Lonesome Sundown – I’m a Mojo Man
Divertente, varia, essenziale, questa ennesima e necessaria antologia Ace Records, etichetta inglese a cui auguro lunga vita.
Grazie ai loro meriti di ricerca, acquisizione, masterizzazione, pubblicazione e diffusione, oggi possiamo facilmente accedere a quelli propri di una figura poco nota come Lonesome Sundown oltre che, a catena, dei vari conosciuti e misconosciuti musicisti, solisti e accompagnatori, animanti gli studi di colui che permise esistenza e posterità a tutto un mondo, sotto forma di un particolare idioma musicale, che altrimenti si sarebbe disperso: Jay D. Miller. L’irripetibilità e l’unicità di una vicenda come questa ne hanno messo a fuoco il valore, l’universalità, il fascino, l’urgenza.
Lonesome Sundown nacque Cornelius Green il 12 dicembre 1928 in pieno Bayou Country, a Donaldsonville, cittadina sulla vecchia Highway 1 e allora nodo ferroviario, una quarantina di chilometri a sudest di Baton Rouge, nella Dugas Plantation. Da bambino cantava andando a scuola, e continuò a farlo più tardi mentre lavorava nei campi di canna da zucchero, oltre a impratichirsi da autodidatta sul pianoforte. Tra il 1946 e il 1948 partì per New Orleans con la sua chitarra economica e qui lavorò in diversi luoghi: come portiere in una casa da gioco nella Jefferson Parish (New Southport Club), e in un albergo, una riseria, una compagnia di costruzioni, come operaio e autista.
Nel 1950 tornò a Donaldsonville e di giorno riprese a lavorare nei campi, di sera s’applicava alla chitarra grazie alle lezioni di suo cugino. La prima canzone che imparò fu Boogie Chillun di John Lee Hooker e, secondo una sua dichiarazione, cominciò a sentirsi un bravo chitarrista nel 1952.
Nel 1953 lavorò in un’altra piantagione di canna da zucchero, vicino a Jeanerette, prima di spostarsi a Port Arthur, TX, dove trovò impiego alla Gulf Oil Refinery. Il tempo libero lo usava tutto per la musica, e alla sera andava a sentire suonare nei locali della zona, quando non suonava lui stesso:
There was a guy there playing Muddy Waters’ Still a Fool. The way he would introduce the number is where I got my style, but I already had a soul for the blues. I saw so many musicians playing on saturday night that I got better and better […] (1)
In uno di questi locali, il Blue Moon Club di Lake Charles, suona con uno dei suoi musicisti preferiti, Clifton Chenier, bisognoso di una formazione per andare in tour a promuovere il suo successo Specialty Ay-Tete-Fee. È il 1955, e Cornelius Green entra così nei Zydeco Ramblers come secondo chitarrista (l’altro è Phillip Walker). S’esibiscono nei locali della Gulf Coast e fino in California; durante i concerti Cornelius si rende conto che al pubblico non dispiace affatto il modo in cui interpreta il blues (la distinzione era tra brani pop, zydeco, ballate country/cajun e ogni genere di cosa la gente volesse ascoltare), così decide di dedicarvisi e di perfezionare lo stile.
A Los Angeles per registrare con il gruppo incontra ‘Bumps’ Blackwell, arrangiatore di Specialty, ma non riesce a ottenere un contratto da solista; in compenso ispira uno strumentale a Chenier semplicemente addormentandosi durante una sessione (The Cat’s Dreaming, incisa per la casa losangelena nello stesso frangente), e questo dice qualcosa sul personaggio, a suo agio tra la proverbiale pigrizia di Lazy Lester e la flemma di Lightnin’ Slim.
Alla fine del 1955 lascia la band di Chenier, si sposa e si trasferisce a Opelousas, esibendosi come cantante e chitarrista in un trio guidato dal batterista Lloyd Reynaud, cugino alla lontana di Clifton Chenier, diventando di casa al Domino Lounge di Eunice e cominciando a comporre canzoni. Dopo aver sentito parlare dell’attività di Jay Miller e dell’accordo che questi ha con Excello Records, Cornelius prepara un demo casalingo e lo porta allo studio di Crowley; Miller rimane ben impressionato e gli chiede di tornare con il gruppo. La prima idea del bluesman nei confronti del luogo è invece abbastanza confusa:
Era un negozio di riparazioni radio dentro uno studio di registrazione, e fra loro erano così mischiati che era difficile dire dove iniziava uno e finiva l’altro. (2)
Torna in studio con Reynaud, che oltre a essere bandleader è anche produttore e discografico, e registrano qualche brano (sessione del sett. 1956 circa) tra cui Lost without Love e Leave My Money Alone. Miller pensa al nome da dare al suo nuovo artista, segno che è intenzionato a spedire i nastri a Ernie Young di Excello per un singolo sul quale immagina un appellativo pittoresco stampato sopra.
