Professor Longhair – Crawfish Fiesta

Cover of Professor Longhair's CD Crawfish Fiesta

Un disco adatto a chi volesse avvicinarsi al Professore, e indispensabile agli appassionati. Se l’altro focalizza le prime registrazioni, qui ci sono le ultime; l’inizio e la fine della storia discografica di Henry Roeland Byrd. Una storia divisa in due fasi: la prima dal 1949 al 1959 e sporadicamente fino al 1964, la seconda dal 1971 all’uscita di questo disco, 1980.
Riprendendo la vicenda da dove l’ho lasciata, cioè all’inizio della triste seconda metà degli anni 1960 passata senza poter far musica, uno dei primi a documentare quegli anni bui fu Mike Leadbitter, editore di Blues Unlimited, che lo incontrò a New Orleans nell’aprile 1970 al suo indirizzo, 1522 South Rampart. In quell’occasione Leadbitter trovò l’artista vecchio, depresso, malato, dimenticato dal pubblico, dagli amici e dall’industria discografica.
A farlo riemergere dall’oscurità però furono due ragazzi di New Orleans, Arthur ‘Quint’ Davis e Allison Miner, affascinati dalla figura di Professor Longhair senza sapere non solo se era vivo o no, ma anche incerti che fosse una persona davvero esistita e non piuttosto un personaggio di fantasia, la cui leggenda riappariva ogni anno durante il carnevale sulle note di Go to the Mardi Gras.

Dopo quasi un anno di ricerche Davis lo trovò nel negozio di Joe Assunto, One Stop Record Shop, 330 South Rampart. Era uno dei posti in cui il pianista si recava specialmente nel periodo del Mardi Gras, perché con l’evenienza della festa avrebbe potuto chiedere un lavoro o un po’ di denaro in prestito a Joe: quando era alle strette Assunto gli dava piccoli lavoretti in negozio, e caso volle che ‘Fess varcò la soglia del negozio proprio mentre Davis stava chiedendo di lui.
Byrd era in pessime condizioni fisiche e psichiche, in stato di povertà, da molto non suonava e per mantenersi faceva il bidello. Seduto non poteva rialzarsi, e quando era in piedi il ginocchio doveva essere posizionato in un certo modo per poter camminare. Era ipovitaminico, senza denti, non riusciva a mangiare né a digerire, e aveva solo 53 anni.
In quel periodo Davis s’era da poco impegnato nella produzione del New Orleans Jazz & Heritage Festival, che allora si chiamava New Orleans Jazz Festival e si teneva nel parco oggi intestato a Louis Armstrong, e quello del 1971, nonostante ai tempi non fosse molto seguito essendo solo alla seconda edizione, fu il cardine della riscoperta di Professor Longhair riportando in scena un musicista che molti non conoscevano.
Davis arruolò Snooks Eaglin per accompagnarlo in quella prima esibizione (1) e quando Fess, come improvvisamente ringiovanito, cominciò a martellare sui tasti e a cantare, da tutt’intorno arrivarono persone incredule e curiose sotto il suo palco per ascoltarlo, musicisti e no. (2)
Tuttavia questo stupore non ebbe altri effetti immediati se non quello di attrarre improvvisati quanto incompetenti manager alla sua porta. Le sue attività continuarono a concentrarsi una volta al mese al Freddie Domino’s Bar nel Ninth Ward (distretto che ha dato i natali a Fats Domino, e in cui tuttora è la sua casa/ufficio) e occasionalmente negli house party.

