Mavis Staples @ Lucerne Blues Festival
Blues Brunch con Mavis Staples
Un set breve questo di Mavis Staples per il brunch della domenica all’Hotel Schweizerhof, appendice finale del rinomato festival blues di Lucerna. Mavis, reduce dal concerto di venerdì e da giorni d’inevitabile PR, ha limitato la sua performance a una decina di brani fra i migliori del repertorio.
Prevedendo quindi un concerto non abbastanza lungo da dividere in due parti per un pranzo che vuol essere diluito nel tempo, gli organizzatori hanno pensato di doppiare con un set di apertura fuori programma, fornito da Guy Davis. Ottimo, ma per noi Davis è stato solo un cuscinetto che ci ha permesso di non perdere il concerto di Mavis, perché a due passi dalla Svizzera ci siamo sbagliati abbandonando la Como-Chiasso e finendo nella sperduta provincia di Varese. Siamo così tornati indietro verso Milano, perdendo molto tempo e arrivando con un ritardo notevole, tanto che se il suo set fosse cominciato come previsto a mezzogiorno lo avremmo perso per intero.
Giunti quindi nel momento di maggior confusione, cioè durante la pausa tra un set e l’altro, riesco a farmi recapitare ai nostri posti in uno dei tavoli sotto la scena. C’è molto caldo, le pietanze rimaste da servire sono attribuibili alla precaria qualità della cucina del Canton Lucerna e i nostri commensali sono piuttosto apatici, forse sono morti, ma ciò che più conta a quel punto è di non aver fatto tutta quella strada per niente.
Dopo poco appare Staples con la stessa formazione che l’ha accompagnata negli ultimi due bei dischi Anti (Live: Hope at the Hideout e You Are Not Alone), con i noti Rick Holmstrom, chitarra, Jeff Turmes, basso, Stephen Hodges, batteria, e armonia vocale con Donny Gerrard, Vickie Randle e la sorella Yvonne Staples.
Benché il suo ritorno discografico dopo anni di assenza sia stato su Alligator (Have a Little Faith, 2004), la vera resurrezione è avvenuta nel 2007 sull’etichetta californiana Anti con il bellissimo We’ll Never Turn Back prodotto da Ry Cooder, in cui la presenza del grande chitarrista è più che palpabile ma non invadente, com’era facile immaginare, mentre il profondo contralto e la personalità di Ms Staples sono enfatizzati a dovere grazie ad arrangiamenti esaltanti la forza espressiva di un’artista che ha marciato a testa alta, non solo in senso figurato, nella storia americana del Novecento.
Attaccano al meglio con l’epocale For What It’s Worth di Stephen Stills, entrata nel repertorio degli Staple Singers e di una generazione intera, con Holmstrom che adotta lo stile del patriarca Pops.
Anche Eyes on the Prize appartiene alla storia d’America e del gruppo vocale, melodicamente tratta dall’antico spiritual Keep Your Hand on the Plow (Hold On) e con liriche adattate negli anni Cinquanta da Alice Wine. Ripresa nel disco con Cooder, fu tra le canzoni della seconda fase degli Staples, quella che dai canti religiosi li portò a interpretare alcune delle più belle protest song del movimento per i diritti civili. Eyes on the Prize è stato adottato come titolo anche per quello che rimane come il miglior documentario (in quattordici episodi) sulla lotta afroamericana per l’integrazione, mandato in onda da PBS tra il 1987 e il 1990, e ritrasmesso ultimamente alla televisione americana (attualmente visibile in gran parte sul canale video di Yahoo U.K.). Ancora bel suono da Holmstrom riproducente il riverbero di Roebuck ‘Pops’ Staples, rimandante al Mississippi più mistico; penso a quanto deve essere mancato alle figlie anche musicalmente.
