Roots & Blues Food Festival, Correggio (RE) 30.6.2013

Jimmy ‘Duck’ Holmes meets Spencer Bohren

L’ultima serata del Roots & Blues Food Festival 2013 è approdata in territorio reggiano (in collaborazione con il club I Vizi del Pellicano) nel cortile di un palazzo antico nel centro di Correggio, e ha portato un esemplare della tradizione mississippiana restio a metter piede su un apparecchio, Jimmy ‘Duck’ Holmes, così legato a Bentonia, dov’è nato nel 1947, da esser stato il suo unico mondo per tutta la vita.
Trovo fuorvianti le espressioni-spot ricorrenti quali “l’ultimo bluesman rimasto”, e nel suo caso anche “l’ultimo appartenente alla scuola di Bentonia” (per la prima basti solo ricordare che già nel lontano 1951 di Big Bill Broonzy gli europei dicevano che era l’ultimo), perché si rischia di circoscrivere una o l’altra figura come fenomeno superstite di qualcosa che sì, potrebbe sparire del tutto, ma anche sopravvivere meglio se lasciata esistere nel suo poco senza condizionamenti e senza accanimento terapeutico. Non sto dicendo che questo è avvenuto per certo con ‘Duck’ Holmes, in quanto personaggio attirato da discografici e promoter in cerca di un’autenticità che riecheggi, ad esempio, lo spirito di Skip James, ma il confine tra preservazione e condizionamento è sottile ed esiste il pericolo di oltrepassarlo.

Sgombrando il campo da tutto ciò forse si può apprezzare, per ragioni sentimentali o musicali, o entrambe, il manufatto di Holmes fuori dal tempo, pur non essendo particolarmente dotato dal punto di vista tecnico-espressivo, con canto monotono e composizioni anche interessanti testualmente – frutto di tradizione blues autoironica, come Biscuit Roller – ma che non brillano per originalità o per varietà ritmico-melodica, tanto che anche quando interpreta brani non suoi sembra sempre la stessa canzone.
Holmes non si sente performer fino in fondo: si trova più a suo agio come proprietario di un locale contrassegnato da marker storico sul Mississippi Blues Trail, a Bentonia (v. link sotto), e come educatore e musicista che s’esprime con il blues perché è l’unico linguaggio che conosce, per sé e per gli avventori del suo storico bar. Il Blue Front Cafe è raro oggi in quanto autentico juke joint e il più vecchio ancora operativo in tutto il Mississippi, aperto dai genitori di Holmes un anno dopo la sua nascita.
Come dice Jeff Konkel, dal 2006 suo promotore e discografico (Broke & Hungry Records), è l’unico rimasto a Bentonia, quando i ricordi di Holmes riferiscono di almeno nove solo nella cittadina, oggi di cinquecento abitanti. (1)

È cresciuto al Blue Front ed è lì che risiede la sua storia, e dove tutti gli anni organizza un festival blues. Per quanto riguarda la sua identità musicale è corretto affermare che ha uno stile diffuso tra i musicisti tradizionali di Bentonia (appena fuori dall’area del Delta blues), non lo è dire che è l’ultimo esponente di una “scuola” perché è più appropriato parlare di qualche caratteristica imitata e non sviluppata oltre tra artisti di una certa area.
Picking su accordature aperte soprattutto in mi e re minore, uso del falsetto, diffusa qualità sonora e testuale sottile e lugubre, sono caratteristiche di ‘Skip’ James nelle note incisioni Paramount del 1931, in parte ereditate dal mai registrato Henry Stuckey, il quale acquisì quell’accordatura da un gruppo di soldati caraibici durante la prima guerra mondiale. James era in relazione con la famiglia di musicisti Stuckey, e con altri contemporanei dell’area, come Jack Owens e Cornelius Bright, entrambi protégé di Henry Stuckey. Non furono registrati fino a quando non arrivò David Evans negli anni 1960, seguito da Gianni Marcucci che sul finire degli anni 1970 fermò su nastro, tra gli altri, Jacob Stuckey e Owens, trovandovi arcaicità non più rintracciabili nell’ultimo Skip James, riscoperto negli anni 1960, ma è da tener presente quanto questi possano aver imitato, magari soddisfacendo una richiesta implicita o esplicita, lo stile di James tracciato nei famosi e iconici solchi Paramount.

