’ alla T-Bone Walker, con incipit anche in questo caso rubato a My Home Is a Prison. Un’alternativa è presente nel vinile Flyright Bought Me a Ticket con il titolo Bad Woman Blues.
Il secondo è un tempo più medio che veloce, e il solo sembra confermare che alla lead probabilmente c’era davvero Washington, chitarrista sottovalutato la cui presenza sarebbe compatibile con il periodo della registrazione. Infatti, il primo singolo Excello di Washington (2144) uscì nel 1958 proprio prima di questo di Sundown (2145), e conteneva il suo classico Wild Cherry (ripreso da Kim Wilson in Painted On).
Potrebbero aver fatto una o più sessioni insieme o lo stesso giorno entrambi come titolari, dato che i loro nastri furono confusi. Flyright ha dedicato a Washington il volume 25 della serie, Wild Cherry (FLY LP 574, 1981). La coppia I Stood By / Don’t Go uscì anche per il mercato canadese (REO 8311).
Della sessione del maggio 1959 solo Gonna Stick to You Baby sarà pubblicato su singolo (Excello 2163, 1959). Come al solito l’unico accompagnatore sicuro è Lester, sia per il suono e lo stile inconfondibili che per l’assidua presenza in studio, e parte dei brani più riusciti a cui ha partecipato entreranno poi nel suo repertorio solista, portandoli direttamente a noi alle soglie degli anni 2000. È un uptempo brillante e trascinante, con Lester protagonista e una base ritmica elastica e solida in cui ormai il pianoforte e il basso ne sono diventati parte costante a differenza dei primi anni delle registrazioni Miller, ed è uno dei tanti brani di Sundown che avrebbe meritato il successo nazionale.

Lonesome Sundown and J.D. Miller in the studio, 1958 ca

L’anno 1960 vide solo una pubblicazione (Excello 2174), il veloce Learn to Treat Me Better è il lato qui incluso. Fu registrato a inizio anno e il piano, forse ancora Tal Miller, muove la base con energia mentre la chitarra ha parte solista. È difficile identificare il pianista in questo periodo, perché Katie Webster già aveva suonato in studio, ma sempre in overdub (e quindi i presenti non la ricordavano), e lo stile ritmico di Tal Miller era simile a quello di Webster (e viceversa), con trilli di mano destra sulle note alte (v. sopra a proposito di Lost Without Love).
Dalla seduta del settembre 1961 uscirono due singoli molto belli, anche se purtroppo la loro breve durata, a volte anche di molto inferiore ai tre minuti, li porta via sul più bello. Il lato A del disco Excello 2202 (1961) aveva l’atmosferico lento Lonesome Lonely Blues, impreziosito dai ghirigori di Katie Webster e dal caldissimo, mirabile sax di Lionel Prevost (che pubblicò come Lionel Torrence), sessionman di punta e forse il migliore sassofonista su quella piazza, come Sundown ex sideman di Clifton Chenier.
In Bought Me a Ticket c’è una versione differente con un suono incredibile, chiamata I’m so Tired e altrettanto, se non di più, ammirevole, quasi commovente; il piano è assente, il bellissimo sax tenore è rauco e striato, e le linee di chitarra sono più pungenti.

Il retro era lo splendido mid-tempo I’m Glad She’s Mine, dimostrante il livello raggiunto dalle interpretazioni temperate e malleabili di Lonesome Sundown, tra lo swamp blues e lo swamp pop in un miscuglio di umori e sapori tipici della Louisiana. Solo due minuti e sette secondi di spensieratezza, condotta dalla sua voce morbida e dal sassofono pulito di Prevost, e ancor più lascia senza parole la versione uptempo in Bought Me a Ticket, con il titolo She’s Fine: boogie dal tiro incredibile, batteria perfetta (Etienne? Warren Storm?), sax di Prevost e sei corde corrosiva di Sundown.
L’altro singolo fu l’Excello 2213 (1962): da una parte la baldanzosa, come sempre ben cantata, My Home Ain’t Here (If anybody asks you who’s that singin’ that song / Just tell him it’s Mr Sundown and he’s been dead and gone) di nuovo su base pimpante jump-blues, dall’altra la pensosa, lunatica I Woke up Crying (Oh What a Dream), con il tipico passo medio/lento reso sempre particolare dalla voce e dalle caratteristiche dei vari interpreti, e dalla chitarra in eco lontana con effetto lirico e sognante.
Arriva dalla stessa sessione l’inedito Sundown Blues, lento che scende come lava. Dato che è molto bello, probabilmente non è stato pubblicato solo perché somigliante a Woke Up – sembrano due versioni dello stesso brano, anche se con parole diverse.
Inedita anche What You Wanna Do It For, che invece sembra un’altra versione di My Home Ain’t Here. È un uptempo con band al completo esclusa l’armonica per quello che ormai è un suono urbano, ma sempre ficcato nella tradizione downhome. Il pianoforte dovrebbe essere Katie Webster, e possibilmente la coppia McBride/Storm alla ritmica.
Nel 1963 Sundown ebbe una piccola divagazione a Opelousas, come seconda chitarra, in un disco prodotto dal vecchio amico Lloyd Reynaud (Reynaud 1018), I Broke the Yo Yo / Born for Bad Luck di Roscoe Chenier con The Blue Runners.