Nel settembre 1971 Davis portò Fess, Snooks, Big Will (il bassista Will Harvey Jr) e Shiba (il batterista Edward ‘Shiba’ Kimbrough, amico e partner di lunga data) ai Deep South Recording Studio di Baton Rouge e qui, scrive Jeff Hannusch (v. fonti) carente di dettagli, fu registrata una sessione: « […] the demo session he [Quint Davis, ndr] arranged in 1972 […] into a studio in Baton Rouge and cut 34 songs».
La sessione di Baton Rouge fu appunto nel 1971 e, dati i due dischetti usciti successivamente al libro di Hannusch (House Party New Orleans Style, The Lost Sessions 1971-1972 e Mardi Gras in Baton Rouge), direi che quei 34 possono essere il totale dei brani (anche se la somma nei due CD è 33) comprendendo anche quelli della sessione del giugno 1972 agli Ardent Studios di Memphis, con Snooks Eaglin, ‘Zigaboo’ Modeliste e George Davis, prodotta ancora da Quint Davis.
Scopo delle sessioni era proporle a Jerry Wexler di Atlantic Records e ad Albert Grossman (proprietario di Bearsville Records e noto manager di Bob Dylan, The Band, Simon & Garfunkel, Paul Butterfield, ecc.) nel suo quartier generale su a Bearsville (Woodstock), ma Grossman era più che altro interessato al rock e non ne venne fuori nulla, nel senso che tutto rimase su nastro nonostante un iniziale notevole investimento di denaro per le sessioni (e un pianoforte, un’automobile e dei vestiti per Longhair).
Come raccontato da Davis, insieme a Eaglin andarono a Woodstock un paio di giorni invitati da Grossman e fu in quel frangente, suppongo, che Davis portò con sé i nastri di Baton Rouge. Davis ha ricordato che i due si sentirono piuttosto a disagio alloggiati tra i monti in una baita in costruzione di proprietà di Grossman senza telefono, acqua corrente ed elettricità, immersa nella neve. Qualche giovane fricchettone dei tempi avrebbe subìto il fascino di tutto ciò (e anche chi scrive), (3) ma non i due maturi bluesman neorleansiani, soprattutto Eaglin che era cieco e che non riuscì a dormire infastidito dal rumore della neve che scendeva dal tetto. Nel libro di Hannusch si leggono queste parole di Davis:

We did some sessions that were supposed to come out on Bearsville, but in the end it didn’t work out. I don’t exactly know why — we did some killer sessions — but nothing ever came out. Grossman’s got all the tapes […] When we were there we did one strange session with some guy, and then we did a whole afternoon with the Full Tilt Boogie Band, but it just wasn’t happening.

Questa dichiarazione isolata non chiarisce se una registrazione fu fatta presso Grossman, dato che “we did one strange session with some guy” e “we did a whole afternoon with” possono essere interpretate come prove o come una vera sessione ma con del registrato non degno (“it just wasn’t happening”, immagino perché i rocker non sapevano rendere lo stile di New Orleans), mentre con killer sessions non può che riferirsi a quelle di Baton Rouge. Infatti, quando dice che Grossman “tenne tutti i nastri”, è poco probabile che si riferisca alla sessione di Woodstock, che in ogni caso sarebbe stato conseguente da parte del produttore trattenere.
Penso che Davis si riferisse ai “suoi” nastri, i demo della sessione di Baton Rouge (quella di Memphis avvenne dopo Woodstock, non so se in seguito fu inviata a Grossman, ma anche quella è compresa nelle “lost sessions”) lasciati con fiducia al noto produttore per la pubblicazione, che Grossman trattenne ma non ne fece nulla, nonostante il finanziamento che tra l’altro giustifica il fatto che li ritenesse suoi. Forse li tenne in garanzia per le spese sostenute; fu intentata causa legale per questa faccenda.
Qui (4) si legge che la causa fu spostata alla giurisdizione del distretto di New York, e che cadde in prescrizione. Tuttavia è il prosieguo (dal libro di Hannusch) che proprio non mi spiego:
«So I took them to New York and did a session with George Davis on bass, ‘Honey Boy’ on drums and Earl Turbinton on saxophone. That was, I’d say, his best session ever».
Dando quindi per scontato che niente venne fuori da Woodstock (che è nello stato di New York), al contrario di come ho letto in una pubblicazione di settore (addirittura c’era scritto che fu con The Band), qui sembra invece che fu registrata una sessione a New York, “la migliore di sempre”: ma questa ha a che fare con Grossman? Soprattutto, è stata pubblicata? Mentre le ottime sessioni Baton Rouge/Memphis sono poi uscite nei dischi sopra citati rispettivamente nel 1987 e 1991 (dopo la morte di Grossman, Bearsville Records continuò a esistere come licenziataria, e diede i master delle “lost sessions” a Rounder Records prima e a Rhino poi), a tutt’oggi io non ho trovato nessun disco che contenga la sessione di cui parla Davis, perlomeno denominata come “sessione di New York” o in qualche modo riconoscibile.