Ho sempre cercato di cogliere il nome che s’adattasse alla personalità dell’artista, come Lazy Lester. E Lightnin’ Slim, era così lento in tutto quello che faceva […] Lonesome Sundown […] non arrivava mai troppo presto la maggior parte delle volte. Arrivava tardi, oppure arrivava presto, ma poi spariva e tornava tardi, e questa fu una cosa che mi colpì, Sundown era lo pseudonimo giusto per lui. (3)
Il debutto sul singolo Excello 2092 (1956) suona il brano più convincente sul lato B con l’ineluttabile Lost without Love. Riff di chitarra ipnotico e riverberato, piano di Talton Miller trillante in sottofondo e scansione funerea di Reynaud alla batteria, anch’essi in eco come se il suono provenisse dall’androne di un palazzo. I crediti d’autore segnano Green e Miller (quest’ultimo nel suo pseudonimo West), e qui s’apre un piccolo mistero, almeno per me.
Non solo la prima strofa di Just like a Bird without a Feather di R.L. Burnside è uguale alla prima di Lost without Love (Just like a bird without a feather baby / You know I’m lost without your love (x2) / Well I need your lovin’ baby / Just like an angel needs heaven above), ma anche la chitarra, oltre che l’andamento ipnotico, è la stessa. È unanimemente accreditata a Burnside (anche da BMI), ma quest’evidenza ne esclude la paternità dato che egli la registra la prima volta nelle sessioni di George Mitchell del 1967 (che sono anche le sue prime incisioni in assoluto). È un’invenzione di Green, e Burnside s’è ispirato a questo brano, o era una tradizione del blues e/o dell’Hill Country blues, alla quale lo stesso Green s’è ispirato, e che Burnside ha pescato dai suoi maestri e sul territorio? In definitiva è lo stesso brano con due strofe diverse dopo la prima uguale, ma non finisce qui dato che quelle due strofe a loro volta si trovano nel singolo successivo di Sundown, in un brano di Miller, My Home Is a Prison (v. sotto).
Un’altra cosa che ho notato mi rimanda invece a Late Last Night di Slim Harpo (v. in Disc 1), che m’è capitato di sentire poco prima, dove il pianoforte somiglia a questo di Lost, con veloci trilli in sottofondo in contrasto con l’andamento lento; un contributo all’effetto drammatico. Harpo lo registra alla fine del 1959, e il piano è attribuito a Sonny Martin o Katie Webster, molto probabilmente in overdub, mentre qui come abbiamo visto le note di copertina lo danno a Tal Miller. I crediti delle sessioni di Miller sono da sempre fonte di dibattito e mancanze (nel caso di Harpo le annotazioni sono andate perse, ma in generale pare che non tenesse nota delle sessioni): è dunque possibile che sia lo stesso pianista, pur a distanza di tre anni, o è un’impronta idiomatica propria a un certo tipo di brani, richiesta dal produttore, per quanto riguarda soprattutto il piano? Il fatto che Miller sovraincidesse quasi sempre il pianoforte (come le percussioni aggiuntive) dopo la registrazione della traccia in studio potrebbe allinearsi con la seconda ipotesi.
Comunque anche il lato A, Leave My Money Alone, si fa notare. Sundown avanza elasticamente con un riff quasi rockabilly a uso ritmico, canta su un’eco che fa ondeggiare il suono, poi intona il chorus a bocca chiusa prima di ordinare il solo (boogie) al pianista con Play that thing, boy!
Queste due segnano l’ingresso del suggestivo Lonesome Sundown nell’olimpo sonoro di Crowley e confermano lo stile swamp blues prodotto nello studio di Miller (il secondo, aperto dopo aver usato il retro dell’attività familiare, e quello dove nascono tali sonorità). La voce di Cornelius poteva rappresentare una novità, il lato morbido e più moderno dello stile (Slim Harpo non aveva ancora registrato, avrebbe cominciato di lì a poco); pur sufficientemente infettiva, era più cittadina rispetto a quelle rustiche di coloro che a quella data avevano pubblicato su Excello, cioè Lightnin’ Slim, Lazy Lester e Guitar Gable (quest’ultimo cantava solo dal vivo, ricordo solo una volta la sua voce su nastro).