Dopo quasi due anni, la sessione del giugno 1963 mostra ovviamente una formazione diversa, con Sylvester Buckley e, forse, Isaiah Chatman, Bobby McBride e Sammy Hogan, il figlio di Silas. Ne esce il disco (Excello 2236, 1963) con I’m a Samplin’ Man, brano originale contratto dalla marcia della batteria di Hogan e dal basso profondo, a cui Buckley aggiunge brio con uno squisito intervento all’armonica: tutto molto adatto per uno che in campo amoroso si ritiene un “esempio d’uomo”.
Il lato A era When I Had I Didn’t Need (Now I Need, Don’t Have A Dime), altro autentico schizzo in un’epoca che sta per chiudere (momentaneamente) il sipario sul blues, qui in versione alternativa.
Nello stesso giorno nacquero anche I Got a Broken Heart, lato del singolo Excello 2249 del 1964, e Hoo Doo Woman Blues, che invece fu un lato del singolo 2259 dello stesso anno. Il primo è un medio/lento a stop time in pieno stile urbano, ancora con movimento molto profondo e vocalità vibrante e armoniosa, e un’alternativa altrettanto valida è presente in Bought Me a Ticket, con il titolo I Got Love in My Heart. Il secondo sembra un rifacimento di I Stood By, con liriche diverse; è una ballata blues intrusiva e potente, con bel vibrato di Buckley.

L’ultima sessione di Sundown a produrre un disco per l’etichetta di Nashville fu nel maggio 1964.
Non ho idea perché lo stupendo I’m a Young Man rimase inedito. Come sempre la limpida interpretazione di Sundown, dal tocco leggero e arguto, restituisce un abbozzo venato di humour, compatibile con la tradizione afroamericana del gioco autoironico e vanaglorioso, e il riferimento all’epocale Sixty Minute Man è chiaro. Due chitarre fantastiche (l’altra potrebbe essere Al Foreman), ritmica infallibile di Rufus Thibodeaux (qui al basso, ma è noto come violinista cajun) e Warren Storm, e forse sotto c’è anche il piano di Webster.
L’ultimo singolo (Excello 2264, 1965) sul lato A aveva la piacevole It’s Easy When You Know How, alla Ray Charles, con la stessa formazione e sax molto calzante, dimostrante quanto fosse ancora ispirato e quanto lo studio producesse ancora qualità, nonostante questi ultimi dischi (suoi e di altri artisti della scuderia) rappresentassero la fine di un’epoca, quella dei 45 giri rivolti al mercato afroamericano.
Data la difficoltà nel reperire i vinili della corposa collezione Flyright, di tanto in tanto qualche CD è stato compilato per riproporre in parte ciò che negli anni 1970/1980 fu pubblicato dall’etichetta del Sussex.
Nel caso di Lonesome Sundown furono tre gli LP a suo nome (FLY LP nn. 529, 587 e 617), e nel 1990 una produzione francese ha rilasciato una compilazione (Lonesome Sundown, Flyright Records, FLY CD 16) estraente ventidue tracce dai tre LP con il criterio di offrire una panoramica della sua carriera, dal 1956 al 1964. Naturalmente si tratta per la maggior parte di alternative dei dischi Excello (con questa raccolta Ace ha in comune tredici canzoni), e non sostituisce una compilazione come questa che ho recensito, ma è occasione per ampliare la conoscenza e sentire anche qualche titolo totalmente inedito (cioè non alternativo). Io ho avuto il piacere di acquistarlo a Crowley dal figlio di J.D. Miller, Mark, a poca distanza da dove i brani originali sono stati prodotti.