Henry Roeland Byrd (Professor Longhair) at the piano, New Orleans

Atlantic invece non fece altro che stampare NEW ORLEANS PIANO nel 1972, LP contenente il materiale delle sessioni del 1949 e 1953 già pubblicato a suo tempo (nella riedizione su CD tre alt. take sono aggiunti), ma già solo questo per la prima volta concesse risonanza internazionale al pianista, in particolare in Europa, dove hanno sempre attecchito meglio le riscoperte dei bluesman americani.
L’interesse del nuovo pubblico gli permise di attuare una metamorfosi fisica e psichica. Fu curato, andò dal dentista, ricominciò a mangiare, a digerire, e prese l’abitudine di calzare occhiali scuri e in seguito un copricapo.
Wexler organizzò il primo tour europeo (1973) a Parigi e Montreux, con anche Allen Toussaint e i Meters, incrementando la nuova fama, e tutto fu filmato.
Le cose cominciarono a girare e Quint Davis affittò una casa al 1517 South Rampart da usare come studio e sala prove per Longhair e i Wild Magnolias, l’altro gruppo che seguiva.
Pian piano la famiglia di Byrd si spostò nella nuova struttura, date le misere condizioni di quella in cui aveva vissuto fino a quel momento, ma non molto tempo dopo, una sera, proprio durante il New Orleans Jazz Festival del 1974, l’intera casa bruciò. Persero ogni cosa, tutto quello che erano riusciti a costruire e tutto ciò che possedevano, le uniche cose rimanenti i vestiti che portavano addosso. Fu allora tenuto un concerto di beneficenza al Warehouse, 1820 Tchoupitoulas Street (demolito alla fine degli anni 1980), con Toussaint, Dr John, Earl King, Tommy Ridgley, ma raccolsero meno di 4.500 dollari.

A poco prima (3-4 aprile 1974) risalgono le registrazioni per Philippe Rault della francese Barclay con Clarence ‘Gatemouth’ Brown, effettuate nello Studio In the Country a Bogalusa, la città natale di Byrd, e andate su ROCK ‘N’ ROLL GUMBO che però, da non credere, uscì postumo e rimissato nel 1985. L’album ospita ancora Shiba e ha sapore calypso anche grazie alle percussioni di Alfred ‘Uganda’ Roberts; come al solito sono riprese di classici suoi o altrui ma, come al solito, ogni volta è un nuovo piacere.
Fu invece pubblicato mentre il pianista era ancora vivo, anche se con tre anni di ritardo, il vinile LIVE ON THE QUEEN MARY voluto da Paul McCartney e registrato sulla nave Queen Mary a Long Beach, California, il 24 marzo 1975; la foto di Fess che perplesso guarda l’obiettivo è di Linda McCartney, fotografa di professione. La cosa buffa è che quando McCartney contattò il pianista questi non solo non sapeva chi fosse, ma nemmeno conosceva i Beatles, dato che tutto il suo mondo stava in un triangolo che comprendeva Rampart Street, Tremé e il Ninth Ward.
Nel 1977 con gli sforzi di un gruppo di appassionati fu riaperto il 501 Club e rinominato Tipitina’s in suo onore, diventando il posto in cui i fan potevano sentirlo suonare, per poco tempo purtroppo. Finalmente si poté permettere una casetta e ne comprò una in Terpsichore Street, non lontano da South Rampart.