Il talento di Jay Miller come produttore e tecnico del suono è indubbio, ma quello come autore non era inferiore, anche se è difficile separare i talenti di Miller da quelli dei suoi interpreti, coloro che trasformavano in suono le sue o le loro idee e le concretizzavano attraverso un alfabeto che univa vite più che diverse, opposte: il bianco sudista vecchio stampo dalle convinzioni segregazioniste (4) e il nero ancora invischiato nell’epoca Jim Crow in cerca di identità e riscatto. È dagli esempi migliori usciti da quello studio (ma anche dai minori) che si coglie come il processo fosse spinto da un motore invisibile ben oliato. Miller lasciava libertà ai suoi artisti dal punto di vista creativo:
(…) Non volevo che gli artisti suonassero una canzone come io desideravo che la suonassero, ma se non erano ispirati o non la sentivano io cercavo di cambiarla o di spiegare ciò di cui avevamo bisogno. (…) (5)
My Home Is a Prison (Excello 2102, 1957) è un bell’esempio di questa collaborazione. Miller la scrive in studio in pochi minuti (poi la darà anche a Slim Harpo), e qui sono le altre due strofe che ritroviamo in Just like a Bird di Burnside (v. sopra), il quale usa la quarta e la seconda (con piccole variazioni). La melodia è quasi la stessa di Lost, come un’altra versione con parole diverse. Il produttore, ispirato dal disagio di Sundown al telefono con la moglie arrabbiata (essendo molto religiosa era contraria alla carriera mondana del marito), ricama sulle faccende personali del bluesman usando wandering rhyme della tematica carceraria, cogliendo il segno e confezionando un abito che il nostro veste con grande eleganza stilistica:
My home is a prison
and I'm living in a world of tears
I've been in misery since the judge
gave me ninety-nine years
I had a real pretty woman
who said she loved no one but me
But I caught my baby cheatin',
now my home ain't where it used to be
I've got bread and milk for breakfast,
milk and bread every suppertime
And the food I got for dinner
is a low-down dirty crime
Yes it's true I shot my baby (Lord have mercy)
But I did it 'cause she did me wrong
Now the only thing I got
is this lonesome jail that I call home
Lonesome è vagamente triste, rassegnato e un po’ canzonatorio, attento alle sfumature, perso nella pietà per se stesso. Un canto malleabile e quella dose di confidenza che non manca di attrarre l’ascoltatore, con una chitarra altrettanto irresistibile, economica ed eloquente, su una ritmica che scandisce il tempo di un condannato all’ergastolo. Solo tre minuti e un velo di angoscia ci fa sostare nella sua cella, dove lo immaginiamo (o immaginiamo noi stessi) scontare i prossimi novantanove anni — fatidica pena iperbolica che il giudice-tipo infligge ai bluesman e alle blueswoman imputati di omicidio, forse perché ninety-nine ha pronuncia dolce, da ironica ninna nanna.
Dalla stessa sessione (Tal Miller al piano in My Home Is a Prison e Don’t Say a Word) proviene il retro, Lonesome Whistler, su cui Lonesome suona, parla e fischietta condotto da un seducente ritmo habanera fornito dall’affidabile Clarence ‘Jockey’ Etienne, con Guitar Gable alla (seconda?) chitarra e probabilmente Lazy Lester ai woodblock (o skull heads) dato che risulta presente in questa sessione d’inizio 1957; nel già citato vinile Flyright (Lonesome Whistler, v. nota 3) invece s’ipotizza sia Vince Monroe. Anche questo episodio è a firma Miller, in stile New Orleans sia per il ritmo che per il fischiettio rimandante a Professor Longhair, e volendo anche per il carattere fatalista:
Now folks just 'cause you hear me whistling
don't think I'm feeling glad
No, the matter of fact is
I'm feeling awful bad
My gal gone and left me
with some other guy
But what good would it do
for me to sit and cry?
Nasce nella medesima occasione anche il mid-tempo Don’t Say a Word, da lui firmato, lato B del suo terzo singolo (Excello 2117, 1957; il lato A era I’ve Got the Blues, qui non presente). Lazy Lester è all’armonica con suono altissimo e lontano, senz’altro ottenuto nell’echo chamber.
A detta di Lester la camera d’eco in origine era la camera oscura; sviluppare fotografie, sempre secondo Lester, era uno dei servizi che l’attività familiare di Miller forniva alla clientela. Fu lui a stendere ben quattordici strati di pittura a olio sulle pareti dello sgabuzzino, rivolte alle quali sistemarono gli altoparlanti e due microfoni, anch’essi verso il muro, in modo che il suono fosse catturato al rimbalzo, onda per onda, come un’eco naturale. Secondo le parole dell’armonicista, «se schioccavi le dita là dentro potevano saltarti i timpani». (6) Ace mette queste cinque alla fine della raccolta, forse perché di qualità audio inferiore essendo state duplicate dai dischi, le uniche delle quali non è stato trovato il master.
Al novembre dello stesso anno sembrano appartenere molti brani (secondo Wirz), ma non è escluso che possa esserci stata una sessione precedente, in estate, o anche una terza, dato che il personale non coincide. Il primo disco che esce da questo periodo (Excello 2132, 1958), pare con la stessa formazione sopradetta, presenta Lonely Lonely Me e I’m a Mojo Man. Lonely, a firma Miller, ha lo stesso riff (e andatura) di My Home Is a Prison (e quindi di Lost without Love). L’atmosfera è rarefatta e carica di umore, con percussiva di spazzole (forse su cartone) e leggermente di washboard o di shakers, chitarra riverberata e pianoforte trillante, quest’ultimo apparentemente ancora Talton (detto Tal) Miller.
Fantastico il retro, I’m a Mojo Man, che potremmo considerare il suo signature song e connubio tra swamp blues e rockabilly, direi ispirato da Got My Mojo Working di Muddy Waters, uscito proprio nel 1957. Ritmica più che efficace, basso (attribuito a John Clinton ‘Fats’ Perrodin, fratello minore di Guitar Gable) alla Memphis, elastico e lontano come se fosse in altra stanza, e armonica di Lester così calzante da esser il respiro stesso del brano, la sua anima. C’è un lieve calo sonoro circa a metà del brano, forse un difetto di registrazione.
