George Guy (1936, Lettsworth, Louisiana), detto Buddy Guy, cantante e chitarrista del Chicago blues, negli anni 1960 sessionman da Chess Records per i suoi artisti principali, come Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Sunnyland Slim, S.B. Williamson II, Koko Taylor.
Adolescente, vede Guitar Slim al Masonic Temple a Baton Rouge (per Baton Rouge, v. sotto): da lui prenderà le prodezze sul palco e gli istrionismi chitarristici, da B.B. King lo stile allo strumento, almeno come ideale giovanile (in maturità sarà altra cosa), e il canto appassionato, tenorile, aggraziato da un focoso falsetto, come se pregasse (carattere presente anche in Guitar Slim tra l’altro, ma in modo più rustico).
È proprio sulla scena di Baton Rouge che fa i primi passi alla metà degli anni 1950, suona con ‘Big Poppa’ Tilley e Raful Neal, e registra dei demo per il dj WXOK ‘Diggie Doo’ Meaders, che li manda alla Ace Records di Johnny Vincent, ma al tempo rimangono inediti; si tratta di Baby Don’t You Wanna Come Home e The Way You Been Treatin’ Me. C’è poi un terzo brano, il bellissimo I Hope You Come Back Home, a lui attribuito, ma controverso perché sia voce che chitarra non sono così inequivocabili. Nelle note dei dischi Flyright I Ain’t Got No Money e The Legendary Jay Miller Sessions Vol. 55 si suppone che sia Buddy Guy e si dice che il brano è stato trovato nel 1978 in un nastro la cui scatola è intestata a Lonesome Sundown, aggiungendo che “è noto” che almeno in un’occasione Guy si recò a Crowley per accompagnare Lightnin’ Slim, e che quindi J.D. Miller potrebbe averlo registrato in prova. Una cosa mi pare sicura: non è lo stesso studio in cui sono stati registrati gli altri due brani, l’effetto eco e l’accompagnamento sono del tutto compatibili con lo studio di Miller, non solo come sonorità ma anche come arrangiamento e strumentazione, gli stessi proprio di certi dischi di Lonesome Sundown (ma è evidente che non è lui, e Miller lo faceva di aggiungere brani, anche se altrui, nel primo pezzo di nastro libero che trovava). Li hanno messi tutti e tre insieme nel disco This Is The Beginning: The Artistic, Cobra & U.S.A. Sessions, e nei crediti sono tutti identificati come “WXOK demo take”; solo quello controverso è datato 30 maggio 1957, a B.R., e con la partecipazione del fratello cantante e chitarrista Phil Guy (1940-2008).
Si trasferisce a Chicago nel 1957 mirando alla Chess, ma dapprima riesce solo a registrare un singolo per Cobra (prodotto da Willie Dixon); l’unico sfogo sono le notti infuocate nei club della città, in cui compete con i coetanei Otis Rush e Magic Sam, tutti e tre alfieri di un blues urbano più aggressivo di quello dei padri una ventina d’anni più vecchi, gli stessi che circa dieci anni prima hanno portato su e sviluppato il blues rurale del sud in qualcosa di nuovo, elettrico e sensazionale che ha cambiato volto e carattere della musica a Chicago.
Entra in Chess nel 1960 e vi rimane fino al 1967; in questo periodo come artista solista fa circa una dozzina di sessioni, di cui non tutto è pubblicato all’epoca: i singoli non lo rendono famoso ma alcuni hanno un discreto successo, Leonard Chess però lo preferisce nel ruolo di musicista da studio perché come solista considera il suo stile troppo chiassoso, aggressivo e carico di overdrive. Il che è strano perché, se è vero che come accompagnatore è controllato, simpatetico, versatile, affidabile, è anche vero che nei brani Chess da solista è tutt’altro che fuori controllo e i migliori sono splendidi, eleganti, con bella cornice di fiati, incendiari sì, ma non per effettistica (tra l’altro non usa effetti, neppure dal vivo, se non il feedback, e il vibrato è ottenuto come quello di King) quanto per intensità, mentre l’istrionismo, anche sonoro, lo riserva al palcoscenico. Per riassumere al meglio gli anni Chess consiglio Buddy’s Blues (The Legendary Master Series di Chess).
Nel 1965 registra per Delmark con uno pseudonimo (Friendly Chap) perché ancora sotto contratto Chess: il bellissimo disco Hoodoo Man Blues, epitome del Chicago blues dei tempi (e in generale) è intestato all’amico Junior Wells, con il quale farà coppia dal vivo e in studio per molti anni, ma è suo in parti uguali. Nel 1967, con la consacrazione pubblica di Guy da parte di Jimi Hendrix (da lui fortemente influenzato) e delle nascenti star del rock-blues inglese (Clapton, Beck, ecc.), e del successo dei loro dischi suonati in quel modo che non piaceva a L. Chess, quest’ultimo s’accorge d’un tratto della potenzialità commerciale di Guy, che quegli artisti hanno scelto come uno dei loro paladini, e decide di pubblicare un suo primo album. È troppo tardi, Guy ha firmato con Vanguard e questa prima uscita per l’etichetta, prodotta da Sam Charters, è da considerare il suo vero, bellissimo primo album (A Man and the Blues), con Otis Spann, Jack Myers, Wayne Bennett, Fred Below.
Chess nello stesso anno pubblica l’altro “primo” album di Guy, mi pare prendendo ciò che secondo loro poteva aver più successo nell’era del rock-blues bianco tra i brani registrati in quegli otto anni, anche inediti (pochi in comune con Buddy’s Blues, dove c’è veramente il meglio); anche il titolo, che non c’entra nulla, pare una strizzatina d’occhio al Flower Power: Left My Blues in San Francisco.
In quegli anni viene in Europa con l’American Folk Blues Festival (v. sotto); delle critiche che subirà ho già scritto in uno di quegli articoli. Rimane tuttavia abbastanza sconosciuto al grande pubblico anche negli anni seguenti, passati a suonare dal vivo, fino alla rinascita discografica nei primi anni 1990, quando raggiunge un successo commerciale più mainstream e con sonorità inflazionate, ed è acclamato da tutti come una star del blues. Si impegna anche come gestore di club, almeno tre: il Joe Howard’s Club 99 (dal 1959 al 1961) a Joliet, Ill., il Checkerboard Lounge nel South Side di Chicago (1972-83) e dal 1989 il Buddy Guy’s Legends.