Veronica Sbergia e Max De Bernardi – Old Stories for Modern Times

Cover of Veronica Sbergia e Max De Bernardi CD, "Old Stories for Modern Times"

Dopo averli apprezzati dal vivo nell’ormai lontano 2006, è un piacere ricevere il loro disco del 2012 a conferma dell’ottima impressione avuta in quella occasione. In questo lasso di tempo Veronica Sbergia ha pubblicato il suo primo disco solista, Ain’t Nothing in Ramblin’, con l’aiuto di Max De Bernardi, con il quale ha dato vita a un nuovo progetto, Veronica & The Red Wine Serenaders (arricchito da Alessandra Ceccala al contrabbasso e Mauro Ferrarese alla chitarra resofonica, e occasionalmente altri solisti) rilasciando due dischi, uno in studio dal titolo omonimo e un altro, D.O.C., registrato in presa diretta alla stazione di Ora.
Si sono inoltre esibiti in diversi paesi europei con il successo che fin dall’inizio gli ho augurato, sia per loro come validi musicisti e interpreti, sia per l’operazione di recupero di materiale tradizionale affascinante, che tutti coloro che si dichiarano amanti del blues e della musica americana dovrebbero conoscere e desiderare di sentirlo reso con la stessa competenza delle formazioni oltreoceano, dove gruppi di questo tipo sono variamente diffusi anche se poco noti al grande pubblico.
È musica popolare pre-II war di nuovo fresca e attuale proposta in modo rispettoso e non pedante, verosimile a come doveva risuonare negli anni 1920/30, in acustico e con gli strumenti tipici del genere e del sud rurale degli Stati Uniti (peccato solo che manchi il violino, non più così usato agli inizi del Novecento come nei due secoli precedenti, ma ancora caratterizzante di certa musica popolare).
Questo ensemble è una boccata d’ossigeno per i palcoscenici del circuito blues (e non) della povera Europa, spesso martoriati da mediocri riproposizioni rock dei soliti classici blues che non ne possono più e chiedono di riposare in pace.

Veronica Sbergia, bergamasca, possiede un dolce mordente e accompagna il canto brillante con strumenti ricchi di personalità come ukulele, kazoo, washboard, glockenspiel, mentre Max De Bernardi, milanese, è un abile menestrello di chitarre acustiche e resofoniche, mandolino, banjo e ukulele. Sono due gli ospiti venuti da lontano e uno, Sugar Blue, si sente già nel primo brano, il rag Viper Mad, reinterpretare con l’armonica il clarinetto di Sidney Bechet (nel brano originale del 1938 con i Noble Sissle’s Swingsters credo suonasse il sax soprano). Qui l’armonicista di Harlem mette finalmente la sua tecnica al servizio della melodia in modo limpido ed economico, svolazzante sull’assistenza di De Bernardi alla chitarra e di Dario Polerani al contrabbasso, quest’ultimo fulcro ritmico di tutto il disco. Nel piacevole mix di corde c’è anche un washboard, direi suonato da Veronica mentre alla voce interpreta con soavità versi ispirati da uno speciale “tè” detto viper (Wrap your chops / Round this stick of tea / Blow this gage / And get high with me), nome della marijuana negli ambienti jazz degli anni 1920/30.
Solo chitarra, voce e washboard per l’esplicito double-entendre Press My Button (Ring My Bell) di Lil Johnson, misconosciuta blues diva degli anni 1930 in parallelo con la più nota Lucille Bogan per la comune tendenza a sfornare 78 giri da black hot mama che spesso finivano per essere vietati nei juke-box dell’epoca, acquistando ancora più mistero per i posteri.
Se il canto di Veronica per me non è una novità, diversamente quello di De Bernardi non lo conoscevo e mi ha colto di sorpresa per la maturità e la somiglianza a quello di Ry Cooder, in Ragged but Right del country man Riley Puckett, 1934. Si va ancora più indietro per l’esuberante Some of These Days di Sophie Tucker, regina e sciantosa del varietà d’inizio secolo scorso (ben descritta in un interessante breve saggio di L. Federighi che divorai anni fa in una notte insonne in Toscana, “Red Hot Mamas, colori ed emozioni blues nel vaudeville bianco”). Ancora bell’intreccio di corde, con il mandolino di Massimo Gatti e la chitarra acustica di Leo Di Giacomo.