Il già citato FLY LP 587 Lonesome Whistler contiene dodici tracce, di cui tre inedite ai tempi; una però è solo una versione alternativa di Mojo Man più veloce, un rockabilly intrusivo dal bel tiro.
Le altre due invece erano del tutto inedite, a partire da California Blues, che secondo le note del vinile sarebbe del 1956 (stessa sessione di Lost without Love), quindi con ancora Tal Miller, Lloyd Reynaud e allo slap di percussioni Vince Monroe. Il motivo per cui non fu pubblicata è forse da imputare alla troppa somiglianza con K.C. Lovin’ di Little Willie Littlefield (vale a dire Kansas City, di Leiber & Stoller), ma se si pensa che nel 1959, cioè tre anni dopo, Wilbert Harrison ne estrasse un gran successo (diventando uno standard con centinaia di versioni), si può pensare alla versione inedita di Sundown come a un’occasione mancata, anche se avrebbe dovuto esser rifinita nel suono e dotata di una conclusione. Un’altra versione è presente nel primo vinile Flyright dedicato a Sundown (Bought Me a Ticket, Vol. 8, serie The Legendary Jay Miller Sessions, FLY LP 529).
L’altra inedita è il rock ‘n’ roll da sala da ballo à la Big Joe Turner Give It Up del 1957, in cui c’è l’apporto di un gruppo vocale, forse The Gaynotes (attivi sulla stessa scena), senza batteria ma con percussioni varie, forse di Vince Monroe se non si tratta di overdub, perché Lester intanto era nel suo echo chamber con l’armonica, il cui eco è udibile sullo sfondo a metà corsa, mentre il piano è assegnato a John Johnson e la chitarra a Guitar Gable. Sempre secondo le note del vinile questa risale a una sessione del 10 giugno 1957, la stessa che avrebbe dato Lonely, Lonely Me, Don’t Say a Word e Mojo Man, le quali invece nelle note di questo CD sono appunto ricondotte a due sessioni distinte del 1957, una dei primi mesi dell’anno e una di novembre, e il piano dato a Tal Miller. In riferimento a questo periodo sul libro di John Broven (7) si legge che il suo gruppo live era formato da John Hart e Roland Lewis, sax tenori, John Gradego, armonica, Albert Lazard, chitarra, Milton Lazard, basso, Harry Sew Jr, batteria.
Tornando a questa raccolta, il terzo brano pubblicato su singolo dalla sessione del novembre 1957 è il perentorio e marcato You Know I Love You, lato A del suo sesto disco (Excello 2154, 1959; il retro No Use to Worry non è presente qui), dai pronunciati effetti percussivi di slapping su una base attutente (forse cartone) e shakers o maracas (o washboard). È appena al di sopra dei due minuti, quasi uno stacchetto: ci sono inoltre walkin’ bass di pianoforte, armonica in registro alto e piccolo solo finale di chitarra, e tutto termina sfumato. Di entrambi (cioè anche del retro) esistono versioni alternative, finite rispettivamente sul FLY LP 617 e FLY LP 529. Secondo Wirz, appartengono a questa o a un’altra sessione di novembre 1957 altri tre brani inediti al tempo (rintracciabili sul FLY LP 617), I’ll Still Be Loving You, You Give Me All Kinds of Misery e Things Have Changed.
I Stood By e Don’t Go (Excello 2145, 1958; il quarto singolo) arrivano da una sessione del settembre 1958 con Lazy Lester, Tal Miller, ‘Jockey’ Etienne, ‘Fats’ Perrodin, e forse Leroy Washington alla lead guitar. (8)
Il primo titolo è un blues lento dal passo pesante incorniciato da una bella chitarra con lo stesso incipit visto sopra (Lost…, My Home Is a Prison, ecc.), ma che non sfrutta la stessa melodia e accompagna con lick, accordi e fraseggi essenzialmente R&B, nel senso di moderno blues elettrico. Al chitarrista anche il compito di cucire la parola fine a entrambe le facciate. Un’alternativa è presente nel Flyright Bought Me a Ticket (LP 529) con il titolo Bad Woman Blues.
Il secondo è uno shuffle a tempo medio, Lester è nella stanza dell’eco e il solo incendiario di chitarra sembra confermare che probabilmente c’è davvero Washington, chitarrista e cantante tanto valente quanto sottovalutato e poco documentato, la cui presenza sarebbe compatibile non solo per stile e suono, ma anche con il periodo dato che registra a suo nome per Miller diverse sessioni tra il 1957 e il 1960. Il primo singolo Excello di Washington (2144) esce nel 1958 con numerazione immediatamente precedente a questo di Sundown, e presenta il suo classico Wild Cherry (ripreso da Kim Wilson in Painted On). Lonesome nel 1959 rende il favore partecipando a una sessione di Washington come chitarrista. Flyright ha dedicato a Washington il volume 25 della serie, Wild Cherry (FLY LP 574, 1981). La coppia I Stood By / Don’t Go uscì anche per il mercato canadese (REO 8311).