‘Duck’ Holmes non ha mai conosciuto Skip di persona (tornò a Bentonia e se ne andò di nuovo quando Holmes era piccolo), e ha ereditato direttamente da Owens. Come ha fatto domenica sera, utilizza strofe erranti sia nei brani autografi che nel repertorio acquisito da James via Owens, e dalla tradizione del Delta (v. Catfish Blues o Good Morning Little Schoolgirl), avendo diverse versioni di uno stesso brano il cui titolo (quasi sempre ricavato da un verso) può variare, usando il make up testuale del blues orale; proprio come Owens, dal quale ha preso anche la non necessità di rima. È la natura della musica nata non per esser eseguita in studio, ma per intrattenere dal vivo, e il cui svolgimento e durata dipende dall’approvazione e dall’attenzione del pubblico.
Holmes segue questa natura anche nei dischi: se si togliessero le pause da un episodio all’altro potrebbe sembrare lo stesso brano, ma la ripetitività qui è parsa prevalente rispetto al registrato, anche per mancanza di accompagnamento. Uno stile acquisito più da Owens, che si distingueva da James e, dato che Holmes non canta in falsetto e il carattere ominoso è nella media del Mississippi blues, vediamo che della dichiarazione di cui sopra rimane solo l’accordatura, ma non si può darvi troppo peso dato che David Evans sul quel campo ne notò ben sette diverse.

Qui si riconoscono e insieme confondono brani come Blues Ain’t Nothing e Leave in the Morning, con carattere vocale tensivo simile a quello di John Lee Hooker, anche se non così vibrante. L’ultima è un esempio della fusione narrativa di cui sopra contenendo una frase di Red Rooster, che poi farà, e associandosi a I’m Going to Leave You, brano in cui infila il verso errante If you don’t believe I’m leaving, count the days I’m gone, con l’ultima parte, Count the Days I’m Gone, che è un altro titolo del suo repertorio, riconducibile appunto a Leave in the Morning.
I’m Going to Leave You, che non avevo mai sentito, usa metafore non originali ma efficaci (se non ti piacciono le mie mele, perché scuoti il mio albero?): bisogna lasciarsi coinvolgere dalle parole, traghettate da un flusso di sonorità sostanzialmente uguali e con lo stesso tono vocale, e continui richiami, almeno testuali, appartenenti a una tradizione più ampia, legati a intricate soluzioni ritmiche sulla Epiphone.
Non è mancato “il pacchetto Bentonia” più noto ereditato da Owens, con la sottile e profonda Hard Time (incisa come Hard Time Killing Floor da Skip James), e I’d Rather Be the Devil (la Devil Got My Woman di James), diffusa non solo tra gli Stuckey ma anche nelle generazioni antecedenti, come lo zio e il padre di Jack Owens.
Un esempio di attaccatura è il medley con Broke and Hungry e Someday Baby, prima di un episodio ricorrente nei suoi live, Six Little Puppies (And Twelve Shaggy Hounds), e un po’ mi sorprende (ma anche no) scoprire, dopo averlo nominato qui, che fu incisa da Hooker. Un po’ di vivacità arriva con Train, Train (il cui sixteen coaches long forse risale al Mistery Train di Junior Parker, fissante una convenzione), seguita da All Night Long prima di tornare per l’encore di rito.

Le visioni e il vissuto del songster Spencer Bohren, camicia e stivali da cowboy, s’aprono sicuramente su orizzonti più vasti, ma devo dire con poca originalità e una piattezza esecutiva che a lungo andare non lascia tracce; non che le proposte di per sé non siano discrete. S’accomoda con lapsteel e la sua Night Is Falling crea una certa suggestione con sonorità desertiche idealmente cooderiane maggiorate dall’eco del chiostro, però alla fine non mi conquista del tutto.
Con Borrowed Time sulla chitarra acustica ricorda la scrittura di Neil Young, pur lontano dalla resa (emotiva, melodica e strumentale) del maestro. Non per fare paragoni, ma è la prima volta che lo sento e i riferimenti piovono spontanei. Goin’ up the River riecheggia dei trascorsi da musicista itinerante, e in generale tutto ciò che ho sentito evoca il grande paesaggio di un’America attraversata in lungo e in largo, anche se con un linguaggio non molto incisivo e una latenza dal punto di vista dell’urgenza.
Nato in Wyoming nel 1950 in una famiglia numerosa e religiosa, ha imparato a suonare da bambino cantando nel coro di famiglia e girando lo Stato, in piccole come in grandi formazioni. Una vita da romanzo quella di Bohren, forse più interessante della sua musica, che alla fine degli anni Sessanta, lo stesso giorno del diploma, lascia la famiglia, piuttosto bigotta, per un viaggio durato anni alla scoperta delle radici della musica tradizionale popolare americana nelle sue varie forme, militando in diversi gruppi, venendo a contatto con Rev. Gary Davis e incontrando la futura moglie, con cui attraversa il Nordamerica per un anno intero, allargando il suo repertorio e scoprendo la libertà di suonare da solo.

