Rosco Gordon – Memphis Tennessee
Memphis, Tennessee, take one hundred and one thousand.
Con questo solenne quanto ironico parlato di Rosco Gordon annunciante un improbabile progressivo di registrazione, inizia uno squisito comeback album degli anni 2000 offrente un vivido e fedele ritratto di uno dei principali fautori del R&B di Memphis degli anni 1950, grazie a un artista ancora brillante, un’attenta produzione (Duke Robillard), e un’indie canadese, Stony Plain.
L’incipit prelude a Memphis Tennessee, spumeggiante rock ‘n’ roll “base” di Chuck Berry, carico di swing e dedicato alla sua città: sono le bacchette di Jeffery McAllister a segnare l’attacco, i sassofoni rispondono ai nomi di Doug James e Gordon Beadle, il pianoforte a quello di Matt McCabe e il basso è in mano a John Packer, mentre la chitarra è compito solo di Duke Robillard, impegnato a impreziosire di riff ritmici il canto di Rosco. Nei primi anni 1950, quand’era poco più che ventenne (nato a Memphis il 10 aprile 1928, non nel 1934 come da lui dichiarato) e cominciò l’avventura davanti a un vero pubblico, non poteva immaginare che la sua verve creativa e performativa, e la sua tipica scansione ritmica sul pianoforte, avrebbero creato uno stile caratterizzante il volto musicale di Memphis e influenzato la musica di là da venire di un’isola caraibica apparentemente chiusa al mercato statunitense, a causa della povertà e del parziale isolamento dei suoi abitanti, la Jamaica.
Il suo primo mentore fu l’ubiquo Nat D. Williams, professore di storia alla Booker T. Washington (la scuola di Rosco “per un minuto”, come dichiarò lui stesso) e tra le altre cose ex cerimoniere al Palace Theatre in Beale Street, il quale nel 1950 lo indirizzò al contesto dell’Amateur Night del mercoledì sera. Quella notte Rosco vinse il primo premio, consistente in cinque dollari (“I wasn’t really a musician, but my friends knew I could sing… We had no wine money”), (1) e l’invito di Rufus Thomas, in quel periodo emcee al Palace, a visitare WDIA, dov’era dj. Nel giro di una settimana Rosco ebbe il suo show, e fu così che centinaia di migliaia di ascoltatori furono contagiati dall’estro e dall’entusiasmo di questo giovane artista.
Il passo successivo fu inevitabile e a pochi metri: il Memphis Recording Service di Sam Phillips (dal 1952 Sun Records) dall’inizio del 1950 calamitava artisti d’ogni tipo da tutta la regione con la promessa We Record Anything-Anywhere-Anytime.
La loro prima avventura di successo si concretizzò in Booted, bozzetto ritmico in cui, su suggerimento di Phillips, Rosco interpretò il classico testo d’amor perduto con dizione da ubriaco strascicando le parole in fin di frase, insieme a un ritmo zoppicante sul pianoforte (simbiosi con la sua leggera balbuzie?) e l’accompagnamento di un honking saxophone, effetto reso noto dal sassofonista Illinois Jacquet. La canzone non era estranea allo spirito memphiano “classico”, ma inaugurava il connubio tra sax e piano con uno shuffle semplice ed efficace, che Phillips poi etichettò come “Rosco’s Rhythm”. Il brano fu venduto sia ai Chess che ai Bihari, scatenando una causa legale, e dapprima uscì come 78 giri alla fine del 1951 (Chess 1487), ma fu la versione pubblicata nel 1952 per i Bihari (RPM 344) ad aver successo, rimanendo nella classifica R&B per ben tredici settimane e arrivando al primo posto; la versione Chess sul retro aveva I Love You till the Day I Die, cantata da Bobby Bland alla sua prima incisione, forse scritta insieme a Rosco.
Erano tempi in cui anche i brani adatti a scalare con leggerezza la top-ten nazionale avevano pur spesso qualcosa da comunicare, una brillante scocca di talento, una melodia e/o un ritmo azzeccati; in questo caso c’era anche il trattamento di un tema comune in modo quasi demenziale.
