Marcia Ball @ Lucerne Blues Festival
Blues Brunch con Marcia Ball
Accolta da applausi referenziali “sua altezza” Marcia Ball entra in scena all’Hotel Schweizerhof di Lucerna, nella sala stile Impero riservata alle conferenze e ai banchetti. Ai tavoli siedono uomini in giacca e cravatta, e donne con abiti fin troppo eleganti, ma lei non è una solista della Filarmonica di Vienna e non siamo a una soirée post-convegno di bancari.
È ora di pranzo, il cartellone è quello del Blues Festival e Marcia Ball è una figlia gentile e per bene del sud degli Stati Uniti. Non di quel gallant south “pastorale” evocato in Strange Fruit, ma di un sud bianco che ha avuto la possibilità di riscattare gli errori degli antenati anche attraverso la musica.
Prende il palco schioccando le dita e cantando sul tappeto rosso swing che un chitarrista, Mike Schermer, un sassofonista, Thad Scott, un batterista, Corey Keller (fratello di Mike) e un bassista, Don Bennett (con lei da una vita), le stanno stendendo. Albert King non pensava a lei quando intonava Let’s Have a Natural Ball (semmai a Louis Jordan), ma questo brano è molto adatto a presentarla, non solo per il richiamo al cognome: è un preludio alla sua musicalità innata e alla sua naturalezza.
Spero che dopo tanta attività musicale dagli anni 1970, Marcia oggi sia libera dalle definizioni che spesso e volentieri s’appioppano alle donne che s’occupano di materie più spesso trattate da uomini, come “Dr John in gonnella”. È inaccettabile, non importa quanto il riferimento sia importante, a meno non si decida di chiamare anche Dr John un “Marcia Ball in pantaloni”, il che parrebbe assurdo a chiunque.
Sono molto diversi e non hanno la stessa formazione, ma pescano dalla stessa molteplice tradizione regionale e sono entrambi pianisti della Louisiana: la loro fratellanza finisce qui. Naturalmente lo stesso discorso vale anche per i paragoni con Jerry Lee Lewis, che qualcosa le ha sicuramente passato, ma di cui non deve essere considerata la versione femminile.
Ball non è strutturata, è immediata, e deriva dal barrelhouse piano, dall’honky-tonk, stride piano e boogie-woogie. Di peso furono il successo e l’influenza, quand’era bambina, dei primi due pianisti rock ‘n’ roll, Little Richard e Fats Domino, e di Professor Longhair. Poi c’erano in giro i virus nazionali Ray Charles, Charles Brown, Amos Milburn, pianisti contagiosi in tutta l’area sud-occidentale, ma anche su New Orleans.
Ricorda un po’ il boogie, lo swamp e certi spunti strumentali di Katie Webster, pianista e cantante texana vittima di produzioni non degne, animale da palcoscenico carico di autoironia e blues diva scomparsa e dimenticata. Certamente la sua prima influenza arrivò dalla famiglia oltre che dal territorio: i Mouton, clan originario di Lafayette, (1) erano musicisti (il nonno, la nonna, il padre, le zie).
Marcia Mouton è di Vinton, Louisiana, ma è nata il 20 marzo 1949 a Orange, Tx perché l’ospedale più vicino era oltre il confine di stato, e oggi vive ad Austin. È cresciuta tra due Stati del sud già culturalmente meticci di per sé oltre le reciproche influenze, ha sguazzato fin dalla tenera età in un ambiente artisticamente e culturalmente vivace: da una parte l’East Texas con le sue tradizioni blues, country, cajun, R&B, tejano, dall’altra il cajun, lo swamp blues, lo swamp rock, New Orleans. Nel mezzo il Golden Triangle texano, con Beaumont, Port Arthur e Orange formanti un triangolo di sviluppo industriale dai primi del Novecento (dopo la scoperta del petrolio) con la conseguente forte richiesta di manodopera afroamericana, e quindi di locali per i lavoratori in cui ascoltare e fare musica.
La sue sonorità hanno carattere solare e raramente assumono toni cupi, neppure nelle ballate tristi o nei torch-song, e non rincorrono sperimentazioni; sono festose, popolari nel vero senso della parola. Anche nei dischi la sua comunicazione avviene d’emblée; non si riascolterà perché non s’è capito, ma perché è piaciuto. Marcia non è dinamite, non s’impone con irruenza, ma arriva timidamente e con classe, per rimanere come esperienza duratura. Non suona per mostrare cosa ha imparato in più di cinquant’anni sui tasti, o per virtuosismo: ho undici suoi dischi e in nessuno c’è uno strumentale, o un brano solistico.