Introdotta dalla voce di Donny Gerrard, Down in Mississippi è un’ulteriore perla tratta dalla produzione Cooder, di J.B. Lenoir, altro mississippiano. La chitarra sferza dolorosa e l’intermezzo semi-parlato di Mavis commuove la platea narrando della volta in cui, sotto lo spietato sole del profondo sud, la nonna le disse di poter bere solo alla fontana in cui c’era l’avviso for colored only, sperimentando così per la prima volta le leggi Jim Crow.
È ancora Gerrard a scandire un incipit, quello di Creep Along Moses, spiritual tradizionale innervato da sano rock e inserito nell’ultimo disco, You Are Not Alone (2010), prodotto da Jeff Tweedy dei Wilco. Tweedy ha fatto del suo meglio per stare a livello del precedente disco in studio e il risultato è un lavoro esemplare registrato in condizioni ottimali e velato di trasparente familiarità, con nuovi arrangiamenti di gospel tradizionali, tre brani di Pops, due scritti da Tweedy, e riprese di autori quali Randy Newman, Allen Toussaint, John Fogerty e Rev. Gary Davis.
E un altro episodio appagante del disco e del concerto arriva proprio dal leggendario reverendo cieco, a cui Mavis dedica un ricordo a parole (What a character!): I Belong to the Band (Hallelujah) è uno splendido, gaudente jubilee che fa venire voglia d’andare in chiesa anche agli atei.
Ancora dall’ultimo disco Too Close / On My Way to Heaven, medley che unisce Alex Bradford Jr (predicatore della Chicago musicale dei tempi d’oro, città in cui è nata e vive Mavis) a Roebuck Staples per un momento sublime senza tempo, tornando invece nell’America delle lotte civili durante The Weight (The Band) e Freedom Highway (Staples), capisaldi della famiglia. La seconda fu scritta per la storica marcia da Selma a Montgomery, cardine del supporto che gli Staple Singers diedero alle lotte di Martin Luther King.
Una breve pausa della cantante è l’occasione per far valere le doti della band, in un jam strumentale che vede dapprima il solido bassista blues Jeff Turmes alla slide, assistito dagli altri due, poi l’ammirevole Rick Holmstrom che non manca di affascinare riempiendo la sontuosa sala con cadenzate, morbide sonorità latine, confermando la sua classe e la sua misura, doti sempre auspicabili in uno stilista blues. Notevoli anche il gusto e il tatto del batterista Stephen Hodges, che di sottigliezze ritmiche s’intende.
Il gran finale risale a Stax mediante I’ll Take You There, call and response in cui è richiesta la partecipazione del pubblico, e che entra nel ciclo di canzoni degli Staples che lei chiama message songs (né strettamente religiose, né di protesta), la loro terza via, ciò che persegue tuttora come solista con i brani nuovi.
Prima d’andarsene, Mavis, dotata di un carisma e di un calore rassicuranti, semina auguri e sorrisi radiosi a tutti, e si china a stringere le mani di chi come me ha la fortuna d’esser là sotto.
Peccato aver saltato Guy Davis, l’avrei rivisto volentieri. La sua presenza è stata comunque una fortuna come dicevo perché all’arrivo, entrando nel salone in un’aria afosa e insopportabile da pranzo di matrimonio iniziato da un pezzo, quando ho visto i tecnici sul palco e un gran via vai di gente non ho potuto far altro che pensare che fosse tutto finito.
A informarmi su cosa stava succedendo è stato lo stesso gentile signore dell’entourage di Mavis che ha abbandonato il suo banchetto vendita CD in cerca del mio contatto per la prenotazione, e al quale mi sono di nuovo rivolta alla fine per chiedere notizie della cantante, sparita subito dopo (probably she’s taking a shower now, mi ha detto).
Comprensibilmente stanca, dimostra però d’avere ancora lo spirito e la passione di quando, vicino a Cleotha, Yvonne, Pervis, e naturalmente Pops, contribuiva a dar voce a un popolo che è stato capace di tramutare un profondo, centenario senso di frustrazione collettivo e personale in un patrimonio artistico universale senza eguali, caratterizzando la musica di un secolo intero.
È vietata la riproduzione anche parziale di questo articolo senza autorizzazione