Il successo seguente fu l’errebì No More Doggin’ dato ai Bihari (RPM 350, su 78 e 45 giri) con ancora un’ottima posizione oscillante tra il 2º e il 3º posto per quindici lunghe settimane: era l’aprile del 1952 (nel 1957 uscì anche su RPM 496 e nel 1959 su Vee-Jay 316).
Il binomio era lo stesso, avanzamento saltellante sul pianoforte e “versacci” dal sassofono tenore, più batteria, questa volta con ritmo più accentuato sull’off-beat, il levare, come a definire meglio le caratteristiche di uno stile che, insieme all’uso di un ritornello e di un formato più classico, lo resero l’archetipo del “Rosco’s Rhythm”, diventando uno standard ripreso da molti. Fu registrato nel salotto di un amico, e probabilmente non ritennero necessario ripetere l’esperimento in studio poiché il suono casalingo era una caratteristica che avrebbe colpito l’ascoltatore.
Nel frattempo teneva delle sessioni serali alla WDIA, come il batterista Earl Forest, Johnny Ace, Bobby Bland, B.B. King, Junior Parker, il sassofonista Bill Duncan: erano i cosiddetti Beale Streeters. Le registrazioni di costoro (tranne B.B. King) furono il materiale che diede stura a Duke Records, portate poi a braccio dal dj David J. Mattis fino a Chicago, cogliendo l’occasione della convention dei dj per sottoporle all’attenzione di Don Robey, allora boss di Peacock Records.
Così Rosco, con successi pubblicati da tre diverse etichette, a neppure diciott’anni aveva un tenore niente male per un giovane nero dei tempi. Abiti di qualità, grandi spettacoli in giro per il paese e una bella macchina con una cassaforte saldata nel bagagliaio a mo’ di gangster in cui riporre i guadagni, utili per coprire le perdite al gioco e fare il filo alle donne, grazie anche a un altro episodio in classifica, The Chicken (1956).
Per sponsorizzare questo ballabile e per aumentare l’audience dal vivo Gordon si servì di un vero pollo, particolarmente dotato: girava tra il pubblico, danzava sul pianoforte e addirittura beveva scotch, agghindato con gli stessi vestiti del padrone in miniatura. Il pubblico accorreva numeroso, ma la vita spericolata non era adatta al povero giovane polletto Butch, che se n’andò presto, anche se con gli onori da star. La perdita fu un contraccolpo (economico) per Rosco, che girò disperato senza successo tra i pollai del sud per trovare un altro rooster d’uguale talento.
La sua vita fu soddisfacente, secondo quanto lasciò intendere l’artista o, perlomeno, il carattere ottimista insieme alla fede cristiana lo misero al riparo da eccessivi sconforti. Si sposò, divorziò, si risposò nel 1961 con Barbara Kerr, notata in un cinema in compagnia del fidanzato, a Shreveport. S’appostò davanti al bagno delle signore immaginando che prima o poi sarebbe passata da lì, e dopo solo tre appuntamenti si sposarono.
Iniziarono una nuova vita a New York, nel Queens, dove però non riuscì a eguagliare il successo di Memphis, e Barbara gli chiese di non andare in tour per seguire la famiglia in crescita. Incise qualche 45 giri auto-prodotto insieme alla moglie, anche lei cantante, in un tentativo di business familiare (Bab-Roc). Provò diverse occupazioni fino a quando trovò lavoro in una lavanderia, in cui poi entrò in società acquistandone una parte aiutato da una vincita al gioco, e questo gli permise, quando la moglie nel 1982 s’ammalò di cancro, di dedicarsi con relativa tranquillità alla famiglia, composta da tre figli e con Barbara amputata di una gamba, ormai bisognosa d’assistenza quotidiana.
Lei morì la mattina del giorno di S. Valentino del 1984 con l’assicurazione da parte del marito che si sarebbe occupato dei figli, compito che portò avanti con orgoglio e ottimi risultati. Non dimenticò però la musica, continuando a scrivere, registrando canzoni a casa e riprendendo poi a girare in Europa e in Canada, e non avendo mai ripensamenti sulle sue scelte, assunte fino in fondo con dedizione.