Della sessione del maggio 1959 solo il lato B Gonna Stick to You Baby (Excello 2163, 1959) è presente qui; il lato A era il bel blues If You See My Baby, cantato con gran tono supplichevole alla B.B. King, entrambi accreditati a West (Miller) / Green. L’unico accompagnatore sicuro è Lester, sia per il suono (apparentemente non nella stanza dell’eco) e lo stile inconfondibili che per l’assidua presenza in studio in quel periodo, e per il fatto che alcuni dei brani più riusciti a cui ha partecipato sono poi entrati nel suo repertorio solista, portati fino a noi alle soglie degli anni 2000, come questo. È un uptempo brillante e trascinante, con Lester protagonista e una ritmica in cui ormai pianoforte e basso ne sono parte costante (anche se non sempre rilevante), a differenza delle prime registrazioni Miller, ed è uno dei brani di Sundown che avrebbe meritato il successo nazionale.
Per quanto riguarda il resto della formazione il libretto segnala gli stessi della precedente sessione (sett. 1958) e della successiva (inizio 1960): Tal Miller, L. Washington, ‘Fats’ Perrodin e ‘Jockey’ Etienne – cosa anche probabile visto che, limitandoci a questi due estremi, alla fine si tratta solo di poco più di un anno, ma certo non scontata dato il veloce, e a volte casuale, avvicendarsi di vari sideman negli studi di Crowley, anche quando ricorrenti in un determinato periodo. In questo brano la chitarra di Washington non è riconoscibile suonando troppo poco, ma nell’altro lato (alt. tk sul FLY LP 617) è piuttosto distinguibile, anche se mi rimane il dubbio di come suonasse davvero Lonesome Sundown (nel senso di come era il suo suono), dato che sono sempre presenti altri chitarristi; qui probabilmente fa il riff ritmico ripetuto, mentre Washington l’incipit e gli interventi a base di brevi saette metalliche. Nella stessa sessione entrambi i titoli ebbero una versione alternativa (Stick sul FLY LP 529), e altri due furono fatti, il Bad Woman Blues sopra nominato e Sittin’ on Another Man’s Knee, inedito fino alla pubblicazione sulla compilazione Ace (CD) Genuine Excello R&B del 1998.
Di prodotto e pubblicato nel 1960 qui c’è solo il veloce Learn to Treat Me Better, dal pianoforte energico, rock ‘n’ roll, e chitarra solista bluesy con assolo centrale e finale. Era il lato A dell’Excello 2174 (retro Love Me Now), forse l’unico singolo uscito quell’anno. È però possibile che la sessione, segnata ai primi mesi del 1960, sia stata sostanziosa perché su Wirz oltre a questi due si leggono altri sette nuovi titoli, tutti rimasti inediti al tempo, di cui cinque finiti sul FLY LP 529; oppure le sessioni furono due, ma si legge lo stesso personale (v. sopra) a parte la presenza del tenorsassofonista Lionel Prevost in un paio degli inediti.
La sessione del settembre 1961 è anch’essa consistente; su Wirz è suddivisa con un’altra in ottobre. In ogni caso da questo gruppo nascono due singoli molto belli – anche se purtroppo la breve durata dei brani, a volte anche molto inferiore ai tre minuti, li porta via sul più bello – e diversi inediti (non solo alt. tk) che trovano posto solo anni dopo nelle compilazioni Flyright, Excello ed Ace Records.
Il lato A del disco Excello 2202 (1961) aveva l’atmosferico lento Lonesome Lonely Blues, impreziosito dai fills della pianista Katie Webster e dal bollente, mirabile sax di Lionel Prevost (che pubblicò come Lionel Torrence), sessionman di punta e forse il migliore sassofonista su quella piazza, come Sundown ex bandmate di Clifton Chenier. In Bought Me a Ticket (FLY LP 529) c’è l’alternativa, più lunga e stupefacente, quasi commovente, con un suono incredibile (un po’ fuori controllo), chiamata I’m so Tired; il piano è assente, il bellissimo sax tenore è rauco e striato, le linee di chitarra sono più presenti e pungenti.
Il retro era il mid-tempo I’m Glad She’s Mine (provato nella sessione del 1960 sopra detta, l’inedito She’s Fine sul FLY LP 529), tra swamp e jump blues. Neppure due minuti di spensieratezza condotta dalla sua voce malleabile e dal luminoso sassofono di Prevost, Webster sulla base. Audio pessimo ma potenzialmente molto buona anche la versione inedita uptempo She’s Fine, un boogie tirato dalla ritmica invasiva (forse la coppia Perrodin-Etienne), dalla sei corde corrosiva di (forse) Washington, e dal sax di Prevost. Un altro inedito dalla stessa occasione, Do What You Did, finisce in una compilazione vinilica Excello (8012) del 1969.