Traumatizzato da vicende personali e insoddisfatto dopo dieci anni, sedici singoli e un album pubblicati senza introiti e visibilità, Sundown si ritira dalla musica.
Nel 1965 lo si poteva vedere a Opelousas come manovale, in giro a bordo della sua moto, o a pregare in chiesa tutti i giorni, tanto che il 7 febbraio 1965 s’unisce ufficialmente alla Apostolic Faith Fellowship (8) e in seguito ne diventa un ministro.
Nel 1977 riaffaccia la testa nel music business registrando un album a Los Angeles per Joliet di Bruce Bromberg, Been Gone Too Long, e avendo un discreto successo in Louisiana con un singolo tratto dall’album, I Betcha / Louisiana Lover Man (Joliet 212), il suo ultimo disco.
Nonostante la presenza del vecchio amico Phillip Walker e tutto sommato sia un buon disco blues, compatibile con un primo, timido rientro, purtroppo non vendette molto, il che non stupisce dato il periodo in cui uscì, anche se fu ristampato come LP da Alligator e due volte come CD negli anni 1990 da Hightone quando, probabilmente, il pubblico non perdonava il fatto di non poter più essere swamp blues: troppo blues per gli anni Settanta, poco per gli anni Novanta.
Nel 1979 torna a Opelousas come manovratore di bulldozer per una compagnia di costruzioni di Lafayette. Ha occasione di suonare al rinomato Jazz and Heritage Festival di New Orleans, ma purtroppo il suo set è rovinato da una band improvvisata. Fa anche un tour in Svezia e in Giappone con Phillip Walker, prima di ritirarsi definitivamente e di trasferirsi a Baton Rouge attorno al 1980.
Nel 1994 viene colpito da un grave infarto, perdendo la capacità di parola. Tra gli amici in visita c’è Rudolph Richard, suo riconoscente allievo ed ex chitarrista di Slim Harpo: (9)

Coloro che non hanno visto Sundown quando era in forma hanno davvero perso qualcosa. Aveva un senso di padronanza quando saliva sul palcoscenico come nessun altro. Quando suonava un blues tutti si fermavano e ascoltavano – avresti potuto sentire cadere una goccia. Ecco il tipo di artista che era.

L’ultimo tramonto solitario Cornelius Green l’ha avuto a Gonzales, Louisiana, il 23 aprile 1995, e nel 2000 è entrato nel Louisiana Blues Hall of Fame.

(Fonti: John Broven, South to Louisiana: The Music of the Cajun Bayous, Pelican Publishing Company, Gretna, LA, 1983, dal quale è anche tratta l’immagine di Sundown con Miller; Note di Jeff Hannusch a Lonesome Sundown, I’m a Mojo Man, Ace Records Ltd. CDCHD 556, 1994; Album della serie The Legendary Jay Miller Sessions, Flyright Records, ove indicati).


  1. In John Broven, op. cit. nelle fonti, pag. 134.[]
  2. Note al CD I’m a Mojo Man, cit. nelle fonti.[]
  3. Lonesome Sundown, Lonesome Whistler 1956-58, Vol. 29, serie The Legendary Jay Miller Sessions, FLY LP 587.[]
  4. Miller pubblicò sulla sua etichetta Rebel ‘Pee Wee’ Trahan, aka Johnny Rebel, cantante bianco suprematista.[]
  5. Lonesome Sundown, Lonesome Whistler 1956-58, sopracit.[]
  6. Non ricordo dove ho letto questa citazione[]
  7. Lonesome Sundown, Bought Me a Ticket, Vol. 8, serie The Legendary Jay Miller Sessions, FLY LP 529.[]
  8. L’intera denominazione è “Lord Jesus Christ of the Apostolic Faith Fellowship Throughout the World Church”![]
  9. Aggiornamento 2023: Richard conobbe Sundown durante il periodo di quest’ultimo con Chenier; di solito Sundown lo chiamava sul palco, e fu sempre lui a raccomandare Richard a Slim Harpo. Harpo era un grande amico di Lonesome Sundown. Oltre alla frase che segue nel testo, Richard disse di Cornelius Green: «That man could play real well. He taught me so much, in fact, I got to the point where I could play all his licks». E ancora: «I started going by his house and, man, he really started putting something on my mind then. He didn’t want me to play dirty licks. Keep it clean, you know? And Sundown taught me not to play too loud. If you play too loud, people are going to tolerate it for awhile, but the next thing you know you’re going to be playing by yourself. (…)». Entrambe le citazioni sono nel libro di Martin Hawkins, Slim Harpo, Blues King Bee of Baton Rouge, Louisiana State University Press, Baton Rouge, 2016, rispettivamente a pag. 109 e 159.[]
Scritto da Sugarbluz // 16 Febbraio 2012
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2 risposte

  1. Mark Slim ha detto:

    “Il tempo libero lo usava tutto per la musica, e alla sera andava a sentire suonare nei locali della zona, quando non suonava lui stesso”. Mi ci ritrovo anche io in queste parole…

  2. Sugarbluz ha detto:

    You’re one of a kind

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