Tra i CD si può evitare un Wolf denominato GO TO THE MARDI GRAS, prodotto da Ron Bartolucci, che raccoglie registrazioni live in Europa negli anni 1970, e altri dischi simili.
È invece da non perdere, come si sarà capito, HOUSE PARTY NEW ORLEANS STYLE (Rounder Records), contenente quindici di quella trentina di tracce di cui sopra registrate nello studio di Baton Rouge e agli Ardent Studios. È forse il disco del Professore che preferisco, anche se è “anomalo” non essendoci la sezione fiati. Quint Davis aveva motivo di indignarsi per la mancata pubblicazione; non si può non condividere che nel complesso siano killer sessions. Snooks Eaglin, altro particolare prodotto della Big Easy e chitarrista originale e versatile, fa un lavoro importante, mentre la sezione ritmica è favolosa; è in definitiva un disco anche molto blues.
Come detto, il resto delle registrazioni di Davis sono nell’altrettanto bello MARDI GRAS IN BATON ROUGE (Rhino Records). Nonostante il titolo, qui la prevalenza va alle tracce di Memphis; i CD hanno mantenuto il titolo originale degli album, in cui c’erano solo undici tracce nel primo e sette nell’altro. Entrambi hanno ottima qualità audio, cosa che non si riscontra spesso nella sua discografia. Qui c’è anche la sezione fiati, con l’arrangiatore Alvin Batiste al tenore, Edward ‘Kidd’ Jordan al baritono, Willie Singleton e Clyde Kerr alle trombe.
Dopo la scomparsa di Byrd è uscita una gran quantità di dischi che hanno moltiplicato la discografia inutilmente, spezzettandola o proponendo compilazioni con più o meno le stesse versioni di brani già pubblicati, e a volte con titoli ingannevoli del tipo “Essential”, o live spuntati fuori magicamente. Sono tanti e occorre una selezione per evitare di avere troppi brani nella stessa versione e/o un’edizione scadente, e anche per questo nell’articolo precedente ho parlato di THE COMPLETE, perché vi sono riuniti tutti i brani fino al 1957 precedentemente suddivisi in varie pubblicazioni.

Finalmente nel novembre 1979 fu allestita da Alligator una sessione ai Sea-Saint Studios, e Allison Miner Kaslow era tra i produttori, essendo Davis ormai troppo impegnato con il Festival.
Non si temi l’eventuale, notoria mano pesante dell’etichetta di Chicago: qui nemmeno se ne immagina la presenza. Longhair già di suo neutralizza Alligator, gioca in casa (e che casa, i Sea-Saint), e lo fa con i suoi simili. CRAWFISH FIESTA è un disco di energetica party music così carico (in senso positivo), consistente e spassoso di per sé, da non poter temere un’esterna manomissione con la scusa di renderlo più appetibile commercialmente.
È la versione definitiva di Big Chief ad aprirlo in modo splendido. L’originale, diviso in due parti, uscì su 45 giri nel 1964 per Watch Records di Joe Assunto, e la sessione fu prodotta da Wardell Quezergue e Earl King. Pensando a un brano adatto a far ripartire la carriera di Longhair, King si ricordò di questo suo scritto risalente a quand’era ragazzino. Benché il titolo e il testo sembrino riferiti al capo di una tribù di indiani del Mardi Gras (v. LA Fête Cultural), King s’ispirò alla madre, in famiglia chiamata Big Chief per la sua mole. L’idea era di produrlo con un arrangiamento ricco, al contrario del solito, e saturo di suoni bassi; Quezergue scrisse per la sezione fiati, di ben quindici elementi.
Sempre dal racconto di Earl King si legge che quando entrarono nello studio Longhair, convinto che si trattasse di essere in quattro (gli altri erano Smokey Johnson e Dr John), si stupì per la presenza di tutti quei musicisti (tra cui forse i Meters, ndr), tanto che gli chiese se quelli stessero aspettando la sessione dopo. Per tranquillizzarlo King gli rispose che probabilmente era così; Fess allora si sedette al piano e cominciò l’intro, ma quando la sezione ritmica attaccò, e poi tutto d’un tratto arrivarono i fiati, smise di suonare.
Ne seguì una discussione perché Longhair non voleva tutti quei musicisti, non ne sentiva il bisogno, ma poi si convinse e ci mise tanta di quella energia che ancora una settimana dopo era entusiasta, anche per aver ricominciato a far musica. L’entusiasmo si ridimensionò quando Big Chief, all’epoca, fu un flop. Non solo la casa discografica lo pubblicò senza promozione, ma anche sbagliò a farlo non capendo che era un demo solo suonato da Longhair e non cantato da lui. Infatti, King con Fess fece una registrazione solo strumentale, poi sovraincise il suo canto e il fischiettio di modo che il pianista potesse ascoltarlo e reinterpretarlo. Uscì così com’era con il nome di Professor Longhair, e nonostante si senta bene che non è lui a cantare né a fischiare (nella seconda parte), per molto tempo nessuno ci badò (nemmeno Hannusch se n’è accorto). Nel primo anno, nessuna stazione radio lo suonò. Tuttavia pian piano il brano localmente prese piede.