L’altro singolo fu l’Excello 2213 (1962). Da una parte il breve jump blues My Home Ain’t Here, esaltato dal canto con gran riverbero (If anybody asks you who’s that singin’ that song / Just tell him it’s Mr Sundown and he’s been dead and gone) e dalla chitarra elegante (Washington?). Si sente, come quasi sempre, una seconda chitarra (Sundown?), e il basso, che Wirz assegna ancora a ‘Fats’ Perrodin, come la batteria ad Etienne. Dall’altra la pensosa, lunatica I Woke up Crying (Oh What a Dream) dal passo medio/lento e stesso bel riverbero, cangiante sulla chitarra (che stavolta attribuirei a Sundown) con effetto lirico e sognante, mentre Katie Webster estrae dramma dai tasti bianchi e neri. Anche qui abbiamo il ricorrente incipit di Lost without Love (e lo ritroveremo ancora più avanti), evidentemente riservato agli episodi più dolorosi, in definitiva agli slow blues. A proposito di questo riff spesso usato da Lonesome Sundown (e, abbiamo visto, da R.L. Burnside) potrebbe essere illuminante la sua citazione riportata sopra, la prima (contrassegnata dalla nota 1), dove racconta di esser stato ispirato nel suonare i blues (e s’intende che parla di blues lenti) da quel tipo che faceva la sua versione di Still a Fool di Muddy Waters, la cui linea melodica è diversa ma si presta a una variante come quella. Inoltre si riferisce proprio alla parte iniziale (the way he would introduce the number…), e infatti è l’incipit a ricorrere. Parla di questo quando dice “is where I got my style” (da intendersi non in generale, ma in particolare per i blues lenti)? Still a Fool per Muddy è l’evoluzione di Rollin’ Stone (dell’anno prima, 1950), che a sua volta deriva dal Catfish Blues di Robert Petway, e questa “linea di successione” si intuisce abbastanza ascoltando I’m A Rollin’ Stone (1957) di Lightnin’ Slim che, non a caso, riprende identico lo stesso riff / incipit di Sundown.
Dalla stessa sessione si trovano qui due totalmente inediti, che però sono come alternative dei brani appena visti, con testi diversi. Uno è Sundown Blues, lento che scende come lava. Un magma sonoro scivolato molto in fondo da qualche parte se ha visto la luce solo nel 1994 in questa raccolta. Dato che è molto bello la sua non pubblicazione la spiego appunto solo con la somiglianza a Woke Up, accentuata dalle stesse sonorità provenienti dalla medesima circostanza. L’altro inedito è l’energico uptempo con suono urbano What You Wanna Do It For, sull’onda di My Home Ain’t Here ma meno efficace.
Poco dopo, nel 1962 Sundown si presta come chitarrista in una registrazione nella sua città adottiva, Opelousas, per un disco di Roscoe Chenier (with the Blue Runners) prodotto dal vecchio amico Lloyd Reynaud, I Broke the Yo Yo / Born for Bad Luck (Reynaud 1018).
Dopo quasi due anni, alla sessione del giugno 1963 è realisticamente ascritta una formazione diversa, e si sente, con l’armonicista Sylvester Buckley e, forse, il chitarrista Isaiah Chatman, entrambi membri originari dei Rhythm Ramblers di Silas Hogan, il bassista Bobby McBride e il giovane batterista Samuel Hogan, figlio di Silas. Ne esce il disco (Excello 2236, 1963) con I’m a Samplin’ Man, brano originale contratto dal portante jungle beat della batteria e dal basso profondo, a cui aggiunge brio un intervento all’armonica: tutto molto adatto per uno che in campo amoroso si ritiene un “esempio d’uomo”.
Il lato B era When I Had I Didn’t Need (Now I Need, Don’t Have A Dime), altro schizzo di un’epoca “beat” che sta per tirare (momentaneamente) il sipario sul blues più tradizionale; anche se il folk-blues revival era ancora in atto, era un altro mondo. Qui è presentato nella sua versione alternativa inedita, non quella che uscì sul singolo, mentre l’alt. take di Samplin’ si trova sul FLY LP 529.
Alla stessa data il libretto fa risalire anche I Got a Broken Heart, lato B del singolo Excello 2249 del 1964 (il lato A era I Had a Dream Last Night). Wirz invece lo inserisce in una sessione dell’ott. 1961 con i musicisti di quel periodo (Lester, Webster, Perrodin, ecc.), ma è più compatibile a questa del giugno 1963 o, meglio, le sonorità combaciano con quelle assegnate ai musicisti di Hogan sopra detti. È un blues medio/lento a stop time (alla Muddy) in stile chicagoano, e un’alternativa altrettanto valida è presente in Bought Me a Ticket, con il titolo I Got Love in My Heart.
In Hoo Doo Woman Blues (lato A dell’Excello 2259, 1964; retro I’m Gonna Cut Out on You) si sente chiaramente che la formazione è la stessa di Broken Heart. Il pattern è ancora quello “del dolore” che si sviluppa dall’incipit chitarristico visto sopra, per una ballata blues intrusiva e potente, con bel vibrato di Buckley. Non c’è traccia qui del singolo Excello 2242 del 1964 con Guardian Angel e I Wanta Know Why, forse registrate nella stessa seduta.