Dopo diverse occasioni mancate è grazie all’incontro con Duke Robillard e alla produzione di questo disco se nel 2000 Rosco tornò sul mercato con la stessa predisposizione, sempre sorridente seppur sofferente e malato. Così, mentre nel title track si è subito coinvolti nel ritmo vitale e gioioso di quest’incallito performer, nella seguente Sit Right Here si è avvolti dal caldo abbraccio di un’ammaliante rumba. È un ballabile crepuscolare sostenuto dalla voce soulful, vellutata, con poteri medicamentosi, dal ritmo ondulante e tranquillo, dalla chitarra che lancia echi hawaiani, dai sax che dipanano il filo della matassa per riavvolgerlo in un gomitolo malinconico.
Si torna moderatamente a saltellare, e il sax a starnazzare, con Bad Dream, errebì a tempo medio sul classico tema onirico tanto caro ai bluesman più tormentati, trattato però alla sua maniera, esente da angoscia.
It Takes a Lot of Lovin’ è invece un soul blues ficcante con passione palpabile nella sua voce, Robillard elegante come T-Bone Walker e una band tutta da ammirare per la dignità che regala a mani aperte.
Dalla preghiera passionale, ma piena di contegno, si passa poi alla dichiarazione d’orgoglio, e versione definitiva, di No More Doggin’: da questa deliziosa invenzione ci comunica la sua voglia di vivere. Curiosamente dopo aver scritto nella bozza di questo testo che avremmo dovuto ringraziarlo per averci regalato questa canzone, e per averla riproposta così oggi per le nuove generazioni, m’accorgo che nell’intervista alla fine del disco è lui a ringraziare per l’opportunità di averla potuta cantare ancora.
Provo una leggera stretta alle prime, inconfondibili note di chitarra dell’incantevole Now You’re Gone, sentita nel finale del film Road To Memphis. Non avendola notata nella lista e mai più ascoltata altrove, m’arriva come una bella sorpresa. Nel filmato fa da colonna sonora alle immagini del suo funerale (2002), avvenuto poco dopo la fine delle riprese in cui si vede affabile e sorridente. Pensata probabilmente per la moglie là è stata usata per lui, con la sua voce, nel film narrante il suo stesso ultimo viaggio, che si perde in un’eco lontana, come infilandosi in un tunnel senza ritorno. Quasi un country ballad melodico e poetico, con ammirabile lavoro di sax e chitarra, e qui Rosco per la prima volta nel disco si mette lui stesso al piano come se fosse compito troppo personale per lasciarlo ad altri, a tintinnare quel suo ciondolante ritmo, diventato dolcissimo e triste.
Just a Little Bit, il suo maggior successo e il suo più grande mancato introito, risale a quando era nei vent’anni e girava in tour insieme a Jimmy McCracklin con il repertorio pubblicato da Sun e Duke/Peacock, repertorio che contribuì sostanzialmente alla nascita del rock ‘n’ roll. Durante i viaggi in bus McCracklin aveva preso l’abitudine di cantare un motivetto accompagnandosi con la chitarra: I don’t want it all, I just want a little bit, senza andare mai oltre.
A Rosco piaceva e chiese a Jimmy di poterla sviluppare, decidendo di condividere la firma sul brano; quando lo concluse lo aggiunse subito alla scaletta dal vivo, con ottimo riscontro del pubblico. Finito il tour la portò a Ralph Bass (King Records di Cincinnati) sicuro di avere in mano un successo, e Bass fu d’accordo nell’incidere un demo, salvo poi dire di non essere interessato.
Rosco si rivolse allora a Calvin Carter di Vee-Jay a Chicago, senza preoccuparsi del fatto che il nastro era ancora nelle mani di Bass. La registrò quindi da V-Jay il 16 dicembre 1958 e il 22 era già per le strade di Chicago (Vee-Jay 332), nel frattempo però non solo altri cantanti la stavano incidendo, ma Bass usò il demo per mettere il suo copyright sulla canzone aggiungendovi nomi di artisti che non c’entravano nulla (come Buster Brown e Fats Washington, e un forse fittizio John Thornton, o come Piney Brown, di casa King, che l’incise).