Tornando al disco in questione, qui invece si tratta di Professor Longhair al 100%. Non c’è bisogno di una ventina di elementi per rendere Big Chief al meglio, ma solo di una splendida formazione: Andy Kaslow e Tony Dagradi ai tenori, Jim Moore al baritono, Dr John alla chitarra, Alfred ‘Uganda’ Roberts alle conga, David Lee Watson al basso e Johnny Vidacovich alla batteria. Byrd, sessantunenne in ottima forma (musicale) emana il suo tipico, gorgheggiante shouting, il fischio potente, intonato, e le dita rotolano sui tasti mentre l’attillata sezione ritmica puntella di maestosi colori un brano indissolubilmente legato a New Orleans.
Si conferma uno dei suoi cavalli di battaglia Her Mind Is Gone, e anche qua abbiamo la definizione di un brano che però in questo caso ha seguito Byrd durante tutta la carriera. È un piacere sentirlo così, incorniciato da una ritmica su misura in un voluminoso mid tempo marciante nella tradizione second line: par di vedere davvero una folla di gamberoni e ombrellini danzanti a seguirlo.
Ci sono varie versioni di (There Is) Something on Your Mind, sopraffina ballata d’amore di Big Jay McNeely, ma questa è quella che preferisco insieme all’originale (bella anche la ripresa in duetto di B.B. King ed Etta James). Byrd interpreta le liriche del sassofonista con tonalità vibrante e profonda arricchendo con i suoi gorgheggi, modulando a bocca chiusa e in piccolo scat melodico, lasciando spazio a un caldo solo di sax lungo due chorus in onore di McNeely. L’incredibile ugola di Bobby Marchan invece l’allungò con un lato B da parodia pulp, trasformandola così in murder ballad e arrivando, proprio per questo, al primo posto delle classifiche nazionali R&B: sto parlando di un monologo ben scandito e spietato che narra di un doppio omicidio, a conferma di quanto le tinte forti abbiano da sempre affascinato il pubblico.
Riprende il Byrd di sempre, rollicking, ironico e vivace nella caraibica You’re Driving Me Crazy, breve ripresa di No Buts, No Maybes, con i fiati a ripetere un divertente riff: una carica di energia che purtroppo dura solo due minuti e mezzo, un motivo che entra in testa e un esempio della sua arte performativa.

Che dire dell’esplosivo R&B Red Beans, inno al soul food povero ma sostanzioso della Louisiana e icona della sua tipica narrazione tra nonsense, semplicità e coolness. Sostenuto dai sassofoni e da una base ritmica solida e irresistibile, nel cui vortice gioioso spiccano gli accenti sulle conga di ‘Uganda’ Roberts, Longhair dal piano conduce con verbo convinto e assolo trascinante, tra rock ‘n’ roll e blues.
Il brano, apparso qui per la prima volta, è attribuito a Muddy Waters perché Fess s’è ispirato a Got My Mojo Working (che comunque non è di Muddy Waters). L’assonanza esiste nelle sostituzioni delle frasi Got my mojo working con Got my red beans cooking, e I’m goin’ down to Louisiana to get me a mojo hand / I’m gonna have all you women right here at my command con I’m goin’ down to Louisiana / Gonna find me a ham bone boy / I’m gonna have all these women jumpin’ for joy, e senz’altro nell’enfasi ritmica, ma l’arrangiamento New Orleans lo rende anche molto diverso.
Willie Fugal’s Blues, delizioso impromptu pianistico di solo due minuti, con leggero movimento swing accompagnato da delicate percussioni di conga, è semplice ma lascia il segno, e come tutto questo disco si potrebbe sentire a ripetizione non stancando mai, mentre It’s My Fault, Darling è un potente blues a tempo medio scandito dall’infallibile ritmica e dal peculiare canto incrinato, con le parole mangiate, yodelizzate. Il piano inanella lucide cascatelle, Dr John ci pregia di un bel solo di chitarra (che ricorda l’Eaglin delle sessioni di Quint Davis), e i fiati alla Lloyd Price danno un caloroso sostegno.

