Articoli in riferimento a: Lightnin’ Hopkins

Sam John Hopkins (1912-1982), alla storia come Lightnin’ Hopkins, originale, carismatico, prolifico e influente cantante e chitarrista country blues e blues elettrico del secondo dopoguerra, nato in una località chiamata Warren’s Bottom nei pressi di Centerville, a metà strada tra Dallas e Houston (e tra i fiumi Brazos e Trinity), East Texas, e cresciuto nella vicina Leona, altra piccola comunità rurale qualche chilometro a sud.
La sua discografia è vastissima, e va da un suono rurale a uno più urbano o, meglio, da suono acustico a elettrico, perché il suo rimarrà sempre un blues rustico da juke joint senza compromessi o abbellimenti, vivo e impellente, e lui uno storyteller solitario con un senso drammatico della performance ma anche una visione umoristica, espressa con voce arida e risonante avente radici negli holler e nei work songs, con stile melismatico e note lunghe che potevano espandersi in un fraseggio più sciolto e conversatorio, o nell’uso del talking blues.
Cambia il paesaggio circostante, ovvero ciò che si vedrebbe nello sfondo di un quadro che ponesse lui in primo piano: la verde campagna piatta dagli orizzonti boscosi delle small town texane in cui crebbe, il grigio e desolante territorio urbano dei quartieri afroamericani di Houston dove trovò il suo nido e il suo pubblico, o le platee variopinte di facce bianche nei piccoli e grandi happening americani o nei teatri europei all’epoca del folk-blues revival, e il suo contingente calarsi in uno o l’altro ambiente, improvvisando e riferendo fatti, umori e sensazioni del momento, del luogo, creando e ricreando in un continuo “rinnovamento” del suo materiale.
Lightnin’ Hopkins, in qualsiasi contesto, rimaneva ciò che era. Uno spirito arguto, ma duro, sfacciato, diffidente al punto da pretendere il pagamento prima dell’esibizione o della sessione in studio, e da rifiutare anche la stanza più appartata, elegante e tranquilla a casa dell’ospite più discreto, se la porta non aveva la chiave per chiudersi dentro.
All’epoca della sua giovinezza il farsi la fama di avanzo di galera tosto e violento, uno da temere nonostante un fisico non robusto, era questione di sopravvivenza in un mondo difficile, ma ai tempi del blues revival degli anni 1960 il passare per vittima sopravvissuta a varie ingiustizie, insieme al suo stile musicale “altero” e al suo affascinante passato con Blind Lemon Jefferson, aumentarono di sicuro il mito attorno al suo personaggio di hipster urbano, cool, coadiuvato dalla sigaretta appesa all’angolo della bocca e dall’enigma celato dietro gli impenetrabili occhiali neri, in continuità con una carnagione molto scura (tra i suoi era chiamato “Black Snake”). Un apparente contrasto con la sua personalità più intima, che in fondo si identificava anche in quella di un country boy che per lungo tempo fu restio a viaggiare, e sempre pronto a ricordare con affetto la madre.
Era specialista nell’arte del “make-up”, cioè la capacità di improvvisare non tanto inventando nuovi versi sul momento, ma pescando all’istante dalla memoria, fra i tanti versi dell’immaginario blues, quelli che sembrano appropriati in un dato contesto. Naturalmente, altri lo facevano: il make up è un modus operandi tipico del blues tanto che ne è stato designato un termine, ma la sua abilità di improvvisazione in questa pratica era particolare (non solo dal punto di vista testuale ma anche strutturale), uscendone brani originali marchiati dalla sua voce unica e dal suo riconoscibile, personale stile chitarristico formante un vocabolario esteso per il modo in cui poteva lavorare attorno a uno stesso riff scomponendolo e invertendo le sue parti, con note tenute, pause, bending, misure accorciate o allungate a piacere. Anarchico nel gestire il tempo musicale (come fu uno dei suoi ispiratori, il cantante Alger ‘Texas’ Alexander), poteva rendere la vita difficile a batteristi e bassisti, e ancor più con l’andare degli anni, quasi come se la sua statura di performer diventasse sempre più autonoma e irraggiungibile.
