Lucerne Blues Festival, 18.11.2017
Kid Ramos Blues Band / Anson Funderburgh & The Rockets feat. Big Joe Maher / Terrance Simien & The Zydeco Experience feat. Marcella Simien / Robert Kimbrough Sr / Tom Holland & The Shuffle Kings feat. Omar Coleman
Set con poco respiro quello del sopravvissuto Kid Ramos, dotato chitarrista emerso negli anni Ottanta dapprima attraverso il caposcuola James Harman e poi Kim Wilson che lo volle con sé nei Fabulous Thunderbirds, qui sostenuto da notabili quali il batterista Jimi Bott, il pianista Anthony Geraci e il bassista Willie J. Campbell (già nei Mannish Boys, come Bott e lo stesso Ramos; prima ancora, nei T-Birds e nella band di Harman).
In mancanza di un cantante (che avrebbe potuto essere Brian Templeton) tutto s’è imperniato sulla sua chitarra, il che poteva anche andare bene stante il miracolo di rivederlo sul palco, e soprattutto va bene nel contesto del Lucerne Blues Festival – ormai più simile a quello di una crociera per turisti che di un blues festival (perlomeno di quello che si intendeva come festival blues negli anni 1990/2000) – ma solo fino al punto in cui il blues, come altre forme di musica popolare, reclami il tramite di una voce umana, alla fine mancata e sostituita da troppo strumento.
Per contro devo dire che sarebbe stata addirittura auspicabile del tutto questa mancanza, cioè un set esclusivamente strumentale purché convogliato sul miglior diretto e travolgente blues-swing-rock’n’roll di Ramos in assetto Stratocaster (pensando con nostalgia ai tempi dei T-Birds con l’Esquire anni Cinquanta), piuttosto della partecipazione di un cantante e armonicista chiamato Big Pete, insopportabile anche per il suo cercare facili applausi (tra l’altro in un set in cui era ospite) oltre la scarsa consistenza artistica. Già solo da come s’è tolto la giacca lo vedrei meglio in un club per sole donne. Non sapevo nemmeno chi era né da dove sbucava, e per un po’ ho cercato invano un senso alla sua presenza. Con questa macchietta il quadro generale è scaduto senza possibilità di recupero.
Duro veder Ramos così anche solo dopo l’ultimo disco (del lontano 2001; recentemente ha passato anni a combattere il cancro, ma nel 2018 dovrebbe uscire un disco nuovo, e forse ricapiterà a Lucerna) con cantanti e armonicisti del calibro di Lynwood Slim, James Harman, Rick Estrin, Johnny Dyer, Rod Piazza, Musselwhite, o pensando al sostegno fornito sul palco fin da giovane a grandi come Big Joe Turner e Clarence ‘Gatemouth’ Brown.
Big Joe Maher, batterista e cantante in questa versione dei Rockets di Anson Funderburgh, s’è distinto fornendo buon pilastro ritmico su tempi medio-lenti mentre evocava per timbro e potenza il Big Joe originale, soprattutto nei brani più rhythm and blues. Forse sarebbe stato preferibile vederlo davanti nel ruolo di cantante e basta, ancora non so se per una questione musicale o semplicemente perché una formazione così fatta un po’ confonde, anche se il risultato è stato comunque buono se non del tutto compatto.
Di Funderburgh ho già detto in altre occasioni (una qui). Ha di nuovo espresso il suo valore come chitarrista di raro gusto e limpidezza (nel senso di leggibilità), stilisticamente duttile e amalgamante, sempre piacevole all’orecchio. Da anni è impegnato in progetti di breve od occasionale durata, al di là dei suoi Rockets, punto fermo e territorio aperto e malleabile per musicisti sulla stessa lunghezza d’onda.
Non essendo cantante ha bisogno di affiancarsi a un solista; ma qui, con Maher, John Street (organo), Eric Przygocki (basso) e Christian Dozzler (armonicista, organista, fisarmonicista), ha fatto qualcosa di diverso: né supporto a un solista, né prestazioni da guitar hero (carattere che non gli appartiene). Ha agito piuttosto da discreto bandleader di un combo a base di blues elettrico tradizionale, pensando quindi all’insieme e lasciando spazio ai colleghi più che a se stesso. Dozzler, austriaco espatriato in Texas, ha catturato la mia attenzione al canto e alla fisarmonica con I’m Coming Home (Clifton Chenier) in un’interpretazione rispettosa e toccante.