Negli anni seguenti Rosco cercò di recuperare la paternità del brano, completamente ignorato da Bass, fino a quando lasciò perdere: deluso dal music business cominciò a occuparsi a tempo pieno della lavanderia. La canzone diventò uno standard nel repertorio di una cinquantina di artisti, tra cui Elvis Presley, Etta James, Jerry Butler, Little Milton, i Beatles, vendendo più di quattro milioni di copie.
Nel 1990 (“due milioni di dollari più tardi”) senza preavviso Ralph Bass gli inviò una lettera annunciante che da quel momento il proprietario ufficiale della canzone sarebbe stato lui, Rosco Gordon, non adducendo nessuna spiegazione (il produttore morì qualche anno dopo).
La sua versione originale è diretta, sensuale, e la canta ispirato e veemente. La ritmica, spezzata, avanza come sempre claudicante, ipnotica, e il sax inserisce due assolo energici ma circostanziati, come a soffiare sulla fiamma. Qui è ricostruita molto bene e senza cambiare una virgola, ma con arrangiamento moderno e il suono pulito del 2000; manca quel particolare groove felino presente nel suono e nell’interpretazione originale.
Si va poi in terreno cool blues con Let’s Get High, brano da ballroom con gli ottimi sassofoni (baritono e tenore) che ancora forniscono ossatura e colore, una ritmica uptempo a più strati arricchita dal bel piano di Matt McCabe, un solo di Robillard, le armonie vocali della band e il cantante, irreprensibile, a coinvolgere idealmente il pubblico.
Sembra quasi un depurativo per prepararsi alla seguente Jelly Jelly, unico brano non autografo. È un voluttuoso blues lento di due leggende del jazz orchestrale degli anni 1940, Billy Eckstine e Earl Hines.
Gordon, al piano, infittisce e ammorba (in senso buono) la trama lasciando intuire lo stato d’animo già dalla prima frase, con i fiati piangenti. Robillard invece infila una dopo l’altra note cariche di messaggi; si sente che ha cambiato chitarra, e il fantasma di T-Bone è ancora più presente. Oltre che prolifico autore Rosco era musicista toccante e sensibile, e ancora nel 2000 si poteva sentire così, con una voce maggiorata in comunicativa e intensità, portata a piegarsi leggermente in fin di frase, come a chinare appena la testa in un moto di nostalgia.
Tell Me I’m the One è una ballata che rimanda al rock melodico e al doo-wop dei gruppi vocali della costa est, alle piccole orchestre allietanti le feste, in un medio-lento ancheggiante stile American Graffiti; è d’ammirare ancora l’interpretazione vocale.
Cheese & Crackers è un divertente jump alla Louis Jordan (e torna il Mabon di I Don’t Know), situato tra R&B e R&R e inserito in un quadretto a sfondo culinario, tema amato dagli afroamericani tanto come metafora sessuale quanto in questo caso come pretesto per acrobazie non-sense vocali (come tenere la nota lunga) e strumentali (gli sbuffi del sax) per l’intrattenimento live, con il sassofonista ad accompagnare plasticamente il cantante sulla scena.
La paternità di questo novelty song è controversa. Sembra sia da attribuire in parte ad Hayden Thompson, cantante rockabilly alla Sun il quale un giorno, in pieno blocco su come musicare le parole buttate giù, andandosene lasciò il foglietto con le liriche sul Wurlitzer dello studio; fu proprio Rosco a trovare quel foglietto e in un attimo a confezionare la canzone. Thompson dichiarò che la scrissero insieme, ai tavolini del frequentatissimo caffè adiacente agli studi Sun, smentito da Rosco che disse di non averlo mai incontrato, né sentito.
Comunque non fu un hit ed è più vicino al rock ‘n’ roll anni 1950 figlio del blues, diversamente da You Don’t Care about Nothing, lontana almeno musicalmente se non spiritualmente. L’autore è solo al pianoforte cantando uno struggente torch-song atipicamente introverso e con accompagnamento pianistico esistenzialista noir, da solitudine metropolitana, qualcosa che potrebbe scrivere Tom Waits o Van Morrison, in un bar di quartiere deserto e con l’insegna lampeggiante rotta.