Nella sua famiglia tutti facevano musica, e Sam suonava anche l’organo e il piano in chiesa (altra grande influenza), imparati a orecchio. Cominciò presto a suonare la chitarra guardando due suoi fratelli maggiori, John Henry e Joel (anche loro poi registreranno), e altri musicisti della comunità.
A otto anni ci sapeva già fare quando incontrò per la prima volta Blind Lemon Jefferson, durante la settimana annuale dell’Associazione della chiesa battista a Buffalo, Texas. Il chitarrista non era ancora il blues singer più noto dei tempi come lo sarà a partire dalle sue prime registrazioni del 1925, ma era già rispettato e importante, e impressionò per la vita il giovane Sam. Jefferson gli permise di stargli accanto e gli diede il suo incoraggiamento. In quelle occasioni il piccolo ripeteva ciò che faceva il chitarrista cieco, ma negli anni seguenti Jefferson divenne il suo mentore prendendo il ragazzo sotto la sua ala, tornandogli utile soprattutto come guida.
Il secondo incontro fatale avvenne quando aveva circa vent’anni, con il cantante atipico Alger ‘Texas’ Alexander (1900-1954), nato e cresciuto tra Jewett e Normangee. Alexander si trasferì a Dallas nel 1927, e fu tra i musicisti che animarono i locali e le strade di Deep Ellum. Grazie all’intercessione del pianista Sam Price, registrò a New York per OKeh, accompagnato da Lonnie Johnson, e in seguito per Vocalion. Aveva una voce profonda e affascinante e vendette molti dischi, ma non seguiva il tempo e cambiava tonalità all’improvviso, cose che gli resero difficile essere accompagnato. Per questo gli affiancarono i migliori musicisti del tempo, come Johnson appunto o Eddie Lang. Fu supportato anche da Clarence Williams e dalle band di King Oliver, oltre che da musicisti di fama più regionale ma altrettanto esperti, come Little Hat Jones, e i Mississippi Sheiks.
Hopkins prese a girare con lui accompagnandolo alla chitarra, governando l’anarchia del canto di Alexander, derivato direttamente dai field holler e dai work songs, una volta che ebbe imparato le sue canzoni. Non solo con lui capì che avrebbe potuto guadagnarsi da vivere suonando, evitando il tanto odiato lavoro nei campi, ma anche fu molto influenzato dai suoi brani per i contenuti e l’ironia amara. Imparò a enfatizzare i versi e la necessità di rimare anche a spese della metrica, e il potere dell’improvvisazione.
Nel 1934 i due sbarcarono a Houston suonando nelle strade del Fourth Ward, ma nonostante la città avesse grande attrattiva su Hopkins, lo fece sentire anche fuori luogo tanto da tornare dalle sue parti. Forse l’unione si interruppe quando Sam fu condannato a una pena da scontare ai lavori forzati (“I wore ball and chain…”); probabilmente a quel punto aveva già la fama di “jailbird” per la sua capacità di mettersi nei guai e di andare e venire dalla prigione. Tuttavia i durissimi e lunghi mesi passati incatenato alla caviglia giorno e notte, a lavorare nelle chain gang, più una precoce maturità, lo convinsero a cambiare strada, e nel 1938 si poté ritenere libero.
Tornò a Houston nell’immediato dopoguerra, vivendo e suonando nel quartiere del Third Ward, in particolare a Dowling Street, arteria della vita musicale afroamericana cittadina, e area che lo accolse per il resto della sua vita, anche dopo il successo internazionale.
Ormai questo testo è troppo lungo per affrontare anche solo qualche accenno alla sua enorme discografia, che iniziò nel 1946 dopo esser stato notato dalla talent scout Lola Anne Cullum (già manager di Amos Milburn), in forza alla losangelena Aladdin Records, che lo convinse a recarsi a Los Angeles, dove lo accoppiarono con il pianista Wilson Smith. Qui nacque anche il suo soprannome, Lightnin’, affibbiato dalla casa discografica (forse da Eddie Mesner, che produsse la sessione), così come quello di Thunder a Wilson Smith.
Vedi altro negli articoli sotto, ad es. in “Houston, Texas 2010” (Gold Star Studios di Bill Quinn, omaggi per Lightnin’ Hopkins a Centerville e Crockett, Third Ward, residenza e tomba a Houston).

Peacock Records, Houston

Houston, Texas 2010

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