Trasportati tout court al carnevale di New Orleans sulla favolosa onda rumba da second line di In the Wee Wee Hours, è inevitabile lasciarsi coinvolgere anche da quest’ultima versione di In the Night, con accompagnamento a moto costante che suona sempre come un unico corpo, ma in cui ogni voce è ben distinta. Dr John mette la firma chitarristica con gustosi ghirigori ritmici su uno dei titoli più party song del Professore.
Solomon Burke in Cry to Me è unico, trascendentale, ma la versione a tempo di rumba di questo gioiellino (di Bert Berns) è altrettanto unica, se non può essere classica allo stesso modo. Nella sua indole ecco come una ballata sentimentale viene “professorizzata”, cioè vivisezionata, sdrammatizzata e anche un po’ ridicolizzata con quei buffi acuti, quegli impeti vocali gonfi, cupi e allegri allo stesso tempo. Rock ‘n’ roll caraibico.
Un disco d’ascoltare tutto d’un fiato che ha del miracoloso, ed è così fino alla fine perché anche gli ultimi tre brani, l’ironico uptempo Bald Head ad aprire le danze finali, ancora non lasciano spazio a nessuna bolla travolgendo con onde sonore irresistibili. Slang velocissimo e un breve solo pianistico con risonanza, effetto panna su torta di cioccolata: quanto tempo da quando cantava She Ain’t Got No Hair al Caldonia Inn, eppure eccola qua di nuovo fresca, sempre più divertente, sempre più evoluto il suo pianismo, sempre più conscio di un serio lato umoristico dominante su ogni cosa.
Forse il fatto che Byrd sia scomparso dopo circa due mesi da queste registrazioni significa che queste ultime versioni di alcuni suoi classici non avrebbero potuto in ogni caso essere superate.

E chi ancora non ha idea di com’è quel canto, con quegli sbalzi di tono ormai ben controllati, diventati punto di forza, e l’uso di fonemi casuali e smussati, arrotondati, yodel e scat così connaturato e spontaneo da assumere anche senso narrativo, si ascolti quel capolavoro che è l’intricato e lucido Whole Lotta Loving. A confronto la versione originale di Fats Domino sparisce. Non credo sia possibile far meglio (e notare il duello di sassofoni, sopra una ritmica celeste): qualcosa di magico e inesplicabile è sceso in loco, qualcosa che poi si è dileguato dietro l’ombra di Longhair e che lui s’è portato via, o s’è fatto portare via.
Tanto whole lotta love quindi, da uno che a inizio carriera, prima dell’azzeccato nomignolo di Professor Lunghicapelli, provò a chiamarsi Little Lovin’ Henry, rinunciando quando s’accorse che gli uomini non gradivano che le loro donne stessero a sentire un tipo con uno pseudonimo così allusivo.
Crawfish Fiesta è un simbolo, una festa a base di gamberi della Louisiana e calypso, ed è quel bellissimo strumentale che in Rock ‘n’ Roll Gumbo si chiama Rum and Coca-Cola. Originariamente scritto con testo da Lord Invader e Lionel Belasco, importanti musicisti caraibici, è attribuito a Amsterdam, Sullavan e Baron perché ne fecero una versione pop di successo cambiando il testo, cantato dalle Andrews Sisters.
È perfetto per accompagnare il ritorno a casa di Henry Roeland Byrd, figura archetipica del rhythm and blues di New Orleans che ha in parte oscurato altri grandi nomi cittadini, pianisti suoi contemporanei (come Champion Jack Dupree, Cousin Joe Pleasant, e il superlativo James Booker), certo non per colpa sua quanto per un mercato con sue leggi insondabili e isteriche.
Allo stesso tempo è stato oscurato lui stesso, vittima di logiche che cozzano contro il genio e il talento artistico, aspetti la cui ultima risorsa è nelle mani dei fan, degli affezionati, quando siano così svegli e buoni d’orecchio da imporre i loro beniamini, non passivi e ignoranti, schiavi e strumenti amorfi dell’industria di consumo e dei mezzi di massa.