L’innuendo Cigarette Blues di Bo Carter ha la presenza del singolare chitarrista Bob Brozman (1) alla slide resofonica, mentre alla voce (e all’altra chitarra) dev’essere De Bernardi dato che non è indicato diversamente, e di nuovo il canto mi stupisce ed è evidenza che ha tutto ciò che serve a un solista, come ognuno qui. Beedle Um Bum, dall’incipit di kazoo e il passo marcato dal contrabbasso, è un divertente hokum blues che negli anni 1920 gli Hokum Boys portavano in giro per il Tennessee, con entrambe le voci (e gli strumenti) dei due, mentre il rassegnato moanin’ They Ain’t Walking è uno degli influenti brani di Lucille Bogan (alias Bessie Jackson) ispiranti una larga schiera di blues singer maschi e femmine; qui Veronica rimanda, con le dovute proporzioni, a Victoria Spivey.
Miss the Mississippi and You è il primo brano “quieto” ed è una splendida ballata country di Jimmie Rodgers con accenno yodel della cantante, poi supportata da Bob Brozman in Sweet Papa (Mama’s Getting Mad), con canto ancor più rétro e muliebre, ispirato da Aileen Stanley che l’incise nel 1920. La canzone originale è al maschile, Sweet Mama (Papa’s Getting Mad), e appartiene al trio Fred Rose (il co-fondatore della potente compagnia Acuff-Rose di Nashville), George Little e Peter Frost, ed evidentemente ebbe molto successo se fu ripresa più volte nello stesso anno, dalla Original Dixieland Jass Band (l’ho presente in una compilazione dedicata al gruppo, forse è la prima versione) a Marion Harris, che la registrò a New York per Columbia, e nel 1929 anche il minstrel nero Emmett Miller fece la sua.
Non un momento di noia o ridondanza neppure in due episodi dal carattere più dolente, Gonna Lay down My Old Guitar, eccellente duetto imparato dai Delmore Brothers, e la commovente, poetica The Last Kind Words (la mia preferita del disco) di Geeshie Wiley, dalle liriche evocative ben rese dall’inscurimento “attivato” dalla cantante e dal suono corposo della chitarra, entrambi con ammirabile semplicità; il paragone è impegnativo, ma mi ha ricordato gli episodi acustici di Big Mama Thornton con Fred McDowell.

Non potevano mancare in sequenza due amici/rivali come Big Bill Broonzy e Memphis Minnie, come in uno di quei contest in cui i due si sfidavano davanti al pubblico, il primo reso da De Bernardi in Keep Your Hands off Her, accompagnato dalla voce e washboard della collega, la seconda da Veronica in Long as I Can See You Smile, accompagnata dal mandolino (credo) di De Bernardi nelle veci di Charlie McCoy.
Il chitarrista è solitario per Kentucky Blues del texano George ‘Little Hat’ Jones, ritrovandosi poi tutti per uno stomp da festa paesana, Charming Betsy, di uno dei padri del blues, Henry ‘Ragtime Texas’ Thomas, uptempo vorticoso impreziosito dall’armonica di Sugar Blue a chiudere le danze.
Come s’è capito il disco è a base di old time music, primo blues/jazz, folk, popular songs e musica da jug band, e per preservare il più possibile i suoni naturali è stato registrato in mono con uso di microfoni panoramici e missato su nastro via consolle analogica.
Da premiare sono la sinteticità, la leggerezza e la credibilità di queste versioni che mantengono la natura di intrattenimento degli originali, ereditati dall’ethiopian minstrelsy e dai medicine show, suonati nei teatri del circuito blues/vaudeville, sotto i tendoni del circo, nelle feste, negli accampamenti e nei campi di lavoro, nei juke-joint, bordelli e barrelhouse, agli angoli delle strade e nelle sporche bettole delle città americane all’inizio del secolo scorso.


  1. Aggiornamento: Bob Brozman è scomparso il 23 aprile 2013.[]
Scritto da Sugarbluz // 27 Aprile 2012
È vietata la riproduzione anche parziale di questo articolo senza autorizzazione

Potrebbero interessarti anche...

2 risposte

  1. Mark Slim ha detto:

    Se capitano dalle vostre parti andate a sentirli perchè in Italia sono il TOP del BLUES pre war. Suonano con il massimo rispetto della tradizione Blues e con passione, cosa ormai rara!!!

  2. Sugarbluz ha detto:

    Sono d’accordo, e aggiungo che se magari nella stessa occasione ci fosse anche Mark Slim si farebbe tombola. Mark Slim è italiano e l’hanno chiamato al Navasota Blues Fest in Texas, ma non al Rootsway di Parma, ad esempio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.