L’ultima sessione di Sundown verso l’etichetta di Nashville fu nel maggio 1964. Di questa data qui abbiamo due brani, di cui uno, I’m a Young Man, è pubblicato per la prima volta. Non ho idea del perché questo limpido abbozzo (solo 2:10!) jump blues venato di humour dal tocco arguto rimase inedito. È connaturale con la tradizione afroamericana del gioco autoironico e vanaglorioso, e il riferimento all’epocale Sixty Minute Man è perfino dichiarato. Solismo e ritmica di chitarre succinte ed eloquenti (oltre Sundown è segnato Al Foreman), cadenza pressante di Rufus Thibodeaux (qui al basso, ma è noto come violinista cajun) e Warren Storm, e forse sotto il piano di Webster. Dallo stesso giorno probabilmente proviene anche You’re Playin’ Hookey, facciata A dell’Excello 2254.
L’ultimo singolo Excello (2264, 1965) sul lato A aveva il piacevole It’s Easy When You Know How, alla Ray Charles, con formazione aggiunta di almeno due sax calzanti, dimostrante quanto fosse ancora ispirato e quanto lo studio di Miller producesse ancora qualità, anche audio: dopo qualche incertezza da qualche tempo qui si tratta probabilmente di un nuovo studio, con gli standard dell’epoca. Tuttavia questi ultimi dischi (suoi e di altri artisti della scuderia) rappresentano la fine di un’epoca, quella dei 45 giri rivolti al mercato afroamericano.
Data la difficoltà nel reperire i vinili della corposa collezione Flyright, di tanto in tanto qualche CD è stato compilato per riproporre in parte ciò che negli anni 1970/1980 fu pubblicato dall’etichetta del Sussex. Nel caso di Lonesome Sundown sono tre gli LP a suo nome (FLY LP 529, 587 e 617), e nel 1990 è stata rilasciata una compilazione su CD (Lonesome Sundown, Flyright Records, FLY CD 16) con ventidue tracce estratte dai tre LP per offrire una panoramica della sua carriera dal 1956 al 1964; si tratta per la maggior parte di alternative dei dischi Excello (con questa raccolta Ace ha in comune tredici canzoni), e ho avuto il piacere di acquistarla a Crowley direttamente dal figlio di J.D. Miller, Mark, a poca distanza da dove i brani originali furono prodotti.
Traumatizzato da vicende personali e insoddisfatto dopo dieci anni, sedici singoli e un album pubblicati senza introiti e visibilità, Sundown si ritira dalla musica. Nel 1965 lo si può vedere a Opelousas come manovale, in giro a bordo della sua moto, o a pregare in chiesa tutti i giorni, tanto che il 7 febbraio 1965 s’unisce ufficialmente alla Apostolic Faith Fellowship (9) e in seguito ne diventa un ministro.
Nel 1977 riaffaccia la testa nel music business registrando un album a Los Angeles per Joliet di Bruce Bromberg, Been Gone Too Long, e avendo un discreto successo in Louisiana con un singolo tratto dall’album, I Betcha / Louisiana Lover Man (Joliet 212), il suo ultimo disco.
Nonostante la presenza del vecchio amico Phillip Walker e tutto sommato sia un buon disco blues, compatibile con un primo, timido rientro, purtroppo non vende molto, il che non stupisce dato il periodo in cui esce. Ristampato come LP sia da Alligator che da Sonet a cavallo degli anni 1980, e come CD nel 1991 da Hightone, anche qui la congiuntura non è promettente; se negli anni Settanta è troppo blues, negli anni 1980/1990 lo è poco: a quell’epoca il pubblico non perdona il fatto di non poter più essere swamp blues. Manca ancora un po’ di tempo prima del revival blues euro/americano covato lungo quei due decenni, ma esploso davvero alla fine degli anni 1990.
Nel 1979 a Opelousas manovra bulldozer per una compagnia di costruzioni di Lafayette. Ha la possibilità di suonare al rinomato Jazz and Heritage Festival di New Orleans, ma purtroppo il suo set è rovinato da una band improvvisata. Fa anche un tour in Svezia e in Giappone con Phillip Walker, prima di ritirarsi definitivamente e di trasferirsi a Baton Rouge attorno al 1980. Nel 1994 subisce un grave infarto e perde la capacità di parola. Tra gli amici in visita c’è Rudolph Richard, suo riconoscente allievo ed ex chitarrista di Slim Harpo: (10)
Coloro che non hanno visto Sundown quando era in forma hanno davvero perso qualcosa. Aveva un senso di padronanza quando saliva sul palcoscenico come nessun altro. Quando suonava un blues tutti si fermavano e ascoltavano – avresti potuto sentire cadere una goccia. Ecco il tipo di artista che era.
L’ultimo tramonto solitario Cornelius Green l’ha avuto a Gonzales, Louisiana, il 23 aprile 1995, e nel 2000 è entrato nel Louisiana Blues Hall of Fame.
(Fonti: John Broven, South to Louisiana: The Music of the Cajun Bayous, Pelican Publishing Company, Gretna, LA, 1983, dal quale è anche tratta l’immagine di Sundown con Miller; Note di Jeff Hannusch a Lonesome Sundown, I’m a Mojo Man, Ace Records Ltd. CDCHD 556, 1994; Album della serie The Legendary Jay Miller Sessions, Flyright Records, ove indicati).
