Peaches Staten @ Black & Blue Festival, Varese
Peaches Staten ha il retroterra culturale che ci si aspetta, a torto o no, da chiunque sia di pelle nera e arrivi dagli States e ci venga proposto come artista blues. È nata in pieno Delta del Mississippi, a Doddsville nella contea Sunflower, ed è cresciuta a Chicago a suon di gospel, blues e soul. Poi però ha allargato i suoi orizzonti facendo parte di una band di musica zydeco, passione che non ha mancato di mostrare anche in questa occasione, e ha fatto addirittura parte di un gruppo afro-brasiliano di samba.
Contralto potente e ghiaioso in cui si riconosce (solo vocalmente) un po’ Koko Taylor e un po’ Mavis Staples, è un’ottima entertainer, dote che ha affinato in anni di concerti (precisamente, dal 1997) in giro per il mondo. Sulla carta quindi si potrebbe festeggiare una nuova blueswoman, forse l’erede di questa o quell’altra come spesso e volentieri decreta certa stampa.
Di fatto, però, questo è un tempo amaro musicalmente parlando, e spesso il “blues”, o una parvenza di esso, è adulterato, se non affossato, da sterile modernità, ritmiche pompate, arrangiamenti mainstream; oppure serve solo come struttura base classica. Anche Peaches Staten purtroppo non ha molte possibilità di sfuggire al suono vuoto e banale che oggi arriva a vangate, mentre per quanto riguarda il blues nello specifico bisogna dare per scontato che l’appartenenza naturale a quell’idioma di per sé è sicuramente una ricchezza, ma certo non un destino univoco che possa o debba contrapporsi alla volontà o al desiderio di chi “potenzialmente” lo possiede. Sgombrate quindi eccessive aspettative su di lei, rimane che se anche la cantante, metti, fosse la più pura e genuina evoluzione di Big Mama Thornton, sopravviverebbe comunque l’incognita sul modo in cui artisti itineranti come lei senza una band, quando arrivano in Europa, sono accompagnati.
Certamente pure questo è un riflesso condizionato e nonostante abbia una sua motivazione, come detto la provenienza (in senso di tradizione più o meno acquisita) potrebbe, specialmente oggi, non pesare nulla in mancanza di una certa qualità sonora e di un certo gusto o attitudine del musicista verso quel materiale.
In ogni caso quando all’ora dell’aperitivo sono entrata al Twiggy Café, accogliente bar-ristorante nello stile spartano dei dopolavoro ferroviari anni 1970 in cui si svolgono alcuni eventi pomeridiani nell’ambito del Black & Blue Festival di Varese, sono rimasta un po’ sorpresa ma non delusa nel vedere l’angolo della band senza batteria e con poca strumentazione: c’era così qualche possibilità di sentirsi al riparo da sonorità ridondanti o da eccessivo rimbombo, in un ambiente poi non favorevole acusticamente.
Diciamo che quella speranza s’è avverata, ma d’altra parte sono sufficienti anche solo una chitarra, il francese Fred PG, e un basso, Lucio Omar Falco, per avere quelle sonorità non particolarmente calate di cui dicevo all’inizio. Arriva così So Long Baby, classico brano d’apertura, e Peaches mostra già la grinta che dovrà gestire quasi da sola tutto il tempo dato che sembrerà sempre più a disagio con il chitarrista, non all’altezza come accompagnatore (come solista, nel senso di intervenire con qualche break strumentale, non è pervenuto).
È una specie di presentazione anche I Sing the Blues, una sua versione di I’ll Play the Blues for You di Albert King. Se è vero che nomen omen, allora ho la conferma dagli antichi latini che Fred PG – la cui sigla nasconde Pierre Gustave – non è nato per suonare il blues (da prendere come una battuta per favore).
Rimane sui suoni inflazionati della Chicago odierna I Know You Love Me, vagamente appellati alla ritmica di Howlin’ for My Baby di Howlin’ Wolf, prima di chiedere ai presenti se qualcuno sia mai stato a New Orleans e se è a conoscenza della musica zydeco (anche se, devo dire, la tradizione zydeco appartiene all’area acadiana della Louisiana più che a New Orleans).
Lo scopo è reclutare due persone a suonare tamburello e shakers (in mancanza del washboard), riuscendovi con una ragazza locale e un turista americano per Gotta Find My Man, che riporta a Hot Tamale Baby di Clifton Chenier. Chiederà anche l’eventuale presenza di un armonicista o di un sassofonista, senza successo.
È quasi più parlata che cantata Rather Go Blind, da I’d Rather Go Blind di Etta James e aggiunta di parole sue, mentre non è male il two-step di Keep on Keepin’ On preso da Alberta Adams, con buon andamento swing. Ricordo anche un altro boogie a tempo medio, Something’s Goin’ on in My Room; la presenza di due soli accompagnatori ha in certi casi limitato e in altri favorito: in questi ultimi due ha vinto la seconda opzione. A proposito della formazione ridotta, Peaches dirà: “Non sono abituata a una situazione così, ma mi piace”, e qui considero apprezzabile il suo controllo sulla voce; non credo abbia usato tutta la sua potenza data l’economicità della situazione.
Il momento del lento arriva con Can’t You See della Marshall Tucker Band; Fred PG non ci ha azzeccato e forse sarà stata anche un po’ colpa di Peaches che non s’è ben addentrata nella ballata, per un momento di quasi incomunicabilità.
PG è stato strumentalmente latente (attimo imbarazzante quando Staten s’è vista costretta ad abbandonare l’esecuzione di un brano dopo due tentativi perché lui non riusciva a entrarvi e a comunicare con il bassista), e lo è stato anche come atteggiamento; fuori dalla scena, concentrato sulla sua chitarra come da solo nella sua cameretta, tanto che in un caso la cantante ha dovuto toccarlo per richiamare la sua attenzione, nonostante fossero vicinissimi. L’unico brano che ho trovato compatto e ben eseguito da tutti, e che per questo motivo ho ascoltato con piacere diversamente dal solito perché strabusato, è stato Got My Mojo Working; probabilmente PG l’ha suonato parecchio.
Il bassista, Lucio Omar Falco, ha fornito il collante sonoro necessario con buona dinamica; peccato che il suo sia stato tendenzialmente un approccio funk, anche se per fortuna non pompato. Alla fine s’è rivelato l’unico alleato di Staten, e insieme a lei al canto ha eseguito If You Love Me like You Say di Albert Collins.
Dato che la richiesta del bis era prevedibile non capisco perché non abbiano concordato qualcosa di meno scontato, e che magari poteva riscattare un po’ dalla banalità (dei suoni più che della scaletta in sé) invece di rifugiarsi nel solito Sweet Home Chicago, con l’altrettanto scontata richiesta della collaborazione del pubblico. L’ho perdonata solo perché viene da Chicago, ma non so se è una motivazione sufficiente.
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