La sua voce dolce, calda, confidenziale, non è potente ma è unica, riconoscibile, e non s’attarda in abbellimenti; narra cantando con intonazione e dizione precise, con una musicalità già insita nel timbro vocale. Non si pensi però a un’eccessiva dolcezza o tranquillità, in una donna apparentemente serena. È piuttosto equilibrio, controllo, e quanto per lei conti di più l’insieme, l’armonia; i suoi dischi sono comunitari, sono esperienze diverse che s’amalgamano in una sola, dal suo volto e carattere.
Quando la si vede dal vivo con una formazione R&B di quattro elementi come qua, senza il supporto di una sezione fiati o di qualche leggendario sassofono di New Orleans, senza percussioni, Hammond, fisarmonica o lap-steel, ci si rende conto della sua forza e della sua agilità, del suo protagonismo discreto ma incisivo.
Non fanno in tempo a disperdersi le note di King e arriva l’intro di Red Beans, gustoso sketch gastronomico della Louisiana, inno di Longhair alla vita. La voce vellutata, femminile ed elegante è in accordo con il pianismo frizzante e senza fronzoli; al suo breve solo ne segue uno di sax, prima che cali un velo d’intimità con il brano Just Kiss Me di Duke Robillard, lento blues in cui Schermer ricama la melodia e un bel solo.
Siamo passati da una festa nella Crescent City a un fumoso club urbano, ma si torna sugli irresistibili istinti funky della Louisiana con l’andante, un po’ boogie paludoso e un po’ swing, di Watermelon Time, nato in collaborazione con i musicisti presenti (a parte Schermer, dentro solo da un paio di settimane), inno al dolce cocomero e prima estrazione dal suo ultimo CD Peace, Love & BBQ.
Paga tributo al soul Stax Peace, Love & BBQ (l’inizio ricorda Cropper), che sarebbe stato bene anche eseguito coralmente nei grandi happening degli anni 1960, magari dagli Staple Singers, pur non avendo carattere di message song, anzi è una tranquilla storia familiare. Ha la zampata di David Egan, autore incontrato più volte nei crediti di diversi dischi, e sempre bene. (2)
Married Life ha lo stesso effetto delle ultime due: la leggera tensione nel suo canto, come un invito quieto ma irrinunciabile, e il carattere della musica fan venire voglia di muoversi, di partecipare, e in quest’ultimo caso ancor più trattandosi di zydeco; se ci fosse anche la fisarmonica sarebbe sublime.
Incita al movimento e un attimo dopo all’ascolto, ad esempio con il lento di Don Nix, Same Old Blues, eseguito insieme a Irma Thomas nel disco di quest’ultima, Simply Grand, in cui è accompagnata da pianisti di vaglia, tra i quali figure ricorrenti nella discografia delle due, da Torkanowsky a Randy Newman, da Dr John a David Egan. È evidente quanto Irma sia influente su Marcia, risalta soprattutto nelle ballate come questa.
C’è anche somiglianza poiché, pur avendo Thomas un soprano più potente e tornito, hanno in comune una vena vellutata. Marcia riflette poi alcune soluzioni e umori della collega afroamericana, dello stesso suo mondo pur avendo avuto Irma una vita molto diversa (a vent’anni aveva già quattro figli). È cresciuta con i dischi della Thomas, è stata un modello per lei, e oggi entrambe sono due solidi punti di riferimento della musica della Louisiana.
Con l’autografa That’s Enough of that Stuff si torna a passeggiare con un piede nel Bayou e uno nel French Quarter in andamento da second-line: importante è il colore del sassofono, mentre nell’accompagnamento e nel break di piano strizza l’occhio a Professor Longhair. Il carattere rock ‘n’ roll qui accennato diventa motivo nella seguente Right Back in It, dall’ultimo disco, boogie che non cerca velocità ma volute sulle quali ondeggiare, ancorato con la mano sinistra dal walkin’ bass spesso e colorito, attributo fondamentale nell’approccio molto ritmico della sua musica.
Dopo tre quarti d’ora di pausa (spesi per i fan, me compresa) torna sul seggiolino con un’altra sorpresa: uno swing-rock old-style, Rockin’ Is Our Business, per una seconda parte carica d’altrettanta energia, e la favolosa Sing It, che arriva dal profondo Bayou alle Alpi, dalla Costa del Golfo alle montagne svizzere. È una celebrazione, un ritorno a casa, una passeggiata sul fiume di sera when the work is done. Qui c’è R ‘n’ B, second line, swamp blues, funky, e il solo pianistico è splendido; la band fa armonia vocale, certo non come le due cantanti Thomas e Nelson nel disco da cui è tratta, ma lo stesso evocativa. È una canzone pulsante, aggregante.
Segue a ruota un’altra perla, di Joe Tex, I Want to Do Everything for You, piacevole R&B / swamp a tempo medio, con break di chitarra blues e coro, come un gaudente gospel profano.