Arrivati a New Orleans se ne innamorano e vi si fermano, proprio nel periodo di post-rinascita musicale della città attorno alla metà degli anni 1970 (dopo la fine del boom degli anni Cinquanta-primi anni Sessanta), ma nel 1983, con tre figli all’attivo, attaccano un Airstream alla loro Chevrolet Bel Air del 1955 bianca e rossa e s’imbarcano in un viaggio durato sette anni, crescendo i figli e trovando gig lungo il percorso, nel frattempo facendo tour anche in Europa e incidendo dischi. Nel 1989 nasce il quarto figlio e continuano a girare fino a quando sono costretti a fermarsi, prima in Colorado e poi in Wyoming.
La nostalgia però lo fa tornare a New Orleans, s’appassiona alla costruzione di manufatti dentro cigar-box (visibili sulle copertine dei suoi dischi) e comincia a fare l’educatore chiamato da Jorma Kaukonen nel suo guitar camp nel ranch di Pomeroy in Ohio. Nel 2005 la sua casa è devastata da Katrina, la ricostruisce insieme alla sua famiglia e la tragica vicenda gli ispira Long Black Line, di cui ricordo una versione convincente eseguita dal vivo in una puntata della terza stagione della serie televisiva Treme.
Prosegue con Blind Blake e il suo ragtime Hey Hey Daddy Blues (“viene da quello che noi chiamiamo Mid South”), e l’autografa Darkness. La sua prima formazione, il gospel, traspira percettibilmente dai modi da good preacher anche nel parlato e nell’intonare Swing Low, Sweet Chariot a cappella, coinvolgendo il pubblico nel chorus, oltre che in People Get Ready, invitante a salire sul “treno verso il Giordano”, in cui s’accompagna alla lapsteel con una melodia e uno stile vocale che ricordano John Hiatt.

All’acustica tradisce ancora la folgorazione country con l’Honky Tonky Blues di Hank Williams, e quella blues con I’ll Never Get out of these Blues Alive di J.L. Hooker, prima di invitare ‘Duck’ Holmes.
Insieme a Bohren, che riprende la lapsteel per accompagnare solamente, Holmes fa ciò che ho riferito sopra a proposito di brani da intrattenimento tradizionale in cui non c’è legame tra un verso e l’altro e le rime non hanno importanza: un lungo blues ritmicamente uguale nella forma di un medley che comprende brani come I’m a King Bee, Same Old Thing (Muddy Waters), Mojo Hand e Early in the Morning. Questo è comunque il momento migliore e i due forniscono prova che entrambi non sono del tutto convincenti in solitaria, e che con un accompagnamento risultano più efficaci.
Tornato solo Bohren conclude con un altro brano autografo, Old Louisa’s Movin’ On, meglio forse perché con la chitarra acustica è più espressivo, e con l’Hallelujah di Cohen, scelta non azzeccata.
Quando tutto sembra finito e me ne sto andando un richiamo mi ferma: Bohren è in piedi e agitando uno shaker intona il chant per eccellenza degli indians di New Orleans, Indian Red. Non sono un’indiana del Mardi Gras però ormai l’incipit Mighty cooty fiyo! mi suona come una chiamata alle armi, soprattutto dopo la serie Treme in cui viene eseguito più di una volta (e io ho visto la serie più di una volta).
Naturalmente, senza le voci nere, l’accompagnamento sui tamburi, i costumi e il resto del folklore, non è la stessa cosa, finendo poi con Iko Iko, desunta anch’essa dall’amata e amabile Big Easy.


  1. Aggiornamento a integrazione: altri juke joint storici in Mississippi, tra quelli che ho visto nel viaggio del 2016, sono il Red’s Blues Club a Clarksdale e il Queen of Hearts a Jackson. Altri club, come il Rainbow Inn e L & M Lounge a Hollandale, il 61 Blues Club a Leland, il Do Drop Inn a Shelby, il Po’ Monkey a Merigold, sebbene come storia, aspetto e frequentazione siano paragonabili a juke joint, non lo sono del tutto in quanto raramente hanno musica dal vivo.[]
Scritto da Sugarbluz // 4 Luglio 2013
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