Professor Longhair in the streets of New Orleans

Questo disco brillante, un po’ umano un po’ piovuto dal cielo, mostra quanto la sua fonte alle soglie degli anni Ottanta fosse ancora vitale, quanto avrebbe potuto dare ancora, e quanto dobbiamo ringraziare chi gli favorì un ultimo decennio significativo, facendolo arrivare alla fine soddisfatto tanto quanto deliziò chi volle ascoltarlo.
Anche qui Byrd fu sfortunato con la raccolta degli eventuali frutti del suo lavoro, dato che se ne andò il 30 gennaio 1980, l’uscita del disco prevista per il 1° febbraio, il giorno dopo. Morì a casa davanti alla moglie Alice, dopo una giornata come tutte le altre passata a portare in giro in carrozzella l’amico invalido per le strade della Big Easy.
Reinventò gli accenti ritmici come solo un neorleansiano può fare, mischiando boogie e rock, ritmi latini e tradizione pianistica blues, ma il valore di Byrd per i suoi concittadini andò oltre il fatto musicale, stando in quello strano miscuglio tra mito e persona comune a cui pochi possono aspirare.
La sua perdita fu un ulteriore dolore in una città che ha visto sparire i propri miti uno a uno, e mise a dura prova la piccola funeral home di Dryades Street per la tanta gente accorsa, la second line del corteo funebre fino al cimitero di Gentilly così lunga da invadere dieci blocchi di strade. Ernie K-Doe cantò al funerale e decretò, senz’ombra di retorica: “Everybody learned a lot from this man”.

(Fonte biografica e fotografica: Jeff Hannusch, I Hear You Knockin’, the Sounds of New Orleans Rhythm and Blues, Swallow Publications Inc., 1985.)


  1. Aggiornamento: Era presente anche il batterista Edward ‘Shiba’ Kimbrough, come si evince da alcune foto sul sito Howard-Tilton Memorial Library nell’ambito di una mostra online che presenta materiale d’archivio della Tulane University, in relazione al primo decennio (1970-1979) del Jazz Fest.[]
  2. Aggiornamento: Sul Jazz Fest Database vedo che quella prima volta s’esibì a mezzogiorno.[]
  3. Tra l’altro Woodstock era storicamente, e ancora è, rifugio di molti artisti.[]
  4. Aggiornamento: Link su “qui” rimosso perché il sito non è più esistente. La pagina si chiamava “Prof. Longhair vs Grossman and Bears” e il sito era “thediscography.org”.[]
Scritto da Sugarbluz // 21 Settembre 2011
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2 risposte

  1. Mark Slim ha detto:

    “Morì a casa davanti alla moglie Alice, dopo una giornata come tutte le altre passata a portare in giro in carrozzella l’amico invalido per le strade della Big Easy”. Un finale di vita degno dello spessore artistico e umano di Prof. Longhair…

  2. Sugarbluz ha detto:

    Dal racconto di Alice Walton Byrd: “Tornò a casa e si sdraiò. Si alzò verso le 22 e portò il nipote piccolo da Picou (panificio di Mid City aperto tutta la notte) per prendere una dozzina di twister” (un tipo di pane arrotolato). “Quanto tornò mi sembrò strano che non volesse né un caffè né un twister, niente di niente. Si sdraiò nel letto […] poi lo sentii tossire. Dissi: ‘Byrd?’. Non ci fu un gemito, non un lamento, ma avevo già visto mia madre morire, e capii che se n’era andato”.

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