- In John Broven, op. cit. nelle fonti, pag. 134.[↩]
- Note al CD I’m a Mojo Man, cit. nelle fonti.[↩]
- Dalle note di Bruce Bastin (dic. 1982) in Lonesome Sundown, Lonesome Whistler 1956-58, Vol. 29, serie The Legendary Jay Miller Sessions, FLY LP 587.[↩]
- Miller pubblicò il cantante bianco suprematista ‘Pee Wee’ Trahan, aka Johnny Rebel, sulla sua etichetta Rebel Records.[↩]
- Dalle note di Bruce Bastin nel FLY LP 587 sopracit.[↩]
- Questa è l’intera citazione delle parole di Lazy Lester: “The Crowley studio started out as Miller & Sons Electric [sic], and as part of the family business they had a photo-finishing operation. We turned the darkroom into an echo chamber. I’m the one who put 14 coats of oil paint on those walls. Man, if you snapped your fingers in there, it’d just about blow your ear drums. We set up the speakers facing the walls, and two microphones also facing the wall, not the speakers, so they’d pick up the sound on the bounce, one at a time. It was a natural echo. That’s how we got the sound nobody else had.”
Non ricordo da dove viene; l’ho trovata tra i miei pdf in una cartella del pc. Ipotizzo si tratti di un’intervista fatta a Lester da uno dei ricercatori inglesi dell’etichetta Flyright, Mike Leadbitter o Bruce Bastin, nel periodo dell’operazione di recupero del materiale inedito di Miller, o posteriore. È l’unica testimonianza abbastanza dettagliata che abbia mai letto sull’echo chamber (o echo room) in uno studio di Miller, e ritengo quindi importante inserirla e farlo qui, dato che l’armonica di Lester in quel brano pare proprio con quell’effetto. Tuttavia, per quanto ne so, queste registrazioni sono state fatte con tutta probabilità nel secondo studio, non nel primo situato nel retro dell’attività di famiglia a cui Lester si riferisce, e a questo proposito ci sono almeno due incongruenze nel suo racconto.
La prima è che l’impresa si chiamava M&S Electric Company, e il negozio M&S Electrics Store, e la “S” di M&S non stava per “Sons” ma per Sonnier, cioè il fisarmonicista cajun Lee Sonnier, suocero di J.D. Miller e con il quale iniziò l’attività di riparazione macchinari elettrici (per agricoltura). Qui, nel retro del negozio-magazzino, nel 1946 J.D. aprì un piccolo negozio di dischi, che poi attrezzò come studio di registrazione, il suo primo.
La seconda è che il nuovo studio di Miller, sempre in North Parkerson, fu costruito nel 1955, e Lester a quanto mi risulta arrivò a Crowley nel 1956, quindi perché mai Miller avrebbe fatto allestire la camera d’eco nello studio che stava per abbandonare? Non so se Miller avesse la camera d’eco nel vecchio studio (a partire da non so quando cominciò a usare il registratore a nastro Concertone, con il quale ottenne l’effetto “slapback echo”), ma senz’altro l’approntò nel nuovo, che è proprio quello dove sperimentò e sviluppò il famoso “Excello sound” (così noto e per farla breve, ma bisognerebbe dire “Crowley sound” quando si parla di dove nacque quel suono).[↩] - South to Louisiana, op. cit. nelle fonti, pag. 330.[↩]
- Nel vinile FLY 587 invece si legge John Johnson al piano, e che la registrazione è del tardo 1957; non so come suonasse J. Johnson, ma il piano ha quelle caratteristiche descritte sopra per certi brani lenti (attribuiti a Tal Miller).[↩]
- L’intera denominazione è “Lord Jesus Christ of the Apostolic Faith Fellowship Throughout the World Church”![↩]
- Aggiornamento 2023: Rudy Richard conobbe Sundown durante il periodo di quest’ultimo con Chenier; di solito Sundown lo chiamava sul palco, e fu sempre lui a raccomandare Richard a Slim Harpo, al quale Lonesome Sundown fu sempre legato da amicizia. Oltre alla frase che segue nel testo, Richard disse di Cornelius Green: «That man could play real well. He taught me so much, in fact, I got to the point where I could play all his licks». E ancora: «I started going by his house and, man, he really started putting something on my mind then. He didn’t want me to play dirty licks. Keep it clean, you know? And Sundown taught me not to play too loud. If you play too loud, people are going to tolerate it for awhile, but the next thing you know you’re going to be playing by yourself. (…)». Entrambe le citazioni sono nel libro di Martin Hawkins, Slim Harpo, Blues King Bee of Baton Rouge, Louisiana State University Press, Baton Rouge, 2016, rispettivamente a pag. 109 e 159.[↩]
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“Il tempo libero lo usava tutto per la musica, e alla sera andava a sentire suonare nei locali della zona, quando non suonava lui stesso”. Mi ci ritrovo anche io in queste parole…
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