Segue un’intervista in cui elogia Duke Robillard, la band, e la velocità con la quale hanno assimilato completando il disco in appena tre giorni, raccontando di quanto si sia divertito sentendosi giovane, potendo cantare, suonare il piano, ballare e divertirsi come ai vecchi tempi. Continua ricordando gli esordi del 1951, l’eccitazione dei tempi e Sam Phillips, definendolo the greatest producer I’ve ever seen in my life.
Riferisce poi che da ragazzo era affascinato da Nat King Cole e Charles Brown, che ascoltava country-western e gospel più che blues, di come vinse l’amateur show, dei giorni della radio, di Bobby Bland, che per un po’ gli fece da chauffeur, di quanto Booted gli cambiò la vita in meglio ma anche di come arrivò a detestarla, e di No More Doggin’, nata da una vera esperienza e riproposta ancora volentieri. Rammenta anche Butch the Chicken, definendolo il suo moneymaker, le sensazioni e i fatti spiacevoli legati alla vita dei neri nel sud, e quelle piacevoli date dal pubblico plaudente. (2)
Per quanto riguarda il suo influsso allo sviluppo dello ska e del reggae, era già chiaro che il rhythm & blues afroamericano fu un elemento formante. Nello specifico, l’influenza che Gordon ebbe sui musicisti giamaicani è resa nota dal cantante Laurel Aitken, soprannominato The Godfather of Ska, pioniere e star del suono ibrido giamaicano degli anni 1960 direttamente influenzato dal R&B, il quale parlando delle sue radici disse d’essere stato influenzato da Rosco e dal suo downbeat boogie, perché era molto popolare:
We mixed the boogie-woogie stuff with calypso, and that’s where ska came from, as simple as that.
La circostanza su come certi giamaicani conoscessero o avessero dischi americani, non potendo permettersi negli anni 1950 di fare turismo negli Stati Uniti o di avere giradischi, può essere spiegata da almeno due occasioni. Una è la radio, dalle cui frequenze come abbiamo visto Gordon passava spesso essendo di casa alla WDIA e la sua musica più radiofonica di altre. Le onde radio di alcune di queste emittenti del sud erano così potenti da arrivare fin laggiù, soprattutto nelle giornate limpide: WDIA, ad esempio, a partire dal 1954 poté contare su 50.000 watts.
L’altra è che parecchi lavoratori agricoli stagionali, e tra questi c’erano impresari, musicisti e dj, assemblatori di sound system (impianti mobili per riprodurre musica all’aperto nati proprio nei ghetti di Kingston negli anni 1950), cominciarono a tornare dagli Stati Uniti carichi di dischi R&B: il sound system era come il totem della comunità, era un dio emanante musica per tutti. Amavano il boogie e il jump blues, Amos Milburn, Fats Domino, Louis Jordan, Bill Doggett, e Rosco, da loro considerato il padre putativo.
Gli autori di Reggae Routes (Chang e Chen), pensano che la musica del sud degli States fosse la preferita dagli isolani perché lo stile rilassato e ciondolante era speculare ai ritmi naturali delle West Indies, ma quando la musica americana negli anni 1960 cambiò di nuovo il pubblico giamaicano perse interesse. I vari dj, produttori e musicisti locali, in competizione fra loro e alla ricerca di qualcosa di nuovo, cominciarono a sviluppare la propria musica tinta di R&B, dando origine allo ska. Il termine è onomatopeico, pare infatti derivare dal suono spezzato della chitarra quando suona semplici figurazioni ritmiche sincopate, proprio come faceva Rosco sul pianoforte.
Tornando al disco, queste eccellenti nuove interpretazioni vanno oltre ciò che ci si potrebbe aspettare da una vecchia gloria, lontana per vent’anni dalle luci della ribalta. Suonatele e conservatele come un bene prezioso, perché sono state persone come Rosco Gordon a rendere la segregata Memphis apparentemente il posto più dolce in cui vivere.
- Charles Farley, Soul of the Man: Bobby ‘Blue’ Bland, Univ. Press of Mississippi, 2011, pag. 32.[↩]
- La maggior parte delle notizie biografiche riportate qui le ho raccolte dalle note, scritte da Denise Tapp, e dall’intervista.[↩]
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