Di nuovo cambia l’aria per un altro rhythm and blues nel suo tipico stile, un po’ swamp boogie mediamente incalzante e un po’ ballata: The Right Tool for the Job, con citazioni ZZ Top, poi il soul-blues I’m Coming Down with the Blues di Don Covay a continuare il felice excursus, materiale saporito a cui attingere.
È un resoconto dei suoi viaggi Down the Road e si innesta sul percorso Louisiana-Texas che ben conosce: a fare la parte importante ci sono il boogie, il sax e l’usuale clima positivo.
Segue un altro “down”, più casalingo ma ancora autografo; è Down in the Neighborhood, meno solare e con sonorità funky. È dall’ultimo disco, prodotto da Stephen Bruton, purtroppo un’altra scomparsa del 2009 fra gli artisti nati o bazzicanti nella regione, che s’aggiunge a Snooks Eaglin, Willie DeVille, Sam Butera e al leggendario Eddie Bo, che con lei e altri musicisti della città nel 2008 animò il WWOZ Piano Night Show alla New Orleans House of Blues, una delle rare occasioni in cui Ball suona da solista (lo spettacolo annuale supporta l’ormai storica radio cittadina occupata nel mantenere viva l’eredità della Louisiana: in quell’occasione s’è avuta un’orchestra completa, con due pianoforti a coda e un Hammond).
Occasione per altri tristi pensieri la dà Where Do You Go, scritto insieme a Tracy Nelson e narrante gli effetti del post-Katrina: Where do you go / When you can’t go home / What do you do / When things go wrong / Who do you know / When you are all alone?
Torna cautamente sulla party music con il tempo medio Mama’s Cooking, composta insieme a Bruton, e poi decisamente con il boogie autografo di Louella. Se in Peace, Love & BBQ usa I Wish You Well di Bill Withers per accomiatarsi, fare i ringraziamenti e gli auguri a chi ha collaborato al disco, agli amici, alla famiglia, ai fan e alla gente della Gulf-Coast colpita dagli uragani, qua, sentendola dal vivo, ognuno può estendere l’augurio su di sé.
Ha ancora carattere second-line Party Town, dita che saltellano sui tasti come farfalle sui fiori. Chiaro a quale città è dedicata, atto d’amore e inno alla vita evocante ritmi e colori di N’awlins. (3)
In Crawfishin’, boogie texano con la tinta e l’umidità del Bayou, solo di sax e piano, le farfalle sono insidiose, mentre con il capolavoro di Randy Newman Louisiana 1927 è come entrare in chiesa: si tace e s’ascolta. È emozionante, pura bellezza, speravo la facesse. L’interpreta con più passione rispetto all’autore (Newman è realista, fa entrare chi ascolta ma lui rimane fuori). Hot Tamale Baby è sempre brillante e non sente il peso degli anni, con bellissimo piano e ritmica imponente; è un rito zydeco, è Clifton Chenier. Alla fine esegue un altro rito: saluta, ringrazia, riceve i fiori e con eleganza se ne va.
Il pubblico reclama e lei torna da sola per suonare un’altra storia. È la sua personale Louisiana 1927, ambientata in Mississippi e riferita all’uragano Camilla del 1969. Un’immagine risalta in questa Ride It Out: una casa sopravvissuta intatta e galleggiante sul fiume in piena, in seguito distrutta da un’altra tempesta; una casa che pare animata, persona, di un tipo buono, forte e orgoglioso.
Riappare la band, e La Ti Da è davvero l’ultima. Penso ad altre belle (Foreclose on the House of Love, Miracle in Knoxville, Fool in Love, Let Me Play with Your Poodle, The Facts of Life, Fingernails, Count the Days, Shake a Leg, Another Man’s Woman, Love Maker…), ma mi devo accontentare dopo due ore di concerto da un’ottima musicista e interprete, efficace incarnatrice del what you hear is what you get.
- Più che originari: un antenato di Marcia, Jean Mouton, ricco coltivatore di cotone, fondò la comunità acadiana di Lafayette nel 1821, dandole il nome di Vermilionville, dal fiume sul quale sorge; il nome attuale risale al 1884. Fonte: Richard Knight, The Blues Highway, FBE Edizioni, MI, 2007, pag. 69.[↩]
- Ha scritto per Johnny Adams, Jimmy Witherspoon, Etta James, Irma Thomas, Solomon Burke, Tab Benoit, e sono sue tre perle nel bel disco Ball / Thomas / Nelson: Sing It, Please No More e People Will Be People, quest’ultima ripresa dai Fabulous Thunderbirds sul Live.[↩]
- Come i turisti americani pronunciano “New Orleans”, diversamente dai locali che invece dicono “New Awlins”.[↩]
È vietata la riproduzione anche parziale di questo articolo senza autorizzazione