Roots & Blues Food Festival, Sissa (PR) 24.6.2006
T-Model Ford / Big George Brock / Watermelon Slim / Rootsway Band
Dopo la parziale ma cocente delusione subita a Castel San Pietro, una delle tappe del Roots & Blues di Parma, presso l’antica fornace di Gramignazzo, mi ha risollevato un po’ il morale. Spero non sia stato un caso isolato e che la sua formula sia ripetibile: come si vedrà, non c’è bisogno di strafare, è solo questione di centrare il punto. Perfino il gruppo italiano ha brillato di luce propria, incastonandosi perfettamente nello spirito e nella qualità delle esibizioni venute da oltreoceano.
Innanzitutto il luogo: un parco naturale in piena campagna nella bassa parmense irrorata dal Po, nella zona del prosciutto crudo più pregiato. Arriviamo a danze iniziate, percorrendo la statale da Reggio ci vuole un po’, ma poco male perché lungo la strada il tramonto estivo calante sul paesaggio merita. Lasciamo l’auto nel prato, non vediamo nulla ma ci arriva bella old time music a indicare che il posto è giusto.
L’area dei concerti è delimitata sullo sfondo dalla vecchia fornace, a sinistra dalla zona gastronomica con specialità sia locali che del sud degli States (pare che il bisonte abbia avuto successo) e a destra dalla verde muraglia dell’argine, di là dal quale scorre un affluente del Po che si trova poco più a nord. Nei dintorni, poi, c’è un ponte del diavolo. Le automobili rallentano incuriosite passando sull’argine, sopra di noi; insomma, l’atmosfera è bella e la musica buona.
Hokum, ragtime, primo jazz-blues, chiaramente scanditi con nerbo e d’indiscutibile attrazione; è la Rootsway Band. Stanno suonando Big Road Blues e si tratta di Mauro Ferrarese, molto calato al dobro e al canto, Dario Polerani, contrabbasso, Max De Bernardi, voce e chitarre, con bel tocco sull’acustica amplificata e sul banjo, e Oscar Abelli alla batteria; è un’unione occasionale, ma la coesione è buona. Piacevole musica tradizionale senza tempo, tra rurale e urbano, dal Dixie al Piedmont; apprezzabili i volumi, la sintassi, l’interplay, il lavoro del singolo al servizio dell’insieme. Ottimo anche il gusto rétro di Just Because.
Nessun strappo con l’entrata di una cantante, Veronica Sbergia, che s’accompagna con l’ukulele. Anzi, l’amalgama è perfetto. È versatile, spontanea, bella voce nitida, personalità da graffiante red hot mama cresciuta con le cantanti di classic blues. Tradizione e freschezza e non vi sembri poco, niente a che vedere con la schiera di leziose cantanti minimaliste quando non barocche di scuola jazz (che non sopporto), o al contrario di sguaiate urlatrici che pensano di cantare blues imitando Janis (c.s.).
Nobody Knows You (When You’re down and Out), classico reso noto da Bessie Smith, è tra le sue migliori proposte: l’ostenta con sicurezza fino alla fine, come When I’ve Been Drinking di Big Bill Broonzy. Un altro episodio riuscito è Travellin’ Man di Pink Anderson, ma tutto sarebbe degno di nota.
Era ultimo in scaletta T-Model Ford (James Lewis Carter Ford), ma lo fanno suonare prima per motivi legati all’età: ha (forse) 82 anni portati bene nonostante la vita cruda e violenta, ventisei figli e cinque mogli, descritto da Matthew Johnson (una metà di Fat Possum, l’altra è Bruce Watson) come uno “psicopatico spensierato”.
Il Mississippi, finora rappresentato in modo icastico e sonoro, adesso sembra realizzarsi palpabilmente, come se un grosso nugolo di insetti fosse improvvisamente arrivato per rilasciare uno dei suoi autentici figli, direttamente dal backyard della sua modesta casa a Greenville.
Oltre la sua voce e chitarra elettrica c’è il fido batterista Spam, che non mostra un vasto repertorio di pattern (a che servirebbe?), ma è molto giusto per T-Model. Versioni scarnificate e appiccicose di Got My Mojo Working, Hoochie Coochie Man, Cut You Loose: blues del profondo sud che prende a prestito dal nord, tornando a casa. Quasi superfluo dire che sembrano nuove e diverse, anche Forty Four Blues e You Don’t Love Me, come create in quel momento. Wake up! – ci consiglia ripetutamente.
È un avanzo di galera, si definisce un vecchio taildragger, ma di persona non è così poco rassicurante come la sua storia, la sua musica e le copertine dei dischi raccontano, infatti nel backstage è sorridente e disponibile a fare due chiacchiere, o forse è solo il suo lato debole per le donne.
Compone e suona a memoria, dice d’esser analfabeta, e continua con brani come Sallie Mae, Come Back Home, When Are You Comin’ Back, Yes I’m Standin’ (una versione di Mean Old Frisco). Ha in dotazione un boogie blues dai riff ritmici ossessivi, in stile Hill Country blues, anima di un’eredità africana sopravvissuta.