Terrance Simien (nomi e volti dei componenti il suo Zydeco Experience nella galleria fotografica) ha offerto il suo show che si presuppone divertente (=ballabile). Sulla falsariga di quello che ho visto a New Orleans nel 2010, m’è sembrato però peggio sia come repertorio che come sonorità. Oppure è stata solo un’impressione (al di là della diversa formazione), la stessa che m’ha fatto pensare che per me è andata bene vederlo una volta, due son state troppe per via di un carattere musicale che apprezzo meglio quando la matrice tradizionale blues/R&B è riconoscibile e significativa, come nel vero zydeco, o perlomeno quando si tratta di un cajun più autentico, mentre qui è tutto abbastanza annacquato e mescolato su sonorità pop e blando rock ottenute da varie “fusioni”.
The Weight, pur non essendo un’“esperienza zydeco”, dev’esser stabile in repertorio perché, come sette anni fa, l’ha proposto; a New Orleans ricordo che dichiarò l’amore per The Band. Qui ha mostrato la deferenza per il miglior rock classico (e/o folk-rock) proponendo anche un medley tra Love the One You’re With e You Can’t Always Get What You Want, però dal risultato ibrido e poco interessante.
È talmente orgoglioso del suo Grammy da portarselo sul palco, e ha come al solito lanciato molte collane del Mardi Gras; aveva con sé la figlia, Marcella Simien, sorridente come lui.
La sua è una dance music della Louisiana spicciola e senza pretese, è vero, ma dopo un po’ esce dalle orecchie, tra voluminoso martellamento sonoro e qualche assolo incongruente. Dopo un po’ il sorriso esagerato di Simien diventa quasi una maschera distorta… e ti viene voglia di mollargli un amichevole pugno, in quella faccia. Così, tanto per simpatia!
C’è un limite anche alla (messinscena della) joie de vivre, e se nella Big Easy ero stata coinvolta nel laissez les bons temps rouler (complice un’atmosfera del tutto diversa, una looseness impossibile a Lucerna), qua alla fine m’è risultato pesante, artefatto, e mi sono sentita oppressa nella già di suo opprimente Panoramasaal (che intanto s’era svuotata) percependo, nella figura di Simien, la tristezza del clown tragico.
Niente da dire su Tom Holland & Co. nel rigenerante (per temperatura e libertà di movimento) Casineum (che però soffre di maggior rumore di fondo, inoltre quando arriva il momento del Casineum ormai gli svizzeri tedeschi sono alticci), non avendolo seguito – ho fatto solo qualche foto, discreto Chicago blues comunque – un po’ per sovrapposizione e un po’ per necessità di staccare dopo il solito tenace atto di resistenza sulla posizione (per le foto), perseverata anche per Robert Kimbrough Sr.
Figlio di ‘Junior’ Kimbrough, propone il repertorio del padre però non ne è neanche l’ombra, e non solo in senso musicale. È mancato del tutto di convinzione, e neppure un pizzico di quella magia, o carisma. Canto ininfluente, ma il peggio è che s’è accompagnato a una band rockettara (nomi e volti nella galleria), che non solo gli ha tarpato le cosiddette ali (benché, come detto, abbiano al momento poco del piumaggio paterno), coprendo le eventuali sottigliezze sonore di Robert, ma ha totalmente eluso il misterioso sentiero ghiaioso dell’Hill Country blues battendo una rumorosa, scontata e trita autostrada.
Il giorno dopo l’ho incontrato a colazione. Erano soli al tavolo, lui e il suo telefonino. L’avevo già salutato con un cenno, ma pareva brutto non dirgli nulla. Così alla fine sono andata a salutarlo e lui è sembrato molto contento e riconoscente (o fingeva). Gli ho detto che da poco ero stata sulla tomba del father (ad Hudsonville, Mississippi) ed è sembrato meravigliato (o fingeva…)
Gli ho chiesto non seriamente quanti sono attualmente i Kimbroughs and Burnsides scattered in Mississippi; nemmeno lui lo sa effettivamente, ma ci siamo fatti qualche risata. Più tardi, testimone casuale della nostra partenza dall’albergo, scambio di cards, promesse, senso di vuoto.
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