È la sua tradizione, mentre la sua benzina sono i bicchierini di whiskey: “Jack Daniel’s time!” è il ricorrente richiamo quando ne vuole un altro. S’impone di berne poco alla volta in bicchieri piccoli per metabolizzarlo meglio e non ubriacarsi, dice, non so però se alla fine per il fegato ci sia molta differenza!
Il richiamo alcolico di T-Model è usato poi scherzosamente da Watermelon Slim, il tizio che poco prima s’aggirava tra il pubblico insieme a Spam non perdendosi niente. Si sente a casa perché ha già suonato in questo festival, s’è fatto molti amici e mostra i mojo portafortuna che si porta appresso e quelli che ha acquisito qui, mentre tra un brano e l’altro infila una lode al Parmigiano-Reggiano.
Si diverte e, al di là dell’ironia del personaggio (è un Cocomero Smilzo, tra l’altro calato nella regione dei cocomeri nel periodo giusto), William Homans, veterano del Vietnam, sembra un cowboy senza gloria né cavallo, un personaggio di frontiera che canta come se la vita l’avesse prosciugato, suona l’armonica con passione, la chitarra in orizzontale da mancino, e si scrive le canzoni.
Negli anni 1960 è partito dall’Oklahoma per arruolarsi (m’ha subito ricordato il Claude Bukovski di Hair) e, anche se non è un vero okie ma un bostonian cresciuto in North Carolina, ha un copione da outsider. Ha una band chiamata The Workers, e i lavoratori, cool quanto lui, sono J. Mack alla seconda chitarra (ho dubbi sul nome), Michael Newberry alla batteria, Cliff Belcher al basso e un’ottima sezione ritmica.
Ex camionista, lunga gavetta come sideman in giro per il mondo, solo recentemente ha pubblicato dischi a suo nome. Non posso riferire granché riguardo i titoli perché trattasi per la maggior parte di brani autografi dall’ultimo disco, uscito nel febbraio 2006 per Northern Blues, che ancora non conoscevo.
Ha cominciato e finito con due classici, Scratch My Back e Dust My Broom, il resto s’è basato su originali con approccio loose, informale, e sonorità evocative, non rifacendosi a uno stile in particolare tanto è vasto l’orizzonte vissuto. Un po’ di Texas, specie nella band che lo accompagna, un po’ di Delta nel canto e nell’uso cadenzato dello slide, un po’ di New Orleans con l’idioma e un brano post-uragano, Black Water, e da qualche parte un certo istinto rockabilly. Musica asciutta, diretta e comunicativa, con impetuoso soffio chicagoano d’armonica; modernariato musicale che si rifà al rock ‘n’ roll, veicolato da un predicatore che sa coinvolgere il pubblico. Scende dal palco, gira intorno alla platea e si ferma a suonare l’armonica in mezzo alla gente, si butta a terra: per lui è una festa.
Gran fermento di nuovo attorno al palco, senza transenne e con back-stage accessibile: l’ex-pugile Big George Brock, 74 anni, quarantun figli (sic) e un mantello scintillante oro che si farà teatralmente togliere dopo le foto di rito, è accompagnato sul ring.
Con suono elettrico acerbo e tradizionale, promuove il disco Club Caravan (dal nome del suo ex locale a St Louis), registrato live in studio con la fornitura di Jimbo Mathus e uscito grazie a Cat Head, etichetta e negozio (Cat Head Delta Blues & Folk Art) di Roger Stolle nel cuore di Clarksdale. Una spiccata predilezione per il suono anni Cinquanta, evocato anche dalla copertina vintage del disco, e di primo acchito sembra Papa George Lightfoot, con il microfono dell’armonica dall’effetto megafonico.
L’armonicista di Grenada, Mississippi, è accompagnato dalla chitarra di Bill Abel, barbuto musicista di Belzoni, MS, cresciuto alla corte di Paul ‘Wine’ Jones e di altri vecchi chitarristi elettrici rurali del Mississippi, e da una sezione ritmica reggiana, al basso Martin Iotti e alla batteria ancora Oscar Abelli.
La scelta spazia da brani suoi ben riusciti come Call Me a Lover e la tribale M for Mississippi, a cover celebri come Mannish Boy, Down the Road I Go, Someday Baby (Worried Life Blues), Lowdown Dirty Shame, e purtroppo sembra proprio non possa mancare di nuovo Got My Mojo Workin’, eseguita sdraiati sul palco forse per renderla più originale.
Nel finale appare Watermelon a fianco di Brock: accostati in ginocchio e My Babe nelle armoniche, poi anche abbracciati. Suonare in quella posa penitenziale non è il massimo, ma è una concessione al pubblico e ai fotografi, mentre io ho rinunciato alla mia ultima buona postazione per osservare la fase finale da lontano. Non rinuncia invece T-Model Ford a tornare per You Don’t Have to Go e poi, insieme a Brock, come due nonni ci mandano tutti a letto con When I Lay My Burden Down, con la speranza di risvegliarsi il giorno dopo, con o senza fardello.
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